diario da Città del Messico. va bene narco, che dobbiamo fare?

È finalmente passato il 15 settembre. Il bicentenario ce lo siamo tolti dalle palle una volta per tutte. Dopo la sfilata militare che è costata al governo più del presupposto per la sanità e l’educazione messi insieme, dopo le bevute colossali che hanno accompagnato i messicani nel loro ponte del 15 settembre, dopo tutto questo, si torna a lavorare.
Si torna a leggere i giornali. Ecco. Apro il Diario di Ciudad Juárez qui e leggo una lettera del direttore. La traduco per chi mi legge. Inizia così:
” Signori delle differenti organizzazioni che si disputano la piazza di Ciudad Juárez: la perdita di due giornalisti di questa casa editoriale in meno di due anni rappresenta un danno irreparabile per tutti quelli che lavorano qui, e, in particolare, per le loro famiglie.
Vi rendiamo noto che siamo comunicatori, non indovini. Pertanto, come lavoratori dell’informazione vogliamo che ci spieghiate cosa volete da noi, cos’è che pretendete che pubblichiamo o smettiamo di pubblicare, per sapere come comportarci.
Voi siete, in questo momento, le autorità de facto in questa città, perché i rappresentanti istituiti legalmente non hanno potuto fare nulla per impedire che i nostri compagni continuino a cadere, nonostante il fatto che noi lo abbiamo richiesto reiteratamente.
È per questo che, a fronte di questa realtà inobiettabile, ci dirigiamo a voi per chiedervi cosa fare, perché l’ultima cosa che vogliamo è che un altro dei nostri colleghi sia vittima dei vostri proiettili”. E poco più avanti (la lettera è abbastanza lunga e appassionata) si legge “Perfino in guerra ci sono regole. E in qualsiasi conflitto esistono protocolli o garanzie nei confronti delle parti in causa, per salvaguardare l’integrità dei giornalisti che se ne occupano. Per questo vi reiteriamo l’invito, signori delle diverse organizzazioni del narcotraffico, a spiegarci cosa volete da noi, per smettere di pagare il tributo di sangue dei nostri compagni”.

Ecco, dicevo che uno qui si alza e legge questo, che è un po’ come se io vivo a Bolzano, per dire, e compro l’Alto Adige, e in prima pagina leggo una lettera del direttore che dice queste cose.

E penso alle immagini dell’arresto di Edgar Valdez Villareal, alias La Barbie, uno dei capi del narco più sanguinari e ricercati, arrestato il 30 agosto nell’Estado de México. Penso al suo volto sorridente, sarcastico. Come uno che non ha nulla da temere, come un ragazzino furbetto che viene messo in castigo dai genitori per aver mangiare di nascosto la nutella, ma che sa che non lo beccheranno mai per aver pestato a sangue tutti i suoi compagnucci.

Rileggo questa lettera aperta e penso ai festeggiamenti dell’altra sera, del 15 settembre, quando centinaia di migliaia di persone ubriache e festanti apprezzavano nel Zocalo Capitalino i meravigliosi fuochi d’artificio e i carri e le meravigliose scenografie della festa del bicentenario. Si festeggia e si grida Viva Messico.

È lo stesso paese in cui c’è un’altra città, la più ricca di tutte, in mezzo a un deserto. Si chiama Monterrey. È tra le città più ricche dell’America latina, è pieno di fabbriche (tutte le birre messicane le fanno qua, per dirne una!) di industrie e industriali, di progresso e modernità. Ecco. Se tu vai all’università più prestigiosa di Monterrey, il Tecnológico di Monterrey, ci trovi tutta la crema della società messicana.

Un giovane amico rugbista che studia ingegneria meccatronica al Tec mi ha raccontato come è composta la fauna studentesca del suo campus. Dice che il 40% degli studenti sono figli o parenti di capi delle famiglie del narco. Essi vanno al Tec, con le guardie del corpo armate, a studiare legge, economia, ingegneria, per amministrare i patrimoni delle loro famiglie. Essi vanno all’università con le mercedes tempestate di diamanti (letteralmente). E a Monterrey il narco è così presente che è meglio che non ci vai a Monterrey.

Allora tornando a questa lettera, a questi racconti, ai festeggiamenti, ti viene voglia di raccontare storie, di far parlare i morti, o quelli che lo saranno presto, perché si sappia cosa succede da queste parti, invece di ubriacarsi a morte e gridare viva México. Ecco, in Italia uno rinuncia a provarci, perché tanto se non parli di fica, di Berlusconi o di vacanze non ti si fila nessuno. Però credo sia necessario testimoniare la deriva di questo paese. Non foss’altro per poter scrivere sulla mia lapide “ve l’avevo detto”.

diario da Chahuites. cavalcando la Bestia (parte seconda)

E dunque inizia lo show. Gente che si lancia dal treno in corsa, nel buio della sera. Ombre che saltano verso l’ombra. Le grida, da terra, si fanno più vicine, finché il treno si ferma del tutto. La prima cosa che facciamo è buttarci a pancia sotto sul tetto del treno, hai visto mai che parta qualche proiettile e decida di piantarsi in mezzo alla fronte dei valorosi giornalisti frilènz. Le voci degli uomini incappucciati dicono cose tipo “figli di puttana scendete da quel cazzo di treno o vi ammazziamo tutti” e amenità simili.

Non si vede un cazzo a parte i lampi di luce sparati dalle torce dei nostri nuovi amici. Il paese è un po’ distante. Sul treno non c’è quasi più nessuno, tranne noi e un povero migrante ubriaco rimasto tramortito dall’alcol ingurgitato nelle ore di attesa ad Arriaga e steso bocconi a pochi metri da noi.

Sul tetto del treno si arrampicano un paio di incappucciati. Ora da vicino si riconosce la divisa. Si tratta della Polizia Federale. Da vicino vuol dire che uno degli agenti mascherati è salito sul nostro vagone e ora mentre noi mostriamo alla luce della sua potente torcia le nostre identificazioni di giornalisti, lui ci punta in faccia un M16, quei fucili ad alto potenziale che vanno tanto di moda da queste parti. E daje de insulti e minacce di morte. Noi, solidi sulle nostre posizioni non cediamo di un passo, puntando tutto sul fatto che evidentemente deve trattarsi di un’arma giocattolo e presto l’agente ci dirà che è tutto uno scherzo.

Nel frattempo di sotto hanno fermato un centinaio di nostri compagni di viaggio. Li hanno stesi su quattro file faccia a terra. Per essere più convincenti i trenta federali spintonano, alzano la voce, le mani, schiacciano le facce della gente nella polvere del suolo con i loro anfibi ben lucidati. Noi ora decidiamo che abbiamo fatto capire le nostre ragioni e allora possiamo anche acconsentire e scendere da questo treno.

A terra non c’è nessun rappresentante dell’ufficio migrazione. Il che rende automaticamente illegale questa operazione dei federali. Altro elemento che la rende illegale è il fatto che questi amabili tutori dell’ordine sparano un po’ per aria, cosa proibita. Ah e altra cosa che forse rende illegale l’operazione è il fatto che si mettono a rubare soldi ai migranti. Tutto quello che hanno. Sistematicamente, per poi lasciarli andare nella notte, in balia dei violentatori e assassini che si nascondono nel buio.

I migranti che rimangono in arresto sono quelli che, sfigati, non avevano una lira addosso. Sono 47, e verranno trasferiti, un’ora e mezza dopo, negli uffici di migrazione, da dove verranno rimpatriati nelle loro case di fango in centroamerica.

Noi siamo testimoni di questa messa in scena. Ci provano a minacciarci, a intimidirci, ma noi con l’aplomb che ci contraddistingue e forti del fatto che siamo europei e giornalisti e soprattutto bellocci, non ci scomponiamo.

Loro lo capiscono e dopo una mezz’ora di minacce decidono che non possono nulla contro la libertà di stampa e desistono.

Quello che ti resta addosso, piantato nel petto è la sensazione chiara di impotenza di fronte a un abuso. La normalità della logica del più forte, tanto comune e tanto opprimente.

Qualcuno dei coraggiosi e folli viaggiatori arriverà a realizzare quel sogno, costruire le case dei ricchi in California, in Oregon, in Carolina del Nord. Dimenticherà le difficoltà o ne farà tesoro. Ma ne arriveranno altri, ognuno dei migranti porta con sé la vita di tutti quelli che lo hanno preceduto e che lo seguiranno. Ogni presente di ogni migrante è la ripetizione di una storia fatta di miseria, orrore e sogni, e di attraversamento di frontiere.

diario da Chahuites. cavalcando la Bestia

In cima alla bestia ti ci devi arrampicare. Il tetto di lamiera scotta quando ci appoggi una mano sopra. L’aria è calda e umida e ti si appiccicano i vestiti addosso. Sul vagone io e Cutie ci sistemiamo insieme a un gruppo di honduregni che seguiamo da giorni. C’è Henry, che viveva in New Jersey, ha perso la moglie ed è stato deportato pochi mesi fa perché l’hanno beccato a guidare senza patente. E senza documenti migratori. Fila subito a casa tua, figlio di mignotta indocumentado, gli hanno detto, sì ma ho una bambina di un anno e mezzo. Cazzi tuoi. Ora monta la bestia.
C’è Cristian, che dall’Olancho, una zona rurale dell’Honduras, ha lasciato moglie e tre bambini e la sua lotta, perché lui era nella resistenza contro il colpo di stato che tutti hanno dimenticato. è nato nel paese a fianco a quello di Isis, il ragazzino a cui l’esercito del suo paese ha fatto saltare la testa il 5 luglio dell’anno scorso. Era al suo funerale. Pure io, gli dico, certo dice lui, mi ricordo, eravate un gruppetto di giornalisti. E ora me lo ritrovo qui a cercare di arrivare a nord. Perché i miei figli mica voglio farli crescere in quella merda, mica voglio farli crescere come degli sfigati.
Poi c’è Oscar. Lui questa strada l’ha già fatta poco tempo fa. Col figlio. Lo ha fatto passare dall’altro lato. Poi la border patrol li ha beccati. Oscar si è sparato 3 mesi di galera e poi è stato rimandato affanculo a casa sua. E mo lui ci riprova, vediamo chi c’ha più tigna.

Al tramonto viaggiamo col vento in poppa alla mirabolante velocità di 23 kmh su questa macchina infernale. Dice, 23 chilometri che cazzo sono? fai prima a piedi. Ecco, pare che se provi a buttarti da un treno in corsa a 23 chilometri orari ci sono ottime possibilità che ti frantumi sulle roccette che si stagliano ai lati della ferrovia. Poi pare anche che se ti ritrovi nel tuo vagone un paio di mara salvatruchas, quei simpaticoni con i numeri tatuati sulla faccia, è frequente che ti portino via tutto e ti sparino qualche pallottola in faccia, se non fai il bravo. Sempre perché col cazzo che ti butti da un treno in corsa. pure se corre come un ciccione in salita.

Sul nostro vagone di prima classe viaggia anche il nostro Virgilio, Juan de Dios, che come ricordavo in un altro post, è un pachiderma di 200 chili di esperienza. Ce l’hanno caricato a forza qua sopra, un po’ perché i migranti sono solidali, un po’ perché faceva riderissimo vedere il panzone arrampicarsi sulla bestia, sudando e bestemmiando il suo stesso nome, che contiene un dio sadico e perverso.

Nell’amenità del tramonto qualcuno fa comparire un mazzo di carte. E daje de canasta! Una partita a carte tra contadini dell’entroterra honduregno consiste in gridare fortissimo, minacciarsi di morte e insultare le rispettive madri ripetutamente, fino ad esaurimento carte. Sul tetto della bestia fa più effetto perché rischi pure di cadere.

Fabio è legato a una corda che abbiamo assicurato al vagone, per poter scattare le magiche foto che illustreranno riviste patinate. Il ciccione si accascia sulla lamiera con aria compiaciuta. Io chiacchiero con Henry e mi giro sigarette che vanno a ruba tra questi signori.

Siamo davvero un’allegra combriccola di goliardi. Peccato che questi amici stanno rischiando il culo per arrivare a quella cazzo di frontiera che li separa dal SOGNO.

Sulle ali del vento maciniamo chilometri. Dopo tre ore abbiamo fatto l’equivalente di Roma-Ostia e ci accingiamo a entrare nel rigoglioso stato di Oaxaca. Il buio ci abbraccia e ci sentiamo bene. Cazzo finalmente abbiamo preso sto treno!

Poi la bestia rallenta. Dice, più piano di così? Sì. Ancora più piano. Pianissimo, quasi a passo d’uomo. La gente si azzitta. Smette di cazzeggiare. Santoddio, state migrando, mica andate in gita scolastica. Un po’ di serietà!

I primi lampi aprono squarci nel buio. Arrivano dai due lati della ferrovia. Insieme a grida scomposte. Vedi Henry aggrapparsi alla corda che era stata di Cutie e sparire nel buio. Vedi Cristian lanciarsi giù dalla scaletta come un orso che scende da un albero. Oscar non lo vedi proprio. Quel paraculo da mo che si è dato. Liquefatto. Evaporato. Siamo in mezzo a un operativo. Quegli stronzi stanno assaltando il treno! Sono cazzi nostri.

(fine prima parte)

diario da Arriaga. cavalcando la Bestia

Il caldo squaglia la carne e i binari, il sole arrossa la pelle sul cammino che porta al nord. Noi seguiamo i passi dei migranti che con fiducia affrontano il viaggio. Tra un assalto e una violenza, i centroamericani proseguono sulla strada per Arriaga, un paese polveroso e brutto al confine tra Chiapas e Oxaca.

Ad Arriaga a dire la verità non c’è proprio un cazzo di bello. Però ci passa la ferrovia. E come api sul miele lo sciame di migranti si lancia all’inseguimento della bestia. E noi dietro di loro, cercando di rubare momenti di vita di questa avventura che non ci appartiene ma che sentiamo stranamente nostra. Perché è la storia di tutti i migranti. è il viaggio di ogni uomo che cerca di migliorare le proprie condizioni e quelle dei propri figli appresso a un sogno, in questo caso quello americano. E avoja a dirgli che è un’illusione  quella capitalista, che non si sta poi tanto meglio a conti fatti. Facile dirlo quando si è nati a Monte Mario. Questi hanno preso coscienza di sé in mezzo a un fottuto campo di banane nelle campagne di Olancho, in Honduras. E giustamente inseguono il loro sogno americano. E che so più stronzi de noi?

E il reporter e il fotografo si fanno accompagnare da un vecchio lupo di Tapachula, il panzone Juan de Dios, che manco a farlo apposta si chiama come il tassista di Santo Domingo che ci ha portato eroicamente fino a Port au Prince, quel panzone che “pare che s’è magnato er fijo”. Ecco questo qua pare che s’è magnato er fijo e la madre. Però de treni ce capisce.

Quando arriviamo ad Arriaga iniziamo a capire un po’ meglio la follia di questo viaggio. Per arrivare qui i simpatici migranti si sono sparati 250 chilometri da Tapachula, che noi abbiamo percorso a 150 all’ora in macchina. Loro no. Loro devono affrontare i blocchi stradali di migracion. Ce ne sono 3 prima di arrivare in questo paradiso ferroviario. Se prendono un combi, un pulmino, devono pagare di più l’autista che li fa scendere all’altezza del controllo, quindi essi lo aggirano in mezzo al campo, e sperano di ritrovarci il combi ad aspettarli. Ma come in ogni videogioco che si rispetti, in mezzo al campo ci stanno i banditi che li aspettano con un bel machete in mano, o una pistola. O ci sono i Mara Salvatruchas, quei bonari omoni tatuati che ti fanno a pezzi  e mangiano le tue interiora ancora calde. Qui nel campo i Nostri devono correre di molto per sfuggire ai machetazos o ai colpi di pistola o alle pietrate, perché se li pigliano, i cattivi gli rubano tutto, li ammazzano di botte, li stuprano in gruppo o li fanno fuori. Questo se non c’è la polizia ad aspettarli. Se c’è la polizia cambia tutto, perché oltre a tutto questo la polizia li porta pure all’ufficio migratorio e se ne tornano affanculo a casa loro.

Mettiamo che uno riesca a fare tutto questo senza perdere la vita, o un arto. Arriva ad Arriaga e ancora non ha preso il cazzo di treno. Ha percorso appena 300 chilometri in terra messicana.

L’altro modo di arrivare ad Arriaga è seguire a piedi, per 250 chilometri, i binari del treno. Quei binari che fino a qualche anno fa erano percorsi dalla bestia ma che dopo l’uragano sono rimasti lì come una lunga ferita sotto il sole. A squagliarsi.

E ad Arriaga finalmente si prende il treno. Che parte quando vuole lui. Il treno piglia, arriva, carica merci e riparte. Quando gli pare. Senza orari.

Si vede gente ammonticchiata sui binari della ferrovia ad aspettare. Per giorni. A mangiare tortillas, fagioli, tonno, basta.

Noi aspettiamo pure noi, facendoci raccontare le loro storie, immortalando i loro volti. Ogni storia meriterebbe un blog a parte, ogni vita un’0dissea, ancora prima di affrontare questa.

Quello che accomuna tutti è lo sguardo fiducioso, quasi arrogante, di sfida a una vita di merda che non fa altro che schiacciarli a fondo. E loro, diocane, sempre a tirare su la testa dal fango. Svergognati. Spudorati. Si tirano su. e per farlo subiscono qualsiasi tipo di umiliazione, angheria, ingiustizia.

Forse il sogno americano consiste in questo, nel fondo. Forse è la giustificazione, lo stimolo a tirare su la testa per una volta, a intraprendere e sopportare il cammino.

Seduti all’ombra vicino ai binari si attende pazienti la bestia.

diario da Tapachula. cavalcando la Bestia

Insomma mi piomba a casa dalla Colombia uno dei cavalieri con cui ho condiviso la vacanza ad Haiti. È Cutie, alias Fabio Cuttica, fotografo che il mondo ci invidia.

Mi dice, oh, senti, ma che ne pensi se ce ne andiamo in giro per questo famoso Messico a raccontare le storie degli sfigati? Dico, ma te pare? Certo Cutie, stamo qui apposta. Dunque mi arriva a casa con tutte le sue mirabolanti macchine fotografiche.

Tempo due giorni siamo in volo verso Tapachula, amena città del Chiapas al confine con il Guatemala. Questo posto è famoso perché da qui partiva il treno della morte. Conosciuto anche come la bestia, il treno trasporta merci e migranti centroamericani. Prima partiva proprio da Tapachula, ma dopo l’uragano Stan, la stazione di partenza si è spostata a 250 km da qui, in una ridente località dal simpatico nome di Arriaga.

Tapachula ci accoglie col suo clima torrido. Noi siamo due giovani reporter intenzionati a indagare a fondo il tema della migrazione, scavando nei meandri della realtà. Prima tappa, il centro di accoglienza per migranti, la versione messicana dei CPT. Premesso che trattasi di carcere a tutti gli effetti, benché il responsabile della comunicazione si inalberi in definizioni molto più politicamente corrette, ad una prima occhiata non sembra poi così male. A dire la verità sembra molto meglio della scuola dove andavo alle medie. Un posto pulito, dove la gente mangia bene, si rilassa due o tre giorni, e accetta il fatto che verrà rimpatriata. Dico, è tutto molto triste, ma siete mai passati per un CPT?

Soddisfatti della gita ci lanciamo per le strade del sud del Chiapas insieme al Gruppo Beta. Essi sono dei baldi giovini che hanno il compito di assistere i migranti in cammino, dando loro acqua, tonno, crackers, informazioni legali. Sono funzionari migratori, ma non di quelli che ti rimpatriano. Diciamo che con la loro divisa arancione trasmettono una relativa sicurezza. In genere i migranti si fidano di loro, ma comunque ti rimane un po’ la sensazione che questi famosi Beta non è che facciano poi tutta sta differenza. Per carità, gli vogliamo bene, però diciamo che non sono proprio sti eroi.

Cutie scatta le sue foto. Io prendo appunti.

Accompagnati dai Beta ci appostiamo lungo i binari abbandonati della ferrovia. Gli amabili arancioni ci assicurano che con un po’ di pazienza riusciremo a beccare qualche migrante che ha appena passato la frontiera e che si dirige a piedi ad Arriaga. E fin da questo momento inizia a formicolarmi una sensazione ancora non ben definita, che si articolerà in seguito: e cioè che “i migranti” siano un po’ come della cacciagione, delle prede da spolpare un po’ da tutti.

Li aspettiamo, appostati lungo la linea, come si aspettano le anatre migratorie. Pronti a fare fuoco. Dopo il primo incontro con “i migranti” però capirò che non è esattamente così. Che l’altra parte di questa caccia, l’altra faccia, è che loro vedono in noi un megafono. Una possibilità di farsi sentire, di far ascoltare le loro storie, di far sapere cosa devono subire. Dunque cade l’annosa questione morale e si fa spazio il senso di responsabilità.

E dunque le storie. Il primo ad attraversare il ponte ferroviario rosso in cui ci siamo appostati è un ragazzo. È piuttosto una diva. Arriva sgambettando sudato gridando “llega la reina del sur” (arriva la regina del sud). Si chiama José, è hondureño e ha 30 anni. Vuole attraversare la frontiera “andare a fare scalpore nei locali di Los Angeles”.

José ha già fatto questo viaggio. Più di una volta. E finora gli ha detto bene, se si considera l’essere derubati un prezzo equo da pagare per realizzare il sogno americano. “Poi quando ho bisogno di tornare a casa, come ora, per vedere mia madre malata, mi consegno alle autorità, e mi faccio deportare in Honduras, così non devo pagarmi il viaggio di ritorno”.

Il gruppeto è composto di otto persone. Non tutte “esuberanti” come José. Tra loro c’è un paio di ragazze. Di loro nel cammino si perderanno le tracce. Alcuni degli altri invece li incontreremo di nuovo, nelle tappe successive.

I Beta consegnano le loro scatolette di tonno, l’acqua, danno blandi consigli. José si avvicina “lo so che nel cammino c’è un sacco di brutta gente. Ma non vi preoccupate. Se qualcuno vuole violentarci mi sono preparato, ho portato venti scatole di preservativi! se devono proprio farlo almeno che sia sesso protetto!!”

Io sono allibito dalla leggerezza e la determinazione di questa gente. Sanno perfettamente che la loro è un’impresa suicida. O nel migliore dei casi terrificante. E nonostante questo, nonostante la miseria che vivono nei loro paesi, affrontano questa odissea con uno spirito sereno, facendo dell’ironia sulla loro condizione.

Lasciamo il gruppo a riposare sulle rotaie abbandonate. Il loro salute sono risate argentine. La vita è sorella della morte e non c’è motivo di appesantire qualcosa che già di per sé è difficile.

Il cammino è appena iniziato

diario da Città del Messico. Vivete veramente in un paese di merda

Dall’esilio autoimposto nel Messico mi godo le giornate di sole, le giacarande in fiore e la vista dei vulcani dalla mia finestra. Seguo con disgusto le vicende elettorali del mio paese natale. La pseudo sinistra italiana becca l’ennesima sveglia alle regionali in regioni come il Lazio e il Piemonte, dove forse avrebbe potuto battere i neofascisti, i leghisti, i berluscones. Ma poi penso che no. Non aveva alcuna speranza. Pure troppo bene è andata.

Scrivo su feisbuc la mia opinione. Vivete in un paese veramente di merda. E vengo sommerso da commenti stizziti. Mi si dice che sono un irresponsabile cinico e che “è facile sparare sentenze da fuori”. Come se qui a me mi regalassero da mangiare. Come se partire da un paese di merda, che però è comunque il tuo, e ricominciare una vita fosse una situazione di lusso. Mi si dice che non sono rimasto a lottare. A lottare? Perché in Italia si lotta? E da quando? Quelli che nel 2001 hanno fatto spallucce di fronte alla sistematica distruzione di vere e originali alternative teoriche, avallando di fatto le violenze di stato, e il dilagare del berlusconismo adesso si radunano nelle piazze con bandiere e sciarpe viola, manco fossero ultrà della Fiorentina. Ora l’Italia è piena di eroi che lottano per la democrazia.

E chi se ne va è un vigliacco. E non ha più diritto di dire quello che pensa. Quello che ha sempre detto. Non ne ha diritto anche perché “ao, ma che cazzo voi? Manco vivessi in Svezia!” Come se il disgusto che provoca la vita politica e sociale dell’Italia potesse essere sviscerato soltanto vivendo in quello che viene considerato il paradiso delle democrazie. Anche il Messico è un paese di merda. Oggettivamente. Un paese di merda in cui sono vietati i crocifissi nelle scuole, in cui i gay si possono sposare, in cui se vuoi scrivere su un giornale perché ne hai le capacità lo fai e ti pagano, e bene. Un paese di merda che è pieno di merda, di narco, di corruzione, di violenza e omicidi, ma che non si pone con spocchia rispetto agli altri, non ha la velleità di insegnare nulla a nessuno. I messicani sanno dove vivono, e uniscono un ridicolo patriottismo a un realistico senso comune.

In questo blog non ho voglia di snocciolare le nefandezze che ogni giorno ci fanno vergognare di essere italiani, perché quelle si sanno, si scrivono, si urlano. E qui non c’è spazio per questo. In questo post voglio solo esprimere disprezzo e vergogna. E rivendicare il mio diritto e quello di tutti gli emigrati a farsi beffe del proprio paese. Di far rosicare chi è rimasto. Io ho scelto di vivere e di partecipare all’idea libertaria e solidale da qui. In Italia sarei stato un mendicante, un poveraccio, un fallito, e quale sarebbe stato il mio contributo al Mio Paese? E poi mi sono chiesto: ma cosa devo io al Mio Paese? Ma i miei ideali non sono forse sempre stati internazionalisti? E dunque il mio contributo lo do qui. Senza troppi rimorsi, senza paure, e senza vergogna.

L’Italia si merita esattamente ciò che ha. Ciò che abbiamo costruito o non abbiamo avuto i coglioni di demolire. Gli italiani si sono imborghesiti, si sono lasciati imborghesire dall’esterno. Mentalmente. E ora pagano il prezzo. Paghiamo. Ognuno a suo modo. Io, nel mio piccolo pago la distanza dalla mia famiglia, dai miei affetti, dai luoghi che amo, la distanza da quello che avrei voluto fare. E lo pago ogni giorno.

In cambio faccio quello che so fare per rimanere coerente coi miei valori, con le mie idee.

Vivete veramente in un paese di merda. È un fatto.

Rileggo queste righe prima di pubblicarle. Piene di amarezza e retorica. Le lascio così. C’è una luna piena che illumina il monstruo. Aria fresca della sera e la nenia del venditore di tamales. Non ho più un toro di cartapesta da tormentare, ma ora ho un gatto. Esso (anzi essa) è vivo. Reagisce ai miei dispetti e si incazza. La chiudo nell’armadio per sentire il suo languido miagolio. Eccellente. Stiamo migliorando.

diario da Città del Messico. Novità

Certo che stronzo, c’hai piazzato sti du video e da du mesi non scrivi più niente. Ma che scrittore sei? Eh infatti. Che scrittore sono? Uno che certe volte non ha più niente da raccontare. Anche se di cose ne sono successe parecchie in questo paese e nella mia casa.

Vittorio non c’è più. Dopo aver combattuto con una lunga malattia si è spento nella sua casa a Città del Messico. E mi sono trovato all’improvviso solo. Liberato da un peso. Aver sfanculato quel maledetto toro all’inizio era stata una benedizione. Poi ha preso tutto una piega sinistra. Viveva con me dal primo giorno in cui sono arrivato in questo girone dantesco. Dormiva sempre al mio fianco nella sua stupidità senza fine.

Probabilmente non aveva nemmeno dei sentimenti ma in ogni caso la sua espressione ebete e giuliva non era in grado di trasmetterli. Un inutile ammasso di cartapesta senza dignità. Così mi piace ricordarlo.

Ora vivo altrove. In una casa grande e bella. Dove Vittorio non c’è. E non ci sarà.

È cambiato anche che Silvia spicca il volo, toglie le tende. Pure lei kaputt. Torna in Italia, dice, ad affrontare le sue sfide. Brava tesoro. Ora io da chi vado a cena a scrocco? Tutti a pensare a se stessi e a me mi tocca affrontare da solo questo posto. Dove peraltro non si smette mai di divertirsi.

Ora in Italia e un po’ in tutto il mondo ci si ricorda che esiste il narco perché hanno fatto fuori tre gringos a Ciudad Juárez. Tre funzionari del consolato. Ah. stocazzo. allora se ammazzano tre gringos si vede che questi narcos sono proprio dei cattivelli. Allora persino Repubblica cede due delle sue pagine, normalmente dedicate ai risotti o alle sabò e nuove tendenze dell’estate, per assoldare nientepopodimenoche Vittorio Zucconi, quel simpaticone arrognatello che tra le sue mille qualità è esperto di Messico e narcotraffico, dal suo studio incastonato nella casa bianca, che ci spiega come sono cattivelli questi narcos.

Perché invece non servono a un cazzo i più di cinquanta cadaveri decapitati al giorno. Non serve a un cazzo un paese la cui classe politica è completamente in mano alle famiglie del narco. Non serve a un cazzo la violenza delle città del nord, quotidiana, devastante. No, perché nessuno se lo incula il Messico. Però se fai fuori tre gringos allora cazzo ti meriti attenzione.

Ragazzi, ma non c’è bisogno di essere uno psicologo per capire un po’ questo povero messico. È chiaro che sta facendo di tutto per farsi notare! È come quei ragazzini che per farsi notare dalla maestra menano tutti i compagni, per farsi notare da mamma e papà cagano sul tappeto in salotto, per farsi notare dalle ragazze le trattano male. Questo paese è un po’ così. Cerca di farsi notare da tutti voi. E voi non ve lo inculate. Lo fate solo quando fa cose tipo fare fuori tre gringos. Ma siete ingiusti! diobono in Messico sono state fatte fuori quasi ventimila persone. Che cazzo deve fare un paese per farsi notare??

Questo vortice di riflessioni scapestrate mi ha fatto venire fame. Scendo a comprarmi un panino. Perché nella mia nuova casa c’è tutto vicino.

Ora al muro ho appeso una Vergine di Guadalupe, detta Lupita, che mi osserva col suo sguardo benevolo. Dice che è potentissima. Vedremo. A me me basta che se faccia li cazzi sua e non sia ottusa come Vittorio. Pace all’anima sua.

diario da Città del Messico. benvenuto!

Accompagnato da sogni di disastri e morti ammonticchiati faccio ritorno pimpante nella Città. Il DF comparato con Haiti pare la Svizzera. e questo già è straniante.

La città respira. Accoglie le notizie disastrose della vicina Haiti come un’anziana signora. E prosegue lenta e mastodontica la sua vita. È martedì sera e devo vedere un’amica a Coyoacan. Sono le dieci. Acchiappo un taxi al volo. Il tassinaro si lamenta della ruota anteriore. Io lo ignoro. State sempre a lamentarvi di qualcosa, possibile che ce n’è sempre una?

Su avenida Coyoacan la macchina rallenta, senti guardo un attimo sta gomma. Si ferma. Non faccio in tempo a bestemmiare per la mia idiozia e loro sono dentro. Uno davanti e uno dietro. Quello dietro mi rovina addosso coi suoi cento chili abbondanti strizzati nella giacca di pelle. Odore di gel e dopobarba. Eccomi qua in compagnia di due rateros. Me mancava una bella rapina.

Chiudi gli occhi e metti le mani in vista e stai zitto testa di cazzo se no ti piantiamo un balazo in mezzo alla fronte. Esagerato. Avevo intuito che era una rapina. so sempre stato uno sveglio.

Chiudere gli occhi. Mettere le mani in vista. stare zitto e cercare di non farli incazzare. Facilitare il loro lavoro. questi i compiti della serata. Vediamo se ce la faccio.

Il ciccione a fianco a me piazza una gamba sulla mia e mi mette un braccio intorno alle spalle. Siamo affettuosi. In un primo scambio di effusioni mi dice di tirare fuori tutti i soldi. Allora, amico, come te lo spiego che sto più scannato di te? Che tutti quelli che me dovevano pagà fanno i vaghi? Vabbè. Caccio sti 200 pesos (euri 10). Silenzio. Tutto qua? Oh, che devo fa? questi ho. Come? Eh, così. T’ha detto male amico mio. Ok tira fuori il telefono. Quasi mi vergogno. L’ho comprato a Managua per 10 dollari, mi piacerebbe l’aifon, ma purtroppo è andata così. lo voi? E questo che cazzo è? è il telefono mio. porta rispetto, me ce so fatto un colpo di stato e un terremoto. Il ciccio lo passa a quello davanti, che si mette a ridere.

Preso per il culo dai rapinatori a Città del Messico. E dovrei essere l’europeo impaccato di soldi che va a conquistare il nuovo mondo?

Regà, sto colle pezze ar culo. Mi spiace proprio, avrei voluto venirvi incontro. Eh scusa, ci siamo sbagliati. Ti abbiamo visto con la faccia da straniero, pensavamo fossi gonfio. Eh, lo so. So straniero ma anche senza una lira.

Ok, adesso tira fuori il portafogli. Ah, mo sì! Il ciccio lo passa a quello davanti. Che ride. È vuoto, cazzo! Oh, ma che cazzo parlo al vento?

Il ciccio cerca di rassicurarmi. Se non fai cazzate ne esci bene da questa cosa. Devi stare calmo. Fai quello che ti dico io e stai zitto. Dovete imparare a obbedire voi. Ma voi chi? Ma di chi cazzo parli? di quelli che prendono il taxi? degli italiani? dei romanisti? dei trentenni?

Lo penso ma imparo a obbedire, e taccio.

Va bene allora facciamo così. Intanto ripigliati stammerda di portafogli. Grazie. E la sim. Come la sim? che fai me ridai la sim? Capace che ce stanno più soldi dentro di quanti ne fai te co sto citofono se te lo vendi a Tepito. Però taccio.

Dove stavi andando? Alla metro Coyoacan. Ah e devi vedere una ragazza? Ma che cazzo te frega? che sei il mio analista? No, un’amica. Senti, adesso se fai il bravo ti lasciamo da qualche parte. Non lontano da lì. Va bene? Ma no, me piaceva sto giro al buio in compagnia di simpaticoni come voi. Rimango.

Sono passati 15 minuti a fare giri nelle stradine di chissà dove. La macchina rallenta alle indicazioni del ciccione amico mio. Si ferma. Allora ora scendi, cammini normale. Non gridi. Non corri. Non parli con nessuno e te ne vai, se no ti veniamo dietro e ti spariamo, hai capito stronzo? Ho capito. Sicuro? Sicuro.

Sto per scendere. Ma prima l’omino davanti mi passa una cosa. Mi mette tra le mani un biglietto. Questi sono 50 pesos, dice il ciccio. Così ci torni a casa. Siamo rateros però caballeros.

Mi ha ridato i soldi. Il ladro mi ha appena zincato 200 pesos e me ne ridà 50 perché gli faccio pena. Perché non vuole che si abbia un’idea sbagliata dei ladri in Messico. Perché in fondo è un lavoro come un altro, con la sua dignità e le sue regole. Io sono basito. Mi viene da ridere, ma mi ricordo che sono minacciato di morte e quindi non è il caso di lasciarsi andare.

Scendo. Cammino. Non grido. Il suv dei ladri che ci ha seguito per tutto il tempo carica i due compari e sparisce nella notte, insieme al figlio di puttana del tassinaro.

Io vago fino a trovare la strada conosciuta. Fino al mio appuntamento. La mia amica è in ritardo e l’aspetto fumando alla fermata della metro.

Poi non venitemi a dire che questo paese non è surreale, che vi pianto una pallottola tra gli occhi.

diario da Port au Prince. il ritorno.

Giunge all’ultima puntata il racconto delle mirabolanti avventure haitiane dei quattro moschettieri freelance.

Mentre inviati speciali italiani di grandi testate nazionali vanno a scopare a Santo Domingo coi soldi del giornale, dichiarando al mondo di raccontare l’inferno di Haiti, i vostri reporter preferiti si smazzano per tirare su i soldi del biglietto aereo. Probabilmente abbiamo sbagliato noi. E del resto come si fa a resistere alle puttane ragazzine dominicane? Bisogna capirli questi anziani inviati speciali. È una vita dura, piena di stenti, sempre con la valigia pronta per partire nei luoghi più disgraziati della terra, è ovvio che uno cerchi il conforto e la tenerezza tra le cosce mercenarie di giovani minorenni di qualche paese sottosviluppato.

Ci tocca raccontare queste cose oltre alle vicende di un popolo dimenticato da dio. Anzi. Non è che dio l’abbia dimenticato, come sostiene un signore haitiano con cui mi faccio una chiacchierata. È che qui facciamo il vodoo, la magia nera, e allora dio è arrabbiato e ci punisce. Ma allora cristo, se lo sapete la volete piantare co sta cazzo di magia nera? Dico, che altro deve fare sto dio per dimostrarvi che vi odia?

Gli ultimi giorni è un accalcarsi di tende per l’arrivo di forze fresche delle varie agenzie ONU. Servono menti riposate per affrontare tutti quei briefing. Accorrono inviati speciali da tutto il mondo, dopo ormai una settimana dall’inizio della festa. Tutti in cerca di storie nuove, di angolature diverse, creative, che nessuno ha ancora raccontato.

È tempo di andarmene, di abbandonare la mia casa, il cartone sul pratino, e di tornare al Distrito Federal, con questo magone che comincia a salire, a prendere forma. Perché uno stando lì nel mezzo dell’azione non può permettersi di sentirsi male. C’è l’adrenalina, la tensione, le mille cose da fare, da scrivere. Si è lucidi, razionali, operativi. La merda arriva dopo. Arriva per esempio quando il Principe, ormai a casa, viene a sapere che sua zia è morta, e si rende conto che ognuna delle singole 200 mila vittime era una zia, una mamma, un figlio, per qualcuno. Ognuno di quei cadaveri scomposti e putrefatti era una persona. Ma quando sono così tanti, quando è così diffuso l’orrore non li vedi come cristiani. Li vedi quasi come pezzi del paesaggio.

Lascio questo paese con un nodo in gola. Con il desiderio di restare, per continuare a raccontare una terra senza speranza, vittima delle forze della natura, dell’ottusità di eserciti che cercano di spartirsela mettendosi addosso la bandiera degli aiuti. Non posso restare perché non me lo posso permettere. Perché non ho un giornale che mi paga le troie. Devo rientrare in Messico, scroccando il passaggio di un Cessna che fa avanti e indietro da santo domingo.

Lascio Cutie e il Principe a continuare a scattare foto. Immagini atroci e bellissime, se si può parlare di bellezza qui. La foto più inquietante è quella di una bambina, fatta dal Principe in un ospedale. Invece di essere frantumata, amputata e sofferente, la bambina piange, ma perché è appena nata. La foto di un parto, tra tutti questi morti, ha un effetto straniante. Senti che è bella, è potente, ma non puoi fare a meno di chiederti che cazzo c’entra la vita in questo posto.

E invece c’entra. Questo posto è pieno di vivi. Che forse si meriterebbero un po’ di attenzione pure loro.

Torno a casa e trovo Vittorio. il toro di cartapesta che ancora non ha capito un cazzo di come funziona il mondo. Lo metterò su un cargo per dar da mangiare a qualche haitiano.
Trovo gli amici, che mi chiedono com’è stato. Che mi dicono come si fa a adottare un haitiano. Io non riesco a non rispondere che, beh, è stato da paura, del resto il Caribe è pur sempre il Caribe, una favola.

Per quanto riguarda le adozioni. Ho deciso di adottare due bambine haitiane di vent’anni. Per solidarietà con il popolo fiero dell’isola e anche un po’ coi colleghi inviati speciali. Due piccioni con una fava.

diario da Port au Prince. acqua.

Mi piacerebbe ora soffermarmi sul concetto di acqua. mi pare uno dei temi centrali della situazione. Innanzi tutto va detto che apprezzo il modo dei centomilioni di marines, atterrati tra un hercules e l’altro all’aeroporto occupato militarmente di Port au Prince, di affrontare la questione. La gente ha bisogno di damangiare e dabere e te arrivi coi carrarmati e i fucili da guerra. Un po’ come se a uno che c’ha la dissenteria, per dargli una mano, gli dai una sega a nastro. che cazzo ce fa non si sa, però è una risposta creativa, questo tocca ammetterlo. Lungi da me voler fare polemica coi “corpi di peacekeeping” che sono i buoni e vengono a portare la pace. Lo dice la parola stessa. L’unica cosa è che mi sa che non si so accorti, nella loro immensa solidarietà, che ad Haiti non ci sta la guerra, ma una tragedia umanitaria, ma ovviamente non è nemmeno il caso di spaccare il capello in quattro.

Tornando all’acqua, diciamo che già di per sé qua in Haiti non è che abbondasse l’acqua potabile pulita, dato che è pratica abbastanza comune, sciocchi selvaggi, direte voi, bere un liquido grigiastro di dubbia provenienza, che non definirei proprio potabile a una prima occhiata.

Ecco, ora con quei 40 gradi belli umidi e un terremoto sul groppone che ti ha sbragato via tutto si pone abbastanza imperativo il problema di dove cazzo andare a prendere l’acqua.

Mi pongo la questione sorseggiando acqua potabile dei lavandini del centro operativo dell’ONU, che cià pure le docce, circondato da funzionari di tutte le possibili agenzie dell’ONU che bevono il tè e fanno importantissimi briefing su come fare la distribuzione, mentre intanto i giaigió americani gli scippano l’aeroporto e fanno sbarcare miliardi di militi per dare aiuti umanitari ai disgraziati.

Dopo sei briefing viene fuori che la gente ha bisogno di acqua. è proprio un fatto accertato. Tocca fare qualcosa. Ora si prepara un briefing per capire come affrontare l’emergenza. Ieri avevamo incrociato un’autobotte anarchica che è partita nottetempo da Santo Domingo. Oh, noi non abbiamo chiesto il permesso a nessuno, dice il trasportatore, siamo partiti perché qua se morono de sete, poi se quelli dell’ONU ce dicono qualcosa sticazzi, intanto j’amo portato l’acqua, o sbaglio?

Nono non sbagli per niente. Noi moschettieri con la nostra razione d’acqua da mezzo litro in borsa ci aggiriamo come cani per le strade affollate e imbattendoci nell’autobotte ci rendiamo conto che tra qualche giorno, se gli aiuti non si sbrigano, sarà una tragedia. Tanto per cambiare.

Parlando con un’amabile e bionda dottora americana della Florida che è venuta a amputare arti ad Haiti, la pratica più comune tra i suoi colleghi che si trovano davanti fratture esposte incancrenite come se piovesse e hanno a disposizione solo cartone e garza per ingessare o le seghe circolari di prima per amputare, discuto sul problema malattie, e lei sostiene che no, non c’è un vero pericolo epidemie. Certo, a meno che la gente non si metta a bere l’acqua infetta inquinata da monnezza e liquidi corporei fuoriusciti dai cadaveri. La guardo basito. Ma cosa cazzo credi che stia facendo la gente lì fuori? Ah, dice lei, magari gli haitiani lo fanno che c’entra? Ah, scusa infatti sono una minoranza gli haitiani che stanno terremotati ad Haiti. Scusa, so stronzo io!

Proseguiamo il nostro giro turistico accompagnati dall’instancabile Vi, che guida come un forsennato suonando il clacson e dicendo cose incomprensibili. Di ritorno alla base a casa di Fiammetta  ci fermiamo a salutare la numerosa famiglia di Vi, che sta accampata al buio pesto della sera su dei materassi fuori di casa, che non è venuta giù. Loro cantano stasera. E Roberto, un parente di Vi che ha vissuto a Santo Domingo e parla spagnolo, ci invita a cantare con loro. Tira fuori una chitarra e una tastiera a batteria coi tasti che si illuminano quando li suoni. Si esibisce nei pezzi che ha scritto. Inni pop a dio e a gesù, contro satana. Ha una bella voce e ricorda un po’ un Ben Harper haitiano. Noi cantiamo insieme a lui e alla sua famiglia.

Ci viene chiesto di suonare pure noi qualcosa per loro. Sguardo fuori campo. L’unico che sa suonare è il Principe, uomo pieno di risorse. Quindi je partimo col repertorio classico dell’italiano all’estero: Battisti, De Gregori, Paolo Conte e Rino Gaetano. Io e il Cuttica ci esibiamo come duo vocale degno di Amici di mariadefilippi. Unica pecca i testi delle canzoni, mai completi, quindi daje de nananananana, ma gli haitiani sembrano non accorgersene e apprezzano lo sforzo.

La notte torna a calare sulle calde giornate haitiane e noi ci buttiamo di nuovo sul pavimento duro ma antisisma del giardino di Fiammetta. Sognamo fiumi in piena e haitiani che fanno briefing su come salvare l’anima del personale ONU e dei marines.