È finalmente passato il 15 settembre. Il bicentenario ce lo siamo tolti dalle palle una volta per tutte. Dopo la sfilata militare che è costata al governo più del presupposto per la sanità e l’educazione messi insieme, dopo le bevute colossali che hanno accompagnato i messicani nel loro ponte del 15 settembre, dopo tutto questo, si torna a lavorare.
Si torna a leggere i giornali. Ecco. Apro il Diario di Ciudad Juárez qui e leggo una lettera del direttore. La traduco per chi mi legge. Inizia così:
” Signori delle differenti organizzazioni che si disputano la piazza di Ciudad Juárez: la perdita di due giornalisti di questa casa editoriale in meno di due anni rappresenta un danno irreparabile per tutti quelli che lavorano qui, e, in particolare, per le loro famiglie.
Vi rendiamo noto che siamo comunicatori, non indovini. Pertanto, come lavoratori dell’informazione vogliamo che ci spieghiate cosa volete da noi, cos’è che pretendete che pubblichiamo o smettiamo di pubblicare, per sapere come comportarci.
Voi siete, in questo momento, le autorità de facto in questa città, perché i rappresentanti istituiti legalmente non hanno potuto fare nulla per impedire che i nostri compagni continuino a cadere, nonostante il fatto che noi lo abbiamo richiesto reiteratamente.
È per questo che, a fronte di questa realtà inobiettabile, ci dirigiamo a voi per chiedervi cosa fare, perché l’ultima cosa che vogliamo è che un altro dei nostri colleghi sia vittima dei vostri proiettili”. E poco più avanti (la lettera è abbastanza lunga e appassionata) si legge “Perfino in guerra ci sono regole. E in qualsiasi conflitto esistono protocolli o garanzie nei confronti delle parti in causa, per salvaguardare l’integrità dei giornalisti che se ne occupano. Per questo vi reiteriamo l’invito, signori delle diverse organizzazioni del narcotraffico, a spiegarci cosa volete da noi, per smettere di pagare il tributo di sangue dei nostri compagni”.
Ecco, dicevo che uno qui si alza e legge questo, che è un po’ come se io vivo a Bolzano, per dire, e compro l’Alto Adige, e in prima pagina leggo una lettera del direttore che dice queste cose.
E penso alle immagini dell’arresto di Edgar Valdez Villareal, alias La Barbie, uno dei capi del narco più sanguinari e ricercati, arrestato il 30 agosto nell’Estado de México. Penso al suo volto sorridente, sarcastico. Come uno che non ha nulla da temere, come un ragazzino furbetto che viene messo in castigo dai genitori per aver mangiare di nascosto la nutella, ma che sa che non lo beccheranno mai per aver pestato a sangue tutti i suoi compagnucci.
Rileggo questa lettera aperta e penso ai festeggiamenti dell’altra sera, del 15 settembre, quando centinaia di migliaia di persone ubriache e festanti apprezzavano nel Zocalo Capitalino i meravigliosi fuochi d’artificio e i carri e le meravigliose scenografie della festa del bicentenario. Si festeggia e si grida Viva Messico.
È lo stesso paese in cui c’è un’altra città, la più ricca di tutte, in mezzo a un deserto. Si chiama Monterrey. È tra le città più ricche dell’America latina, è pieno di fabbriche (tutte le birre messicane le fanno qua, per dirne una!) di industrie e industriali, di progresso e modernità. Ecco. Se tu vai all’università più prestigiosa di Monterrey, il Tecnológico di Monterrey, ci trovi tutta la crema della società messicana.
Un giovane amico rugbista che studia ingegneria meccatronica al Tec mi ha raccontato come è composta la fauna studentesca del suo campus. Dice che il 40% degli studenti sono figli o parenti di capi delle famiglie del narco. Essi vanno al Tec, con le guardie del corpo armate, a studiare legge, economia, ingegneria, per amministrare i patrimoni delle loro famiglie. Essi vanno all’università con le mercedes tempestate di diamanti (letteralmente). E a Monterrey il narco è così presente che è meglio che non ci vai a Monterrey.
Allora tornando a questa lettera, a questi racconti, ai festeggiamenti, ti viene voglia di raccontare storie, di far parlare i morti, o quelli che lo saranno presto, perché si sappia cosa succede da queste parti, invece di ubriacarsi a morte e gridare viva México. Ecco, in Italia uno rinuncia a provarci, perché tanto se non parli di fica, di Berlusconi o di vacanze non ti si fila nessuno. Però credo sia necessario testimoniare la deriva di questo paese. Non foss’altro per poter scrivere sulla mia lapide “ve l’avevo detto”.