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Colombia: in viaggio con un paramilitare

«Questi sono i nostri figli, che si dipingono la faccia di verde per mimetizzarsi. Questo è uno dei battaglioni di élite dell’esercito».
Laura è una donna afrocolombiana, cantante, attivista dei diritti civili nel suo paese, desplazada (sfollata) a Bogotà dallo stato di Nariño, la cui famiglia è stata costretta a fuggire dalla propria terra per non essere uccisa dai paramilitari. Molti dei suoi compagni sono stati uccisi in modi brutali e lei stessa è scampata alla morte.
Sul pullman siede a fianco a un giovane dallo sguardo serio. Cappello da baseball calato sugli occhi, aspetto atletico, cellulare in mano, maglietta attillata e jeans di marca. I suoi occhi mobili tengono sotto controllo tutto l’autobus, e quando ti guardano per più di qualche secondo si avverte una strana sensazione di disagio. Probabilmente è un paramilitare. Ma in Colombia è normale trovarsi a viaggiare spalla a spalla con chiunque. La gente sul pullman non si accorge di nulla o non dà peso alla cosa. Sediamo nella fila di fondo.
Il viaggio in autobus dalla città di Armenia, nello stato del Quindío, a Bogotà, sulla carta dura 7 ore. In realtà l’unica arteria che da Cali, terza città del paese, porta alla capitale colombiana attraversa le Ande tra piantagioni di platano e caffè, su una strada a due corsie intasata di camion, tra tornanti e frane. È più realistico mettersi l’anima in pace e prevedere almeno 11 ore di curve.
Laura è espansiva, ha una risata contagiosa e allegra e non tarda a legare con il ragazzo.
Carlos ha 26 anni e fa il militare. Fa parte della V divisione dei lanceros, i corpi di élite dell’esercito colombiano, i paracadutisti che portano a termine azioni particolarmente difficili. Il loro simbolo è un’aquila.
Laura è tesa ma non si scompone e comincia a parlare con lui.
«Hai l’età di uno dei miei figli» gli dice con un sorriso disarmante «come sei finito a fare questo lavoro?»
Carlos parla con tono piano. È lì per necessità, aveva bisogno di soldi.
La conversazione è difficile. Una donna desplazada, a cui i paramilitari hanno distrutto la vita e che ora dovrebbe girare con la scorta (ma che rifiuta per coerenza, dato che gli stessi che la vogliono morta sono protetti dal governo), e un giovane soldato dei corpi speciali, che per mestiere si trova a scontrarsi con la guerriglia e a volte uccidere anche persone come Laura.
«Ti è già capitato di ammazzare qualcuno?»
«Mi è capitato in due occasioni. Una era una ragazza, bella per di più. Mi ha dato molto dolore e molta tristezza. Però se non l’ammazzavo io, lei avrebbe ammazzato me…»
«E ti sei mai chiesto cosa c’è dietro a tutta questa guerra? Per quale ragione c’è tutta questa gente che viene desplazada dalla propria terra? Ti sei mai messo a pensare per quale ragione i nostri territori sono pieni di esercito, di guerriglia? Forse perché devono controllare le risorse. La ragione per cui stiamo in questa situazione di guerra sono le risorse naturali. Ci sono grandi interessi, di grandi monopoli che vogliono controllare quelle risorse».
Carlos non ci aveva mai pensato. Ma lui non crede nell’esercito. Vuole stare solo un periodo nei corpi speciali e andare via il prima possibile. Fa l’elettricista e vuole aprire una attività sua. Appena avrà messo un po’ di soldi da parte, lascerà l’esercito.

Tanti ragazzi come Carlos in Colombia vanno a fare questo lavoro perché li pagheranno più del minimo e loro non hanno altre possibilità di avere un lavoro o di studiare. Poi si scontrano con la realtà, che è molto diversa da quella che immaginavano. E si trovano a combattere contro i loro “compagni”, contro i loro stessi fratelli. Carlos lo riconosce. Guadagna poco più del minimo, 600mila pesos al mese (poco più di 250 euro. ndr).

«Io credo che molti di questi ragazzi siano lì perché sono confusi, -sostiene animatamente Laura- da una realtà colombiana che ha troppi anni di guerra alle spalle. Molti si confondono a causa di quello che dicono i media o il governo e non sanno che strada prendere. Credo che questo sia uno dei motivi per cui molti dei nostri figli, i figli della gente povera, del popolo, prendono questa strada.
Conosco addirittura leaders di comunità che per denaro diventano paramilitari. Altri sono obbligati a farlo.
Tanti poi non sono abituati a uccidere, ma gli offrono un bel vestito e belle scarpe, entrano nell’esercito e si rendono conto che tutto quello che gli è stato offerto non lo avranno veramente, o vedono che devono uccidere a sangue freddo. Alcuni quando si rendono conto di tutto questo e capiscono che non possono andarsene da lì e preferiscono uccidersi».
Poi rivolta a Carlos: «Ti sei mai chiesto quali sono i motivi del narcotrtaffico? Ti sei chiesto perché Alvaro Uribe, quello che dice di essere il nostro presidente è stato uno dei più grossi narcotrafficanti di questo paese e uno dei leader del paramilitarismo?»
Lui annuisce silenzioso, a disagio.
«E allora un contadino che coltiva mezzo ettaro di terra e tira fuori una libbra di coca è il responsabile del narcotraffico? Non può essere, perché dietro di lui ci sono quelli che commercializzano la droga e generano moltissimo denaro e causano massacri. Poi vanno dai contadini e fanno credere loro che devono coltivare coca. Non si piantano più platanos o yucca perché non conviene. Ma almeno prima uno seminava platanos e yucca e aveva platano e yucca da mangiare. Oggi non hai più queste cose e hai coca. E la devi per forza vendere per comprarti da mangiare. Però questo genera una distruzione delle colture, delle famiglie, non c’è più vita comunitaria. Vite distrutte dappertutto».

Pausa pranzo. Un piatto di sancocho, la classica zuppa colombiana fatta con pollo, patate, platano e yucca. Carlos telefona.
Nel ’68 Pasolini sulle pagine di Nuovi argomenti parlando dei figli dei poliziotti usava argomenti simili a quelli di Laura. Ma qui è diverso. C’è uno stato in guerra da più di 40 anni. Ci sono decine di massacri, migliaia di morti, desplazados in tutta la Colombia.
Come può esserci un dialogo tra una persona come Laura e uno come Carlos in un paese del genere?

«È difficile. Io avrei potuto dire “questo è un assassino e non ci parlo”. Altri compagni non ci avrebbero parlato. Ma ho bisogno di capire la realtà che stiamo vivendo. Molti di questi ragazzi non hanno avuto nessuna opportunità. Le famiglie sono distrutte, sono stati abbandonati e non hanno alcuna nozione della vita. Quindi finiscono da una parte o dall’altra. Nella guerriglia o con i paramilitari.
La responsabilità è di una società che non ha permesso loro di essere persone diverse. –insiste Laura– Per questo volevo parlare con questo ragazzo, provarci. Gli ho detto informati, non ti sto dicendo che devi abbandonare questo lavoro, ma informati su quello che stai facendo, quello che sta succedendo nel tuo paese, controlla perché e per chi stai uccidendo i tuoi fratelli. Stai ammazzando gente per salvare gli interessi di quelli che hanno tanti soldi. Per difendere i soldi di quei pochi che hanno tutto contro i tanti, come te, che non hanno niente».

Torniamo dal pranzo. L’autobus riparte nella pioggerellina che nel frattempo ha deciso di accompagnarci. Carlos è quasi arrivato a destinazione. Raccoglie le sue cose. Ci mostra la caserma dal portone enorme, immersa nella vegetazione della selva. Questa è la sua casa. In questo periodo la zona è abbastanza tranquilla, altrimenti non si fiderebbe a venire in autobus apertamente. Avrebbe paura di essere ucciso dai guerriglieri. Però oggi viaggiava abbastanza tranquillo. Saluta Laura con un sorriso. Fa un cenno a me e scende.

Laura è emozionata dall’incontro. «Mi ha colpito molto conversare con Carlos perché si ha modo di capire cosa pensano quelli come lui e perché stanno lì. È importante farlo e non succede tutti i giorni, per questo non ho perso l’occasione. Certo, ero terrorizzata, però qui si dice che chi non rischia un po’ non tira fuori un uovo. Il tipo mi può tranquillamente vendere quando arriva al suo comando, ma spero proprio che non lo faccia».
Scoppia in una risata caldissima e rincuorante. E continua a parlare come un fiume in piena.
«Per risolvere il conflitto in Colombia, dobbiamo riuscire capire da dove viene questa gente, chi è, come è arrivata a fare quello che fa. E ti rendi conto che tutto questo fa parte di una strategia, quella di uno stato che vuole raggiungere un obiettivo chiaro: benefici per una élite, che non è rappresentativa di nulla. Non vogliono portare benefici al paese o al popolo. Vogliono solo ingrossarsi il portafogli ogni giorno di più.
Così l’unica possibilità è ristabilire una coscienza politica tra la nostra gente, che è esattamente quello che manca tanto qui. Quando c’è una comunicazione che maschera la realtà che viviamo, istituzioni formative che vendono i loro pacchetti educativi invece di insegnare a pensare è ovvio che bisogna ricominciare dal basso, anche dai giovani paramilitari».

Continuo a pensare a Carlos, al suo lavoro, alle sue scelte. Fa parte dei corpi speciali dell’esercito, non ha dichiarato di essere un paramilitare. Ma quando gli è stato chiesto se le missioni a cui aveva partecipato erano tutte per l’esercito, ha fatto capire esplicitamente che non era così.
Quindi che rapporto c’è ufficialmente tra i militari e i paramilitari?

«Devi pensare a un esercito diviso in due. Una parte è quella pubblica che vedono tutti, l’altra, che è parte dello stesso esercito, agisce con altri simboli, altre divise e fa il lavoro sporco. Sono praticamente commilitoni… spesso sono le stesse persone! In certi momenti operano come soldati professionisti e in altri momenti come paramilitari. Ma magari fanno parte degli stessi battaglioni.
Carlos per esempio, magari lo trovi qui con un battaglione dell’esercito e un altro giorno fa il paramilitare. Questa è una realtà terribile.
In una situazione come questa, in cui un tuo parente, un tuo fratello, può arrivare là, bisogna analizzare la situazione lucidamente. È l’unico modo in cui si possono risolvere i conflitti: questa non è la nostra guerra. Sono altri che fanno sì che partecipiamo a questa guerra e che ci ammazziamo gli uni con gli altri. Tra fratelli e familiari. Se riusciamo a capire questa cosa questo paese forse ha una possibilità».

La pioggerellina ci accompagnerà fino a Bogotà, dove si trasformerà in pioggia torrenziale. Le curve sono finite, ma il malessere non vuole andare via.

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