diario da Port-au-Prince. Il viaggio.

Lascia perde che la gente ridotta a cadavere sta in mezzo alla strada da giorni. Lascia perde che come te giri trovi palazzi schiacciati come dei sènduicc. Lascia perde pure che le strade brulicano di persone che non si sa che cazzo fanno, do vanno, che non si capisce che cazzo dicono, che manco loro sanno che stanno a fa. Lascia pure perde che gli ospedali che sono rimasti in piedi sono stracolmi di poveracci a pezzi, e di fuori c’è gente che aspetta. Quello che proprio non si riesce a sopportare è l’idea che il peggio comincia mo.

Arrivando dalla strada sterrata che dalla Repubblica Dominicana porta a Port-au-Prince uno arriva piano piano dall’America latina all’Africa. Le facce, le espressioni, la lingua, un creolo bastardo che ha di francese molto poco che comunque non si capisce.

Poi si arriva alla capitale. Si capisce perché ci sono i palazzi. No. Si capisce perché ci sono tutti dei mucchi di robba sfondata che se uno ci guarda bene e ha immaginazione potrebbero essere stati palazzi.

Le strade sono piene di gente che cammina cammina cammina. Loro vanno. cercano di uscire. Cercano di entrare. si spostano. E tutti hanno una faccia a punto interrogativo.

C’è un gruppo di gente ammassata al bordo della strada. non del marciapiede perché mi sa che qua marciapiede non ci sta manco sul vocabolario straniero/creolo, proprio sulla strada dove scorre un rigagnolo di acqua sporca vicino a una specie di tubo che spunta da terra. Lì si prende l’acqua. Da bere.

Tra qualche giorno una dottoressa che viene dal Cile a riconoscere i cadaveri negli hotel mi dirà che la malaria e il colera si trasmettono bevendo acqua infetta con gli umori dei cadaveri lasciati per strada. Ma questo adesso ancora non lo so. E non ho ancora visto il sorriso stanco di questa donna mentre cerca di spiegarmi l’orrore. Per cui per me sono solo persone che si procurano l’acqua in questo primo pomeriggio torrido di Haiti. Sono passati poco meno di tre giorni dal terremoto e non si cammina per la strada.

La nostra formazione, partendo alle 2 di notte accodati al convoglio CNN con una Honda ad assetto ribassato da Santo Domingo 12 ore fa è la seguente: al volante Juan, un taxista dominicano che si fa un sacco di risate fino alla frontiera, pure se gratta pesantemente l’albero motore e la coppa dell’olio ad ogni cazzo di dosso (contati almento 17mila). Dopo la frontiera capisce che ha fatto una cazzata a farsi trascinare qui. Capisce che la macchina la butterà. Se non se lo mangiano prima. Chiede informazioni in spagnolo alle donne sul ciglio della strada (che con ogni probabilità potrebbero ucciderlo a mani nude in tre mosse) rivolgendosi a loro dicendo “hola morena, como ehtá?”. Credo che pensasse che Port au Prince fosse un quartiere popolare di Santo Domingo.

A lato del pilota c’è il fotografo di Centocelle che vive nella Repubblica Dominicana, Emiliano Larizza. Capelli ricci biondastri tenuti in una coda alta. Occhio azzurro e macchina fotografica sempre in mano. Parla uno spagnolo con accento romano, poi all’improvviso parla romano con tutti. E tutti lo capiscono. Ha un cuore gigante e divide con tutti le razioni di crackers e barrette energetiche. A vederlo così non diresti che tra una settimana gli pubblicano un intero reportage sul Guardian. Soprannome: “er Principe”

sedile posteriore. Alla sinistra il Maestro Fabietto Cuttica. Uno dei membri anziani della spedizione. Fotografo raffinato noto nell’ambiente della malavita colombiana. Vive a Bogotà. è un fotografo Contrasto, riccetto, brizzolato, occhialetti e battuta sempre pronta. Grazie al fatto che è uno di quelli che piace alle donne ma anche alle loro madri, il suo soprannome di battaglia sarà: “Cutie”

Nel mezzo, buttato, accartocciato, lamentoso, alla continua ricerca di un cellulare (tanto che alcuni giorni dopo verrà accusato ingiustamente di volerne rubare uno dalle mani di una donna rimasta sotto le macerie, informazione poi smentita completamente), il mio fratello colombiano, l’ex rasta, quello che si è trasferito in Colombia per l’unica ragione che vale veramente la pena, la fauna femminile senza pari. Il fotoreporter d’assalto Simone Bruno. Nome di battaglia, a causa della storia del cellulare e di altre situazioni estreme: “lo Sciacallo” (o semplicemente “Shacky”)

Infine sul lato destro della macchina risiedo io. Il vostro reporter preferito. Che ancora non capisce cosa sta facendo qui, quando 24 ore prima era intento a trovare un buon posto per mangiare con una donna nella rutilante vita cosmopolita di Città del Messico. Nome di battaglia che mi porto appresso da avventure precedenti: “el Zopilote” (che vuol dire avvoltoio). Ma qui, dato che ho scritto un romanzo di grande successo, che ancora non è stato pubblicato mi chiamano: “er Famoso” (anche per una torbida storia di sesso di cui si racconterà nelle mie biografie)

Dunque l’ingresso in città non è affatto trionfale. Rimaniamo bloccati tra le tragedie altrui per un’ora. Prima di capire che dobbiamo cercare al più presto una base operativa.

Intorno a noi c’è la morte. Ma noi cominceremo a vederla nei prossimi giorni. Per ora cerchiamo un riparo. O magari un pavimento su cui dormire.

La giornata sarà ancora lunga. Ma qui la luna avanza e i ricordi faticano ad affiorare. Seguirà nei prossimi giorni il racconto.