Morte di un periodista. Hai sbagliato tu Rubén.

Featured image

Ne hanno fatto fuori un altro. Un altro di noi. Uno di quelli che ci mettono il culo per far bene il proprio lavoro. Rubén Espinosa io non l’ho conosciuto. Strano perché dopo un po’ di tempo ci si conosce tutti. Non l’ho conosciuto ma non conta un cazzo. Rubén se lo sono fatto in una casa del Distrito Federal, quella Città del Messico in cui era nato e che aveva lasciato per andare a fare il fotoreporter a Veracruz. Cazzo ci vai a fare a Veracruz? Dico, vabbè, ce nasci, e allora magari ti dispiace andare via dal tuo stato mafioso, quello dove gli Zetas governano, quello dove il governatore Javier Duarte, l’assassino, il mata periodistas, il gordo, l’ommemmerda, la scoria umana, governa a braccetto coi mafiosi.

Ma no, Rubén. Tu ci sei andato a lavorare apposta. Sei andato a fare foto. Lavoro del cazzo. Sempre là co sta cazzo di macchina fotografica. Si capisce subito che stai a rompere le palle. Mettila via, fai matrimoni. Invece no. Cocciuto. A rompere i coglioni. A documentare le proteste, i movimenti sociali, le violenze ininterrotte dello Stato messicano, del governo di Veracruz, della polizia corrotta e mafiosa di questo paese devastato, dell’esercito che sa torturare e fucilare la gente così bene. Questo andavi a fare tu Rubén. Poi è chiaro che ti sparano in faccia. A te e a quelle altre quattro ragazze. Violentate. Torturate. Sparate in faccia pure loro.

Una di loro quattro, delle quali ancora non si sanno tutti i nomi, una di loro l’aveva detto mesi fa. Era un’attivista. Aveva detto, se mi succede qualcosa a me o alla mia famiglia l’unico responsabile è Javier Duarte. Cazzo l’hai detto Nadia, ti chiamavi Nadia Vera. E infatti lui ha mantenuto la parola. Perché dovete sapere che qua un uomodimmerda come Duarte rimane impune. Fa ammazzare chi gli pare, lui. E nessuno gli dice un cazzo.

A Veracruz ci sta il petrolio, ci stanno un sacco di cose a Veracruz, ma ci sta il petrolio e il gas e le compagnie straniere, che fanno capo a paesi forti: Stati Uniti, Francia, Italia, Gran Bretagna. Loro spaccano il culo in quanto a diritti umani. Loro quando dici diritti umani subito a cazzo dritto loro. Subito lì a dire ao noi diritti umani eh. Ciarli Ebdó? Cazzo tutti in piazza dirittiumani porcoddio. Altro che oh! Poi gli dici ao guarda che il Messico, veramente… diritti umani un po’ manco per il cazzo… Ma che dici! Ma come ti permetti? Messico è IL RINASCIMENTO, ti dicono questi. MESSICO È IL FUTURO! ti rispondono loro. E infatti poi li vedi tutti a farsi i pompini a vicenda con Peña Nieto. Il presidente di questa farsa di paese. Tutti a invitare a pranzo, tutti grosse pacche sulle spalle. Perché il Messico non è l’Afganistan. Il Messico non è l’Iraq. Infatti no. Infatti pe dì, in Messico ci sono stati più morti ammazzati che in Afganistan e in Iraq dal 2007 a oggi (come si può leggere qui). In Messico ci stanno decine di migliaia di desaparecidos. Ma il Messico non è la Siria. Né l’Argentina. Né il Venezuela.

E quindi si fa pippa. E si ammazzano giornalisti e attivisti. Rubén, tu hai sbagliato caro mio. Hai fatto una cazzata. Non dovevi fare il lavoro tuo. Dovevi leccare il culo. Come insegnano i giornalisti veri. Dovevi dire che chisto è o paese do sole e o paese do mare. E via a farti vacanze pagate.

Prima Città del Messico era il posto dove ti salvavi. Prima era il posto dove non ti venivano a toccare. Invece mo ti arrivano dentro casa. Ti gonfiano. Ti stuprano. Ti sparano in testa.

Il giorno dopo un migliaio di persone in strada, all’Ángel de la Independencia (che poi è una Vittoria alata ma qua siccome devono fa per forza come cazzo gli pare dicono un angelo). Sto angelo sta sempre là. Ci si vede sempre lì. Da anni. Sempre di meno. Sempre più tristi. Sempre gli stessi. Gli stessi meno uno. Quello che hanno appena ammazzato. Quello che stiamo piangendo.

Hai sbagliato a nascere qui Rubén. Hai sbagliato a rimanerci. Hai sbagliato ad innamorarti della fotografia. Hai sbagliato ad essere onesto. Questo non è il posto per te.

Che la terra ti sia lieve carnal.

Radical Shock. Unas storia sinistra. Capitolo otto. Que viva México!

Otto. Que viva México.

Con la capacità di cambiare idea e di adattarvi ad ambienti diversi, rompete gli indugi e puntate più in alto intravedendo nuovi sentieri. Più del presente è la visione del futuro a intrigarvi, mentre fate quadrato intorno a frequentazioni selettive. ADATTABILI.

Sono in Messico da un mese e non ho concluso niente. Mi trascino da una parte all’altra della città e SO che non serve a nulla.
Ho ingegnato un sistema di sussistenza che mi potrebbe permettere di dedicarmi alla scrittura e alla mia inchiesta.
Funziona così: affitto un appartamento di tre stanze. Luminoso. Con i muri colorati. Con molte piante grasse.
Mando un messaggio collettivo a tutti i miei contatti di facebook. «Si offre multiproprietà a Città del Messico, zona Coyoacan. Il costo è di 10 euro a testa al mese.»
I dieci euro al mese garantiscono una settimana a Città del Messico, vitto e alloggio e un po’ di scarrozzamento per i luoghi interessanti della città. Io faccio da housekeeper.
Voi mi garantite la sopravvivenza e io vi curo la casa mentre non ci siete.
Per ora hanno risposto in tre. Ma ancora non hanno mandato gli euri. Mi sa che non funzionerà.

Intanto il mio progetto di inchiesta è a un punto morto.
Vivo in casa di un’amica, in una stanza con il materasso per terra, le valigie piene di vestiti e un toro di cartapesta grande come un alano.
Quando uno parte per cercare fortuna io me lo immagino sempre con una valigia di cartone e una giacca e un cappello.
Io sono partito con un Mac, una macchina fotografica e un paio di Birkenstock infradito.
Non sono proprio credibile.
Sto cercando lavoro. Nel frattempo scrivo diari di ventenne su una rivista femminile patinata e vado avanti con la mia inchiesta.
Siccome non piove da qualche giorno è arrivata una comunicazione del condominio. Chiudono l’acqua per tutto il fine settimana, quindi si pregano i condomini di usare quella che rimane nelle cisterne con discrezione. E solo per il bagno.
Io e Silvia saremo costretti a fare la danza della pioggia affinché Tlaloc, il dio azteco della pioggia, ci dia ascolto e faccia la grazia.
Poi ho ricevuto un messaggio da Roma. La mia professoressa di lettere del liceo va in pensione. E ci sarà una cena con tutte le vecchie guardie della sezione D del liceo Mamiani di Roma. Un liceo obiettivamente radical chic.
In molti abbiamo risposto che ci troviamo lontano dall’Italia e che purtroppo non potremo partecipare alla celebrazione di una donna che è stata importante nelle nostre vite. Non sempre positivamente. Gli emigranti più fortunati sono all’estero per dei lavori meravigliosi, spediti dall’azienda a colonizzare il mercato con la creatività italiana. Molti di quelli che sono rimasti a Roma sono riusciti a integrarsi agevolmente nella macchinaschiacciasassiRadicalChic.
Alcuni di noi invece esternalizzano il loro fallimento all’estero, dandosi un tono da cittadini del mondo.
Il flash nel decennio dei novanta causato dall’invito a cena di vecchi amici mi distoglie dal mio obiettivo. Osservare questo paese. Succhiarne l’anima. E truffarne la gente. Sono un camaleonte con pessime intenzioni.
Oggi per strada c’era un uomo che mi ha ricordato tutto questo. Mi ha riportato coi piedi per terra e ha risvegliato in me il fuoco rivoluzionario. Era un vecchio vestito con gli abiti e il cappello della Revolución di Villa e Zapata. Con tanto di cappello. Chiedeva l’elemosina su Avenida Francisco I. Madero.
Siamo in una botte di ferro.
Di pioggia non si vede una goccia. Tlaloc ha altro a cui pensare. O non ha gradito la nostra danza.

Ho visitato dieci negozi che fanno capo al Percorso per un’Esistenza Migliore in varie zone della città.
Sono negozi che vendono fiori di Bach, libri sui fiori di Bach e biografie del dottor Bach. Ci sono tutti i testi sacri dell’organizzazione. Le commesse sono tutte molto gentili e pronte a spiegarmi quanto sia utile il ricorso a questi piccoli fiori miracolosi, da cui si ricavano oli ed essenze.
Se voglio posso sottopormi ad una prima visita gratuita per equilibrare la mia rabbia, o la mia depressione, o la mia gelosia.
Ci sono anche corsi che ti insegnano ad utilizzare l’energia del cosmo. Sono certificati dal Percorso per un’Esistenza Migliore e dal centro di ricerca che ha sede a Roma.
Anche le visite nei centri di applicazione energetica sono gratuite. Non sostituiscono la medicina tradizionale, ma sono piuttosto un supporto a quest’ultima. Così dice Lupita. E devo ammettere che riesce a essere alquanto convincente.
Nessuna delle commesse dei centri Percorso per un’Esistenza Migliore mi sembra un criminale. Vengo sempre accolto con cordialità e professionalità. È un buco nell’acqua.

«Come è possibile che non trovi un cazzo? è un mese che stai là!»
Giorgio sembra più brutto in videoconferenza.
Il grandangolo della webcam gli deforma la faccia e lo fa assomigliare a un personaggio dei racconti di Lovecraft.
«Giù, che ti devo dire? Qua è tutto normale. Ogni sede di Percorso per un’Esistenza Migliore è un centro benessere new age. La gente mi sorride, fanno i loro discorsi assurdi sulla salute, sull’energia e sulla guarigione con l’imposizione delle mani. Non hanno niente da nascondere e io giro a vuoto. Ne ho visti dieci e sono tutti a posto. Mi sa che ho sbagliato qualcosa.»
«Stai nella merda direi.»
«È un modo per dirlo…»
«Io quelli di Mondo Oggi li posso mettere in pausa, ma non all’infinito. Se non gli proponi il reportage passano ad altro. E tu ti ritrovi col culo per terra.»
«Oh certo che è proprio un sollievo parlare con te, cazzo. Una vera iniezione di ottimismo.»
«Sai che io non so mentire.»
«Vaffanculo, almeno taci.»

***

Il mio primo incontro con Fernando avviene al mercato di Tepito. Me lo presenta Serapio. È un suo “conoscente”.
Fernando è piccoletto, smilzo, potrebbe avere meno di quarant’anni. Tipo “fascio i nervi”. Gel in testa, pantaloni gessati, camicia viola/nero/cangiante. Scarpe lucide.
Fernando dice di fare l’imprenditore. Un imprenditore con una cicatrice che gli disegna una lunga lacrima sulla guancia sinistra. Sorride spesso. La sua bocca sorride spesso. Gli occhi invece non sorridono mai. L’esatto contrario di Tintan, il suo “accompagnatore”. Tintan non sorride mai, ma i suoi occhi sono costantemente sorridenti. Ma anche un po’ tristi.
Tintan si chiama così perché somiglia a un famosissimo attore comico e cantante messicano degli anni ’50.
In realtà si chiama Germán, ma nessuno lo chiama col suo vero nome da anni.
Un metro e novanta. Baffi neri, jeans, maglietta e gilet di pelle nera. Guanti senza dita, neri.
È la guardia del corpo di Fernando. Fernando non fa un passo senza di lui.
Tepito è un posto strano. È un mercato di ambulanti. È enorme. Interi isolati pieni di folla tutti i giorni. I banchi sono per strada e si vende e si compra di tutto.
«Qui puoi comprare tutto, tranne la dignità. Quella o ce l’hai o non ce l’hai.» esordisce Fernando.
Si vende e si compra di tutto tranne la dignità.
Siamo qui perché Serapio ha non ho capito che affare da sbrigare con Fernando. E ora lui, sapendo che sono un giornalista italiano, ha insistito per farci fare un giro panoramico del suo regno.
Il suo regno è un mercato degli ambulanti nel centro della città. Un mercato che si estende per venti isolati. Una città di ambulanti nella città. Con giri di affari di milioni di dollari l’anno.
«Io sono cresciuto per strada. Ho passato pochissimo tempo dentro una casa in vita mia. A quattordici anni ho deciso che dovevo essere un capo. E ho cominciato a combattere per il mio territorio. Mi sono guadagnato il rispetto con il coltello.»
«E quanto ci hai messo a diventare capo?»
«Quattro anni. Dopo quattro anni una fettina di Tepito era mia. Bisogna avere costanza. E credere nel proprio progetto. Bisogna fare un passo alla volta.»
«Parole sante!»
«Poi mi hanno regalato un libro. L’unico libro che ho letto. È la mia bibbia.»
«E che libro è?» Ti prego, non dirmi che è la Vera Via…
«Il Padrino. Lo conosci?»
«Cazzo, sì!»
«L’ho letto e riletto. È un manuale perfetto. Io sono anni che cerco di essere come Vito Corleone.»
Sto passeggiando per un mercato infinito nel centro popolare di Città del Messico con un boss mafioso che si ispira a Vito Corleone e con il suo gorilla/cantante.
Ci fermiamo a mangiare qualcosa. Faccio per pagare e la signora che fa i tacos, con la sua retina sui capelli e il grembiule azzurro mi ferma immediatamente. Io sto con Fernando e quindi non pago. È tutto offerto dalla casa.
Mentre comincio a mettere la salsa verde sulla mia colazione con il cucchiaino di legno, a venti metri da me sento dei tafferugli. Mi giro. Tintan si materializza tra me e Fernando. Stanno rapinando un turista con una pistola. Sono le undici di mattina e il mercato è pieno di gente e un ragazzino che non avrà più di diciassette anni punta un ferro in faccia a un turista a occhio e croce tedesco.
Il rapinatore gli porta via portafogli e macchina fotografica e sparisce tra la folla. C’è un po’ di confusione ma i miei nuovi amici non si scompongono minimamente. L’azione dura meno di due minuti. Il turista è sconvolto e cerca di farsi aiutare da qualcuno ma è evidente che non ha alcuna speranza, soprattutto se continua a vestirsi con quella Lacoste a maniche lunghe color malva e quei pantaloncini beige. Semplicemente non doveva essere qui. Non doveva avere con sé tanti soldi e non doveva portare al collo una macchina fotografica.
Ha sbagliato lui.
Tintan mi guarda serio. Fernando sorride.
«Tu la macchinetta te la puoi portare. Finché stai con me o con Tintan puoi andare in giro con le banconote appese addosso e nessuno ti darà fastidio.» Ho un brivido che mi parte dalla base della nuca. E non è di piacere.
«Ah, bene! Come una statua della madonna.» Rispondo. Ora sono proprio sollevato, cazzo!
Fernando e Tintan rimangono perplessi per qualche secondo. Mi guardano fisso. Poi scoppiano a ridere. Rido anche io. Che cazzo mi rido?
So’ dovuto venirci in Messico per diventare amico di un criminale!
La nostra passeggiata continua. Solo che ora mi accorgo che Serapio da un pezzo non è più con noi.
Meno male che sono in buona compagnia.

***

Raggiungo a piedi Serapio alla redazione della Jornada, in Avenida Cuauhtémoc 1236, nella centrale Colonia Santa Cruz.
Lui scende con la solita calma. Lo sguardo è beffardo e ha una luce strana negli occhi. Non capisco mai se mi prende in giro o no. Ci incamminiamo verso la colonia Juárez.
«Stasera ti porto in un posto speciale, hermano.»
Sorride nella sua faccia da cane irresistibile.
Il posto speciale si chiama Catedral de la Quebradita.
Pavimento di legno coperto di segatura, uomini vestiti da rancheros con camicie bianche, stivali di coccodrillo e cappello da cowboy. Si balla la quebradita, un ballo del nord. Molto acrobatico. La donna viene acchiappata dall’uomo dalla cintura appena sopra il culo. L’altra mano tiene la mano. A quel punto la donna diventa una molla che l’uomo fa saltare in tutti i modi che la mente umana riesce a immaginare. Sopra la testa, sotto le gambe, intorno al corpo. Le ragazze sono dei manichini dinoccolati.
Ordiniamo della birra e ce ne portano un secchio pieno.
Le regole per ballare: si possono invitare le donne altrui chiedendo il permesso all’accompagnatore. Se l’accompagnatore è d’accordo si balla. Se non è d’accordo si fa a botte.
Più si beve più è facile fare a botte. Un ambiente divertente per passare una serata in allegria. Soprattutto se non si va accompagnati da una donna. In questo caso crollano drasticamente le possibilità di scatenare una rissa. Rimangono alte le probabilità di venire coinvolti in una rissa altrui.
Al terzo secchio di birra la mia faccia è un ghigno. Serapio non sembra particolarmente ubriaco. Non c’è nessuna rissa in vista.
Decidiamo che non è serata. Sto posto speciale ci ha un po’ deluso. Cambiamo locale.
Il prossimo si chiama Route 66. Un bar dove suonano un buon blues nella Condesa. Serapio è un cliente abituale. Tutti lo salutano e lo trattano con rispetto.
Il mio amico è uno che vive la notte, ma è pur sempre un editorialista importante della Jornada.
Mi accomodo sullo sgabello.
«Forte Fernando… dove l’hai beccato uno così?» chiedo a Serapio.
Sorride per un attimo distratto. «Hehe. Non è male eh? A molti potrebbe sembrare un po’ sopra le righe. Molti giornalisti patinati non sanno nemmeno dove trovarlo uno così. Ma devi capire che in questo mestiere è importante conoscere tutti. Poter parlare con tutti.»
«Certo. Ne sono convinto. Però devi ammettere che Fernando è un po’ inquietante…»
«Fernando è un volpone. Gli ambulanti a Città del Messico sono una potenza economica e politica. È fondamentale saperci avere a che fare. I suoi modi e il suo aspetto però non ti devono ingannare. È capace di cose terribili se vuole. E quindi è meglio rimanere in buoni rapporti.»
«Non ho dubbi. Spero solo di non litigarci mai.»
«Lo spero anch’io per te. È uno irascibile.»
Quando parlo con Serapio mi sento sempre un po’ a disagio. Ti guarda sempre come se quello che dici fosse estremamente serio. O anche estremamente stupido. Ecco la sensazione è che questi due pensieri gli passino per la testa contemporaneamente.
Ma ora che lo conosco un po’ credo che il vero legame che ci unisce è il nostro rapporto con le donne.
Da giovane Serapio ha intervistato García Márquez, e quando gli è capitata questa occasione ha invitato quella che era la sua ragazza del momento.
Voleva fare colpo su di lei. La prima cosa che gli era venuta in mente era portare la sua donna all’intervista. Farle conoscere il Gabo. Farsi bello agli occhi di lei.
È esattamente lo stesso approccio che ho io.
L’altro tipo di uomini è quello che avrebbe cercato di farsi bello con il Gabo per ottenere qualche beneficio personale. Magari lavorativo.
Invece quelli come noi no. E poi ci ritroviamo insieme in un locale a bere J&B.
E allora ascolto gli aneddoti e le sventure di Serapio. E guardo il suo sguardo illuminarsi quando parla di ognuno dei suoi amori impossibili.
E ogni amore è un brindisi.
Dopo un’ora di racconti di donne Serapio cambia argomento all’improvviso.
«Senti, ti ho portato qui perché il locale è bello, ma anche per farti incontrare una persona. Credo che abbia qualcosa da raccontarti. Dovrebbe arrivare a momenti.»
Un po’ è l’alcol. Un po’ è il torpore che mi ha sopraffatto da qualche tempo. Ma ci metto un po’ a capire di cosa sta parlando Serapio.
«L’inchiesta su Percorso per un’Esistenza Migliore!!»
«Bravo. Urla di più che così ci togliamo il pensiero e rendiamo subito la cosa di dominio pubblico.»
Mi guardo un attimo intorno imbarazzato.
«Ma che dici? Ho girato per un mese in tutti i loro centri. Sono puliti. Non ho trovato niente di niente.»
«Sono puliti o molto bravi a nascondere la sporcizia.»
«Va bene. Sono lucido. Spara. Che hai scoperto?»
«In realtà non ho scoperto nulla, ma mi è capitato di incontrare una persona che forse può darti delle dritte giuste. E questa persona dovrebbe arrivare da un momento all’altro.»
Ordiniamo da bere. Serapio si mette a provarci con un’argentina dagli occhi verdi seduta accanto a noi. È molto bella ed è da sola.
Dopo un’ora scarsa si avvicina al bancone un tizio che sembra giapponese. L’argentina dagli occhi verdi è andata via da un pezzo. Da sola.
Serapio è chino sul bicchiere di J&B come se pregasse e io sono concentratissimo su un bicchiere di mezcal bianco. Il mezcal è un distillato di agave molto raffinato. Molto più raffinato del tequila. Si produce principalmente nella zona di Oaxaca ed è famoso perché in alcuni casi si mette un verme dell’agave da cui è tratto. Che in realtà poi non si tratta proprio di un verme ma di una larva di coleottero, che non aggiunge alcun sapore al distillato, ma è buona da mangiare per chi riesce a finire la bottiglia e anche un po’ esotica.
Il tizio giapponese ha la faccia seria.
Occhiali rettangolari Calvin Klein su un viso rotondo, paffuto. Camicia aperta sul petto. Fisico tracagnotto e compatto.
Mi si avvicina e in perfetto castigliano/messicano mi rivolge la parola, sedendosi sullo sgabello a fianco al mio.
«È occupato questo sgabello?»
«Penso di no.»
«Allora mi siedo.»
«Prego.»
«Vedo che il nostro amico qui è in preghiera…» dice indicando Serapio.
In effetti con la faccia tra le mani, il bicchiere sotto al viso, pieno per metà, immobile sul trespolo, Serapio sembra un monaco zen durante i suoi esercizi di meditazione.
Il giapponese ordina una michelada con birra Victoria. Il cameriere gliela prepara subito.
«Se ti stai chiedendo perché sembro asiatico il motivo è che sono giapponese-messicano.» esordisce il mio compagno di bevuta «Che è una specie di contraddizione in termini, visto che praticamente non ci sono due popoli più diversi l’uno dall’altro come quello giapponese e quello messicano. Almeno secondo me.»
«Forte.»
«E grazie a questo sono riuscito a sviluppare delle caratteristiche diverse dai giapponesi e dai messicani.»
«È molto interessante. Anche se non me lo stavo chiedendo…» Non capisco dove voglia arrivare ma mi sta dando un po’ fastidio il suo modo. Poi ora sorride. E ha un ghigno in faccia che non mi piace per niente.
«Quando sono in Giappone non mi sento giapponese. La gente si accorge subito che non sono di là, anche se i miei tratti somatici sono uguali ai loro. Se ne accorgono da come cammino. Cammino come un messicano. E sto con gli occhi aperti.»
Mi sta proprio stancando questo. «Se potessi arrivare al punto…»
Lui continua come se non avessi proprio aperto bocca. «Invece un giapponese in Messico. Te lo immagini un giapponese in Messico? Nella metro? Come deve essere sconvolto. I giapponesi quasi non concepiscono l’idea di gesti antisociali, tipo rubare un portafogli, o rapinare qualcuno. Te li immagini quando arrivano da Tokyo, enorme come il D.F. ma completamente diversa. Arrivano nel Monstruo e devono sentirsi proprio atterriti.»
Serapio non si muove dalla sua posizione. È una statua di sale. Il nippomessicano invece è vispo. Adesso ride alle sue stesse battute. I capelli coperti di gel come va di moda qui. Indossa dei vestiti costosi ora che ci faccio caso. Non è proprio la prima cosa che guardo.
«Mi puoi dire cosa vuoi da me? Chi sei?» sbotto esasperato dai discorsi etnoantropologici sulle grandi città e le abitudini dei popoli del mondo.
Il mio nuovo amico mi guarda perplesso. Poi si apre di nuovo in un sorriso.
«Sono Akira, il tuo informatore. Mi ha detto Serapio che stavi cercando qualcuno che ti aiutasse a trovare un’entrata per la tua inchiesta. Beh, sono il tuo mastro di chiavi!»
Sono rallentato. Non realizzo subito. Non riesce proprio a convincermi questo nippomessicano sorridente e chiacchierone. Mi aspettavo che un informatore fosse una persona più sobria, più misteriosa, più… cazzo, non lo so, ma non Così!
«E cosa ti ha detto esattamente Serapio?»
«Che stavi cercando qualcuno che ti parlasse in modo più approfondito delle attività del Percorso per un’Esistenza Migliore. Perché pare che da solo tu non riesca a tirare fuori un ragno dal buco.»
«Beh, a parte che non è proprio così… comunque stavo facendo dei passi avanti anche senza il tuo aiuto. Anzi ero arrivato a un punto di svolta.»
«Mi fa molto piacere. Quindi non hai bisogno di me.»
«No. Infatti. Non ho bisogno di te.» la solita arroganza. Piuttosto che ammettere che ho torto mi faccio sfuggire l’unico gancio che ho per fare il mio cazzo di lavoro.
Akira beve con calma la sua michelada.
Una michelada è una bevanda molto rinfrescante che si fa in Messico. È un’elaborazione della birra. Si prende una birra. Si mette in un bicchiere dove c’è del succo di limone, sale e chile in polvere. Sul bordo del bicchiere limone e sale. Le prime volte fa vomitare. Poi ci si abitua ed è buonissima.
Ora Akira sorride silenzioso guardandosi allo specchio dall’altra parte del bancone, dietro le bottiglie di vodka e whisky.
Mi urta doverlo ammettere ma sta aspettando che io torni sui miei passi. Cosa che farò. Ovviamente.
«Va bene. Ammettiamo che quello che hai da dirmi possa interessarmi. Chiaro, non perché non ho niente in mano, ma per completezza dell’informazione. Tu cosa vuoi in cambio?»
Akira si fa serio. Si gira verso di me. Lo sguardo perde l’ironia. Mi fissa.
«Io non voglio niente. Il mio interesse è che si parli nel modo giusto degli affari di Percorso per un’Esistenza Migliore in Messico, e dei suoi rapporti con altre ‘organizzazioni’. Se tu lo farai io sarò contento. Ho un conto in sospeso con questa gente. Mi hanno portato via molti anni di vita. Allora? Che ne pensi? Ti può interessare la mia offerta?»
Sto per rispondere, quando riemerge Serapio.
Ho perso il conto dei J&B (dei jotabé, come li chiama lui alla messicana) che si è fatto ma non sembra per nulla alterato dall’alcol. Anzi sembra molto lucido.
«Forse dovreste parlare con calma. Forse da un’altra parte. Forse con un registratore e forse da sobri. Che dici Samuele?»
Serapio mi spiazza. Ho finalmente trovato qualcuno che mi possa aiutare a fare chiarezza e me ne sto qua mezzo ubriaco in un locale della Condesa a fare la figura del novellino. Quale evidentemente sono.
Akira resta in silenzio.
«Hai ragione Serapio. Credo che sia il caso di fare questa conversazione in un altro momento.»

Fuori dal Route 66 c’è un taxi che aspetta. Saliamo a bordo solo io e Serapio. Akira se ne va a piedi.
Accanto all’ingresso c’è un cane morto.

***

Ho un appuntamento con Akira, a casa sua, nella zona di Tlalpan, a sud della città. Qui vicino c’è uno dei negozi di fiori di Bach che fanno capo a PEM. Ci sono stato pochi giorni fa.

«Ok Akira. Ho acceso il registratore… ORA. Puoi spiegarmi di nuovo come è strutturata nello specifico l’organizzazione Percorso per un’Esistenza Migliore?»
L’appartamento è grande e luminoso. Occupa un intero pianerottolo di un edificio coloniale. L’arredamento è un mix di architettura messicana e design giapponese.
Fa un effetto straniante ma non sgradevole.
Sediamo su un divano comodo color pistacchio.
Akira fa l’architetto. Mi offre da bere un succo di tamarindo. È imbevibile.
«Vediamo. Ho conosciuto il maestro in un momento tremendo della mia vita. Ero molto depresso. Poi è arrivato A. con la sua organizzazione. Mi ha salvato la vita.»
Io guardo a disagio fuori dalla finestra
«Tu vuoi sapere come è strutturata. Il Percorso per un’Esistenza Migliore è un’organizzazione di tipo piramidale.
Gli ordini sono trasmessi dal Maestro direttamente a Sagramolo e lui, in genere via mail, diffonde i messaggi ai responsabili dei gruppi nazionali, che a loro volta li fanno arrivare ai responsabili di gruppi regionali affinché tutti gli adepti possano avere accesso agli ordini-suggerimenti.
In teoria tutti gli adepti potrebbero avere accesso al Maestro, ma si raccomanda di seguire la comunicazione stabilita attraverso la piramide. Solo i capi dei gruppi nazionali, generalmente vecchi discepoli di A., possono e devono comunicare quotidianamente con il Maestro.
I responsabili dei gruppi regionali hanno il dovere di fare rapporto sulla situazione del loro gruppo.»
Akira si muove sulla sedia agitato, cercando di non emozionarsi troppo. Vuole rendere il suo racconto il più chiaro possibile.
Nella sua testa un mondo di emozioni. Le esprime con il linguaggio del corpo.
«Tu facevi parte di uno di questi gruppi?»
«Sì. Io sono stato per cinque anni nell’organizzazione PEM.»
«E da quanto ne sei uscito?»
«Da quasi due anni.»
Il nippomessicano oggi ha un atteggiamento diverso dall’altra sera. È più serio, meno compagnone. Parlare di queste cose lo emoziona ancora.
«Devi capire che per anni il Percorso è stato la mia vita. La cosa più importante. Non è stato facile uscirne. Anzi, è stato molto doloroso.»
«Immagino.»
Non è vero. Non immagino minimamente cosa voglia dire stare per anni dentro un’istituzione totale come questa. Ma sento la necessità di adottare un atteggiamento empatico. Lo faccio per avere le informazioni che mi servono.
Akira non mi fa pena. Non riesce a farmi pena. Fondamentalmente perché in me c’è uno strisciante senso di disgusto per chi si fa abbindolare.
«E come è fatta questa piramide?»
«La cima è composta da A. e da suo figlio Carlo. Carlo sembra un banchiere, ora, visto da fuori. Poi c’è l’altro figlio, Aleph. Lui è meramente decorativo. Intorno a questo nucleo ci sono Claudia Sabelli, l’assistente, compagna e guardia del corpo di A., Sagramolo, che è il responsabile dei gruppi del continente americano e Sante Carocci, il responsabile dell’organizzazione dei gruppi italiani. Un poco al di fuori del nucleo ci sono persone come Marco Santello, che dà il prestigio scientifico al Percorso per un’Esistenza Migliore e qualche altro discepolo danaroso o con un’interessante proiezione del futuro, ma la loro funzione è amministrativa.»
Gente danarosa. Organizzazione piramidale. Mando giù un sorso di tamarindo. È veramente una merda.
Quello che mi incuriosisce è come vengono reclutati gli adepti.
Penso.
«E quindi come vengono reclutati gli adepti?» sembro Gigi Marzullo. Che pena.
«Ah, ci sono diversi modi di reclutare i futuri adepti. Il principale è attraverso quello che gli economisti chiamano il mercato naturale. Ad esempio io dovevo diffondere il libro La Vera Via ad amici, familiari, o invitarli a qualche conferenza o esercizio di gruppo.
Poi quando il mercato naturale si esaurisce il canale più utilizzato sono le conferenze su temi spirituali di moda (come il codice da vinci, il feng shui, il tai chi, lo yoga, ecc.) anche se non hanno nulla a che vedere con l’ideologia del PEM.»
Non riesco a rimanere concentrato. Dalla strada arriva il rumore di un camion che al posto del clacson ha la musica della lambada. Che suona ininterrottamente. Quanto mi piaceva la lambada. Era un ballo onesto.
Akira mi sta raccontando dei momenti importanti e dolorosi della sua vita e io riesco a pensare solo a Kaoma che balla la lambada.
«… E poi ci sono i corsi di IRECA (una brutta copia del Reiki giapponese, salvo il quinto livello chiamato familiarmente lavaggio del cervello), che si strutturano su cinque livelli e attraverso i quali si familiarizza la gente all’ideologia della Vera Via, e con gli Amici della Vera Via, per fargli vedere in maniera sottile, come se non gli si facesse vedere, che dietro ai corsi c’è un gruppo esoterico segreto e un maestro che canalizza l’energia ed è in contatto con la Fonte di tutta la conoscenza…»
Guardo Akira negli occhi. Sono attento.
Hai catturato la mia attenzione finalmente!
Questo modo di far vedere come per caso, senza farlo apposta, è la tecnica che aveva adottato Paolo quando mi parlava della sua setta. Mi vengono i brividi sul collo.
Akira si accende una Camel e sta un bel pezzo in silenzio. Mi guarda. Poi riprende senza che io gli chieda nulla.
«Anche se non c’è un profilo sociale escluso per i discepoli, non sono ammessi drogati né gente con problemi di salute gravi e soprattutto gente che non abbia i 120 euro al mese, la quota che dà la possibilità di essere un cercatore. Diciamo che il profilo del discepolo è giovane, di livello socioeconomico medio-alto, di aspetto fisico sano, vestiti di buona qualità e personalità magnetica e positiva interessata alla crescita personale. Cioè qualcuno che serva da specchietto per le allodole per altre allodole. C’è una sorta di repulsione nei confronti degli intellettuali e di quelli che fanno molte domande, che pensano troppo e “bloccano l’energia”, perché, come insegna il Maestro, “uno è quando non pensa”.
Per questo motivo è necessaria una buona dose di ignoranza e ingenuità e mancanza di autostima per continuare il cammino nonostante tutta la merda che vedi e che ovviamente non puoi giudicare perché se lo fai smetti di essere impeccabile.»
Parla come un divulgatore scientifico. E io sono già stanco di ascoltarlo. Non riesco a mantenere l’attenzione fissa su di lui.
So che è un’occasione importante, ma c’è qualcosa nel suo racconto che mi impedisce di concentrarmi.
«Sai, era molto tempo che volevo raccontare a qualcuno tutta questa storia. È molto liberatorio.»
Sono il suo confessore. Lui si sta liberando. Io mi limito a raccogliere informazioni sul Percorso per un’Esistenza Migliore. Forse è questo squilibrio che mi distrae.
E comunque mi piace sempre meno. Sempre che mi sia mai piaciuto anche solo un po’.

Leggo i miei appunti.
Il reclutamento dell’adepto è la sua fidelizzazione. Si ottiene attraverso minacce più o meno sottili. Al di fuori della Vera Via di A. non c’è nulla e chi se ne va perde la sua unica opportunità. È morto spiritualmente e condannato all’eterno tormento del mondo.
Cazzo.
«Dopo un paio di anni nella Vera Via e aver fatto certi esercizi personali, Aleph ti consegna una parola in arabo chiamata “il segreto”. Mi ricordo bene quel giorno.» Akira suda copiosamente. Si passa le mani tra i capelli ingelatinati. Le mani sudate. Gli occhi si posano sulla ciotola di caramelle sul tavolino di vetro. Gli occhi si posano sulla cima dell’albero fuori dalla finestra. Gli occhi si posano fuori campo. In un punto non identificato del muro dietro la mia testa, in alto a destra.
«È stato un momento di passaggio importante nel mio cammino di non ritorno. E anche una grande minaccia, perché se ti allontani dalla Vera Via dopo che ti hanno dato il segreto “che Dio ti trovi confessato, perché sei peggio che morto”.»
Perfino l’inferno dei cristiani sembra un villaggio Valtour rispetto a ciò che ti può accadere se te ne vai una volta che ti è stato dato il segreto.
Cerco di mantenere l’attenzione focalizzata sul fatto che chi entra in questa setta tragga un beneficio. Ma non mi riesce proprio di immaginare un beneficio basato su queste minacce.
A. è l’unico Maestro Vero che esiste nel mondo in questo momento, e La Vera Via è l’unico Cammino reale.
Uno è quando non pensa, il Maestro è infallibile, mi ricordo dalle mie letture. Esso è infallibile. E fuori del Cammino sei morto.

Uno è quando non pensa.
Il postulato di base si riassume nella consegna “Luce, attenzione, direzione, intenzione”.
Poi c’è l’impeccabilità. In poche parole. Non leggere, non praticare nulla che non provenga dal Percorso per un’Esistenza Migliore, poiché questo ti disallineerebbe. Ti disallineerebbe. Questa parola è stupenda. Akira la pronuncia con dolcezza.
Uno è quando non pensa.
Oh, per un discepolo è importante che guardi dall’altra parte o faccia come se nulla fosse di fronte a eventuali azioni illecite di chiunque dei suoi compagni di cammino, ma soprattutto dei suoi superiori nella piramide.
Sì, perché i membri anziani e i vertici mettono a punto varie truffe e crimini a diversi livelli di illegalità.
Tra i reati più degni di nota: il furto di macchinari, l’intimidazione, il ricatto e la truffa vera e propria, stile Totò che vende la Fontana di Trevi.
Uno è quando non pensa.
Akira è in un delirio logorroico. Io sono confuso. Il succo di tamarindo è acido. Non c’è altro da bere in questa casa?
«Il successo personale è la meta verso cui si orienta la consegna “Luce, attenzione, direzione, intenzione”, e la prova dell’impeccabilità non è altro che la prosperità economica…»
Sta cosa mi ricorda molto Max Weber e la tradizione calvinista: la ricchezza è il segno che Dio è con te, così più ricchezza accumuli, più sei vicino a Dio.
Questa è la chiave del Percorso per un’Esistenza Migliore. La chiave di lettura di tutto è il denaro. Più denaro hai, più stai evolvendo. E più denaro dai al maestro e più ti avvicini alla Verità.
Sono un po’ deluso dalla banalità delle mie conclusioni. Ma la vita in fondo non è un continuo susseguirsi di delusioni e di piccoli successi?
Uno è quando non pensa.
Bisogna guadagnare denaro in qualsiasi modo, più è meglio è, e non importa come, poiché il “come” riguarda l’ego. Sempre riguarda l’ego.
Uno è quando non pensa.
Lo dice il Maestro.
Akira non è più in sé. Questa intervista lo sta devastando.
Ora ride. Ora digrigna i denti.
È zuppo di sudore.
Pausa.
«Senti, magari ora ci prendiamo una pausa, no?» propongo.
«Forse sì. Forse è meglio.»
Va al bagno a sciacquarsi. Ascolto il rumore dell’acqua che scorre nel lavandino. Sento passare gli aerei sopra le nostre teste.
Sono troppe informazioni. Informazioni su una setta che ha sempre meno di mistico. E sempre più di business. E il business mi ha sempre annoiato a morte. Ma questi fanno paura.
«Io pagavo l’equivalente di 120 euro in contanti in nero ogni mese per seguire La Vera Via.» Mi strilla Akira dal bagno.
«Il Percorso per un’Esistenza Migliore è una società con varie società satellite, come Sanitelectronics e Health For Life, che hanno il compito di fare da distributori dei prodotti per la salute, come il guaranà, maca, rosa mosqueta, coenzima Q10, ecc., e attrezzi per smettere di fumare. Poi ci sono i corsi pubblici di Ireca, Perfect Shape, ecc.»
Ascolto.
Ogni guadagno o corso che si faccia in una riunione o che utilizzi il simbolo di Percorso per un’Esistenza Migliore deve dare un tot per cento del ricavato per finanziare il progetto qualità della vita.
È come un franchising.

Ogni anno ci si vede tutti a Cancún. C’è il raduno mondiale degli adepti. I soggiorni a Cancún servono a fare la cresta sui prezzi dell’hotel nel quale si organizza il raduno.
Un esempio: 8 giorni, pensione completa, costa 1800/2000 euro.
Moltiplicando per 400 discepoli che assistono all’evento.
Un bel po’ di cresta da grattare.

Akira ora è spossato. Lo guardo tornare dal bagno. Vedo un atleta che ha appena corso la maratona. Sembra dimagrito, si è asciugato.
«Devi considerare la potenza suggestiva di A. Lui è il “Maestro contemporaneo” operante in Occidente, che ha il compito di aiutare l’uomo a svilupparsi al fine di partecipare al processo evolutivo del pianeta in maniera armonica rispetto all’universo.
Il Maestro è uno di coloro che operano generalmente nei momenti di particolare crisi e necessità per l’umanità, rimanendo sconosciuti.»
Sembra di sentire parlare un libro stampato. Sembra di sentire La Vera Via. Un audiolibro.
La versione della storia che spaccia il Maestro è che da quando l’uomo è apparso sulla terra è cominciato ciò che viene chiamato “Il Lavoro”, che fa parte di un “Disegno” che prevede l’evoluzione del nostro universo a cui l’uomo stesso, grazie ad alcuni Maestri che hanno la funzione di aiutarlo, deve partecipare.
Adesso “Il Lavoro” di A. è in una “Nuova fase”, che segue quella in cui ha viaggiato per tanti anni per tutto il mondo, trasmettendo l’insegnamento.
La “Nuova Fase” può essere vista come un UFO, che ha la missione di portare l’umanità verso un futuro più evoluto perché “Questo viaggio è ideato, desiderato, protetto e teleguidato dall’Essere Unico che ha in Sé tutta la conoscenza dell’Universo e dei Mondi”.
La mia conclusione personale è che per fare grossi affari in questo paese non si può prescindere dalla criminalità organizzata. Dal narco o da sue diramazioni.
È impossibile.
Uno è quando non pensa.
Proprio quello che pensavo. Ora cosa faccio?
Le conseguenze delle proprie azioni. VII.

Devo uscire di qui. Devo prendere aria. Devo pensare. Questa stanza è opprimente. Voglio vedere gente.
Questa città è piena di gente. Di facce, persone, vite.
Non posso stare chiuso qua dentro a guardare il soffitto.
Ho paura. Ho paura? Mi fa paura l’idea.
Che qualcuno possa cancellare la propria individualità, la propria volontà a tal punto.
Che qualcuno possa piegare la mia volontà e costringermi a fare ciò che non voglio. Ciò che non vorrei. Ciò che non ha senso.
Non sono sorpreso teoricamente. Di queste cose se ne sentono.
Sono abituato a sentire parlare di estremisti religiosi che si imbottiscono di tritolo e si fanno brillare in un autobus a Haifa, per esempio.
È una vita che ci bombardano la testa di terrore islamico.
Non è una sorpresa.
È sorprendente vederlo di persona, però.
È sorprendente guardare il mostro negli occhi. Fa paura il vuoto. Ti lascia senza parole, la naturalezza.
Vedere una persona che sembra come te. Che fa le stesse cose che fai tu, che si veste come te. Con cui puoi parlare di calcio, del tempo, di politica, di cinema.
Ma contrariamente a te, ricevuto un comando, semplicemente esegue.
Obbediente.
Sereno.
Non si fa domande. Perché ha già tutte le risposte.
Fa paura l’idea che si infila sotto la pelle che TU potresti essere così.
Terrorizzano i dati biografici. Potresti essere tu.
Potrei essere io, quello.
Non ci separa molto. Una casualità ha voluto che il Maestro lo abbia incontrato lui e non io.
Mi sconvolge il pensiero che possa essere io il prossimo.
Mi atterrisce l’eventualità che questa opzione MI RENDA FELICE.
Sono due giorni che ho paura.
E se l’infelice fossi io?
E se l’oppio della mente fosse la vera risposta?
E se i miei dubbi, la mia rabbia, il mio malessere, si potessero davvero curare così?
Se avessero ragione loro? Se la soluzione fosse una bella religione freelance?
Il soffitto non sa rispondermi. Il ragno che aspetta in un angoletto sopra la mia testa è due giorni che mi guarda. Se avesse la risposta me l’avrebbe data.
Vittorio ha l’aria di chi ne sa qualcosa. Ma esso fissa il vuoto e tace.
Devo uscire.
Salgo su un taxi rosso e oro parcheggiato proprio sotto casa mia. Sul cruscotto una nicchia con dei fiori a omaggiare la statuetta della Vergine di Guadalupe.
Dalla radio esce la voce da bambino del cantante dei Loony Tunes, gruppo portoricano di reggaeton, che canta Te he querido, te he llorado. Versione tamarra di una canzone d’amore disperato. Proprio quello che ci vuole.
Il tassista è giovane. Camicia giallognola, gilet di pelle. Sorriso caldo. Occhi tristi.
«Andiamo alla Condesa per favore. Libreria Fondo de Cultura Economica, su Avenida Tamaulipas.»
«Sì, señor.»
«E per favore, puoi alzare il volume della radio?»
Leggo il nome del tassista sul cartellino attaccato al parabrezza con una ventosa. Luis Escobedo Linares. È gentile. Per una volta. Alza il volume e mi guarda soddisfatto dallo specchietto retrovisore panoramico convesso.
La città sfreccia grigia fuori dal finestrino aperto.
Entra aria tiepida che sa di smog e asfalto. E tacos.
Mi appoggio allo schienale.
Qualcosa succederà.
Qualcuno mi darà una risposta.

Radical Shock. Una storia sinistra. Capitolo sette. Salida

Se avete progetti seri, è il momento di deciderne la sorte. Ma prima dovreste allentare l’angoscia per il futuro motivando la profondità e la ponderatezza delle vostre iniziative. E se l’amore rema contro, convincetelo con l’eterna seduzione della parola. PONDERATI.

«Pronto?»
«Ciao Antonella, come va?»
«Bene. Tu? Dov’eri sparito?»
«Mi ero un attimo chiuso. Sai questa storia con Ginevra. Ero in fase autocommiserazione. Ti devo dire una cosa. Ho deciso: io me ne vado in Messico.»
«Finalmente!»
«Come finalmente? E non mi chiedi nemmeno perché?»
«Ma lo so già perché, Samuele. Perché non hai più nulla qui, non hai un lavoro, la tua donna ti ha lasciato e ti senti in gabbia. Tesoro perché devi sempre farmi fare il grillo parlante?»
«Perché mi piace da morire quando mi dici quello che penso. E quando sai già, senza che te lo debba dire, quello che farò e perché.»
«Ci conosciamo da un bel po’ ormai. E per un sacco di tempo abbiamo lavato le mutande insieme… e poi anche tu mi conosci bene.»
«Comunque non ridere, ti sto cercando di dire una cosa drammatica e solenne, cazzo. Non posso buttare sempre tutto in caciara!»
«Ok, ok. Scusa scusa scusa. Dai ricomincia.»
«Allora, ti volevo dire questa cosa. Che ho preso una decisione irrevocabile. Ho deciso che devo partire per il Messico. Devo emigrare.»
«Mmm»

«Voglio fare un’inchiesta giornalistica sulle sette esoteriche. Su questo Percorso per un’Esistenza Migliore, che c’è anche lì. Giorgio mi dovrebbe procurare il contatto nella rivista con cui collabora, Mondo Oggi.
Ho capito che è tempo di nuovi inizi. In fondo è un bene che Ginevra mi abbia lasciato. Devo dirle grazie perché mi sta dando la possibilità di fare quello che voglio veramente. Mi devo dedicare al giornalismo. Tanto qui non ho nulla che mi trattenga.»
«Mi hai convinto. Ora però cerca di mantenere questa decisione il tempo necessario per consentirmi di farti il biglietto. Tanto lo so che se non ti ci metto io su quell’aereo te fai in tempo a innamorarti follemente della prossima della lista e siamo punto e a capo.»
«Farò del mio meglio ma non posso assicurarti niente.»

Ho appena deciso di emigrare. Sono anni che dico che lo farò. Oggi so che stavolta è andata. Sempre che Antonella mi metta su quell’aereo.
Decidere di emigrare a trent’anni in un paese come il Messico può sembrare l’ammissione di una sconfitta.
E in parte lo è. Meglio. È la presa d’atto che non sussistono più le condizioni per una serena sopravvivenza in patria.
La considerazione è abbastanza lineare. Non ho un lavoro, non ho una casa, non ho una donna, non ho un patrimonio, non ho dei figli che mi leghino a questo paese.
Con i pochi soldi che guadagno con articoli e traduzioni, a Roma a stento posso pagarmi le spese se occupo a scrocco una stanza nella casa dei miei genitori.
A Città del Messico ci pago affitto e cibo. E posso trovarmi un lavoro part time. E magari anche scrivere.
La logica è stringente.
Ormai questo discorso l’ho imparato a memoria e lo spiattello in faccia a tutti quelli che mi chiedono se sono pazzo ad andare a vivere in “un paese sudamericano del terzo mondo”.
A parte che una volta per tutte voglio spiegare che il Messico NON è un paese sudamericano, ma è NORD americano. Poi terzo mondo è una categoria che non condivido e per me è priva di significato.
Il fatto è che credo a tutto quello che dico, alle ragioni logiche e convincenti, ma poi quando sto da solo nella mia cameretta guardo in faccia la realtà. Ci sono altri motivi che mi spingono a lasciare questo continente morto per cacciarmi nella pancia del Monstruo.
Il Messico non l’ho scelto a caso. È il luogo dove tutti i reietti, i perdigiorno, i rivoluzionari senza rivoluzione, i perdenti, gli innamorati e i sognatori si sono rifugiati. Città del Messico ha sempre accolto tutti con amore e compassione. E in qualche modo, ognuno a suo modo, tutti quelli che hanno scelto il Distrito Federal, hanno trovato quello che cercavano. La pace interiore. La serenità. La rivoluzione perduta. I sogni.
Sono anni che cerco Città del Messico. Mi chiama.
Ogni fallimento che vivo fa crescere il mio desiderio di lasciarmi cullare nel ventre della Città. È un desiderio di fuga, certo. Ma non di fuga generica. È un desiderio di fuggire verso, non di fuggire da.
Non so se troverò quello che cerco, ma so che devo andare a vedere di persona.
Un altro motivo è che Ginevra mi ha lasciato in ginocchio. Cioè non che quando mi ha lasciato lo ha fatto inginocchiandosi per terra. Ha lasciato me in ginocchio. Faccio lo splendido ma Ginevra mi ha proprio spezzato le gambe. Ha frantumato desideri, ambizioni, sentimenti.
Non è stata la donna che ho amato di più. Quella era Lauréda.
Ma con Ginevra stavo finalmente costruendo. Con Ginevra avrei messo su famiglia. Ci avevo creduto. E nella mia nuova vita non ci deve essere più lei. I suoi amici. Il suo viso in televisione. Il suo mondo di bachelite.
Poi la storia della setta esoterica mi sta mangiando il cervello. Da quando ho saputo che in Messico PEM ha una delle sue sedi più grandi è come se si fosse chiuso un cerchio.
È come quando nei romanzi di Agatha Christie arrivi al punto, più o meno a tre quarti di libro, in cui hai sul piatto quasi tutti gli elementi e devi mettere a posto i pezzi insieme a Poirot o Miss. Marple, per arrivare alla soluzione finale. Ho davanti a me tutti indizi della mia vita che conducono inevitabilmente al Messico. Alla soluzione finale dell’enigma. Lo devo fare. Altrimenti IO MUOIO.
Ora devo sperare solo che la soluzione io la possa scoprire e accettare.

***

Una sera qualsiasi in una Panda rossa. Sotto casa di Giorgio. Sono tre quarti d’ora che parliamo. Mi sta guardando in faccia. Si ferma un attimo. Sguardo assorto. Poi serio. Poi sbotta.
«Comunque sai qual è la cosa più bella di tutte?»
«Nella vita? Scopare?»
«No… idiota. Del Messico.»
«Ah, no. Dimmela.»
«È il canto delle balene. Se ti capita vai in Baja California verso febbraio, quando arrivano a svernare e a partorire le balene dall’Alaska. Se arrivi al mar di Cortés in quel periodo con una tenda ti accampi sulla spiaggia. Il deserto alle spalle e di fronte mamme balene coi loro cuccioli che cantano! È quella la vera pace. Non c’è niente di più bello…»
«…»
«…»
«Ok Giorgio. Ora dovremmo baciarci?»
«Mortacci tua, NOO!!»
«Hai detto una frociata rara! Pareva una scena di un film con Vaporidis. Pensavo che mi volessi baciare…»
«Ok è una frociata. C’hai ragione. Però te lo dovevo dì. È troppo bello.»
«Non c’è niente di male a essere froci. Io ho sempre pensato che tu lo fossi… sei così sensibile…»
«Vaffanculo! Smettila. Non dirlo nemmeno per scherzo! Cristo che schifo! Vabbè buona notte.»

***

Facebook.

13:25Ginevra
vai a prendere il virus per le palle?
13:25Samuele
si
13:25Ginevra
bravo
13:25Samuele
ho fatto già il biglietto. vediamo se è così cazzuto come dicono…
secondo me è mezzo frocio
13:25Ginevra
vediamo
facile
13:27Samuele
stasera credo che non verrò al tuo spettacolo. non mi va di vederti così. sarà un bellissimo spettacolo ma credo che ne farò a meno. grazie per l’invito comunque. se per te va bene lo giro a Fausto. se poi ti va, prima che parto ci salutiamo come due cristiani.
13:28Ginevra
ho letto ieri l’ultimo articolo che hai scritto…
13:28Samuele
🙂
13:28Ginevra
se non l’hai ancora fatto non lo girare a Fausto il biglietto
in realtà era un biglietto inventato
non c’è posto quindi se non vieni tu lo cancello
13:29Samuele
ah
tipo che arrivavo e non era vero un cazzo
era una gag?
faceva ride…
13:29Ginevra
si era vero ma sono in crisi per i biglietti
ce ne sono -32 quindi se non vieni tu alleggerisco
13:30Samuele
mi fa piacere essere d’aiuto
13:30Ginevra
?
13:30Samuele
un motivo in più per non venire
13:31Ginevra
fai come ti pare
per me non aveva senso che tu non lo vedessi
non per me, per lo spettacolo che ti piacerebbe da morì
13:31Samuele
lo so che mi piacerebbe da morì
me lo hanno detto tutti quelli che ce so venuti al primo giro
ma credo che sia meglio così. Credo che non ha alcun senso che io venga.
13:32Ginevra
ok
13:32Samuele
comunque grazie. veramente. l’ho apprezzato molto
13:32Ginevra
ok
13:32Samuele
io parto il 22. se prima ti senti che hai voglia che ci salutiamo il mio numero lo sai. io non ti chiamo.
merda merda per stasera
13:33Ginevra
merda merda!
ti trasferisci?
13:34Samuele

13:34Ginevra
in bocca al lupo Sam.
13:35Samuele
il lupo sono io!
13:35Ginevra
:):)
Non la rivedrò più
(e sputerò sulle vostre tombe!)

***

Rinnovo del passaporto. Selezione accurata dei libri da portare con me (un po’ tipo quali sono i libri che ti porteresti su un’isola deserta…). Questa è dura. Delitto e castigo, Q, La convivialità, i racconti di Philip K. Dick, Ebano di Kapuscinski, Taccuino di un vecchio porco di Hank Bukowski e Cronache mediorientali di Robert Fisk. La mia borsa ora pesa già sette chili solo di carta. Un mucchio sparso di vestiti completa il bagaglio. Computer, macchina fotografica, registratore, quadernini vari, penne. Mutande.
Mia madre mi consegna commossa una latta da tre litri d’olio extra vergine della Sabina che produciamo noi, ogni anno, con fatica, sudore e tanta soddisfazione. È un momento solenne. Racchiude in sé tutto l’amore materno, la preoccupazione per la mia alimentazione sana.
«Chissà cosa mangerai in Messico, poveretto.»
«Mamma, in Messico si mangia benissimo.»
«Sarà… ma non hanno l’olio d’oliva!»
«Mamma, tu hai scoperto l’olio d’oliva negli anni settanta, quando sei venuta a Roma. A Venezia nel dopoguerra usavate il burro, l’olio è una cosa a voi sconosciuta…»
«Va bè, comunque questo è più buono. Te lo devi portare.»
«Certo mamma, grazie.»
Mi abbraccia.
Mia mamma è la mamma di tutti. È la donna che a 70 anni suonati si gira ogni volta che sente una voce di bambino chiamare mamma.
Il suo è l’abbraccio di mamma. Una delle cose da mettere in valigia. Del resto sono un maschio trentenne italiano. Non mi vergogno.
Mio padre è formale e impacciato come sempre quando si tratta di me. Non riesce a nascondere l’emozione che tenta di mascherare dietro a una solennità goffa. Ho imparato a volergli bene.
Mia sorella è divertita e fiduciosa. Anche se ci scanniamo a sangue da sempre, in fondo approva le mie scelte in silenzio. E mi para il culo. In silenzio.
«Molla quei gatti di merda e fai un salto in Messico se ti capita», le dico.
«Vediamo che dice l’oroscopo.»
«Che deve dire? Che è tempo di nuovi inizi!»

Il tiggì uno dice che il Ministero degli Esteri consiglia di non partire per il Messico a causa della violenta esplosione di “febbre suina”. Ad oggi si contano 103 morti (dei quali 21 riconducibili direttamente al virus mutante).
Il nostro inviato a Città del Messico mostra la città fantasma. Le autorità messicane hanno detto di non andare a lavoro. Di non andare allo stadio, a scuola, all’università. La Chiesa ha addirittura sospeso tutte le funzioni religiose a tempo indeterminato per paura dell’epidemia! La Chiesa cattolica!! Hai visto mai che un po’ di disintossicazione da Cristo gli fa bene ai messicani. Sta “febbre suina” è una benedizione.
Le strade di Città del Messico nelle immagini del cameraman della Rai sono deserte. Mi ricordano la scena iniziale di 28 giorni dopo di Danny Boyle.
Ovviamente l’unica volta che decido sul serio di partire, di mollare gli ormeggi, di lanciarmi verso nuove entusiasmanti esperienze, si scatena un’epidemia mortale tipo ebola.
Cazzo non succede mai niente in Messico! Proprio ora che sto facendo il biglietto??
È evidente che sono di fronte a un complotto ordito da forze oscure per impedire la mia partenza (c’entrerà qualcosa l’influsso della madre superiora/batman dell’autobus?). Non vi può essere altra spiegazione. Ma non mi faccio intimidire. Pensano che mi spaventi un po’ di mocciolo e di febbre? “Febbre suina”, non mi fai paura, ti sfonno quando me pare!
La cosa buona è che i biglietti ora costeranno pochissimo, perché tutti, terrorizzati dall’epidemia mortale non vorranno più andare in Messico e io volerò da solo pagando venti euro.
Ovviamente no. Il biglietto costa uguale a prima e quella dell’agenzia mi dice che è tutto pieno. Devo rinviare di qualche giorno.
Ma in che cazzo di paese siamo? Porca troia, il MINISTERO DEGLI ESTERI SCONSIGLIA DI VIAGGIARE IN MESSICO e tutti che fanno? Vanno in Messico? Ma allora siete dei deficienti! Volete tutti morire di febbre suina fulminante? Dall’altra parte del mondo poi… roba che solo per riportare a casa le salme le vostre famiglie dovranno fare i mutui per i prossimi quarant’anni! Irresponsabili!

***

Antonella alla fine mi mette davvero su quell’aereo.
Il volo Lufthansa mi culla. Anche grazie ai quattro bloody mary che mi faccio preparare dalle belle hostess teutoniche. Ho preso questa abitudine, di sfondarmi di bloody mary in aereo, proprio sui molti voli transoceanici che facevo a diciannove anni.
Ogni volta che tornavo in Italia dalla Colombia dovevo sbronzarmi per dimenticare che stavo lasciando l’amore in quel paese. Ero fidanzato con una colombiana. La donna che mi ha reso un uomo. La donna che mi ha fatto capire il mio destino con le donne.
E ubriacarmi in aereo è diventato un rituale al quale non ho nessuna intenzione di rinunciare.
Il film che trasmettono oggi nello schermo incastonato nella testiera del sedile davanti al mio è Mostri contro alieni della Dreamworks.
A me quelli della Dreamworks stanno sulle palle. Shrek non mi è piaciuto. Nessuno dei tre. È un po’ come la questione se sei della Roma o della Lazio. Io non sono uno sportivo. Io tifo. Devo per forza prendere una posizione che esclude l’altra, altrimenti IO MUOIO. E io tifo Pixar. Tutta la vita.
Mentre sto per addormentarmi aiutato dall’alcol ripenso al progetto che voglio portare avanti. Alla mia inchiesta sulle ramificazioni messicane del Percorso per un’Esistenza Migliore, alle sette esoteriche, ai maestri e alla Via.
Mi tiro su il cappuccio della felpa per ripararmi dall’aria condizionata a palla e parto per il mondo dei sogni.

***

L’arrivo all’aeroporto internazionale Benito Juárez è emozionante.
Ho la gastrite.
Dopo una discesa in una cappa marrone di smog si atterra in mezzo ai palazzi. Il più importante scalo messicano si trova in mezzo alla città, quindi i piloti devono stare abbastanza attenti a non scorticare tetti e cornicioni degli edifici circostanti.
Si riempie il naso di caccole di smog. Sono arrivato.
Mi viene a prendere in taxi Serapio. È come Giorgio me lo ha descritto. Faccia ironica da mastino navigato, pizzetto, stempiato, pancia da bevute dure.
Serapio è un editorialista della Jornada, il quotidiano più importante di Città del Messico (se per importante consideriamo il più autorevole, non il più venduto).
«Ciao Samuele. Benvenuto in Messico! Giorgio è un buffone rinunciatario. Però sono contento di conoscerti. Mi ha parlato bene di te. Se sei amico suo sei anche amico mio!»
«Giorgio è un indeciso, non un rinunciatario. Comunque grazie. Magari verrà pure il gigante prima o poi.»
«Hai fatto bene ad andartene dall’Italia. Con quel presidente che vi ritrovate… Almeno qui l’anno prossimo c’è la rivoluzione, sempre che sopravviviamo alla febbre suina…»
I messicani si vantano perché ogni cent’anni hanno mostrato al mondo i denti della rivoluzione.
L’Indipendenza del 1810 dalla corona spagnola ha aperto il secolo di Hidalgo e Morelos, con una rivoluzione che si ricorda ancora il 15 settembre con il famoso grito dal palazzo di governo dello Zócalo di Città del Messico (¡Viva México!).
Nel 1910 la Revolución di Villa e Zapata dava inizio al secolo breve.

Serapio mi porta a mangiare. Tacos.
Siamo in una taqueria nel quartiere della Condesa, pieno di locali alla moda, librerie e sale da tè. Questa zona ha un’aria bohemiénne nella sua versione messicana.
Arrotolo la piccola tortilla di mais con dentro carne fatta a pezzetti, salsa verde e un tocchettino di ananas. La carne cuoce su un’asta verticale, come il kebab. In cima c’è un ananas. I taqueros tagliano la carne dall’alto in basso direttamente nella tortilla e poi con un colpo secco di coltello staccano un pezzetto di ananas che dalla cima precipita in mezzo al taco. Un bell’effetto scenico.
Ci spremo sopra succo di lime. Molto buono. Molto piccante. Annaffio con cerveza Bohemia (la Corona non mi è mai piaciuta, nemmeno in Italia).
«Vacci piano con quel chile, che se no piangi!»
«Hai ragione, ma mi piace piccante. E poi dicono che ha effetti miracolosi contro la gastrite…»
«Chi lo dice? Se mai il contrario… ma fai come vuoi. Invece dimmi. Cosa ti porta qui Samuele? Giorgio mi accennava a un’inchiesta su una qualche setta…»
«Sei uno che va subito al punto eh? Non so cosa mi porti veramente qui. Però sì. Sto prendendo informazioni su una setta che si definisce esoterica. Ha una faccia pubblica new age. Il Maestro è italiano. Faceva l’assicuratore. E ora controlla un’organizzazione internazionale che fattura milioni di euro l’anno, sparsa in molti paesi che continua a fare adepti. E il Messico è il paese in cui il Percorso per un’Esistenza Migliore ha prolificato più rapidamente e in modo più massiccio.»
«Beh, diciamo che non mi sorprende. Qui siamo bravissimi a farci prendere per il culo con questo genere di cose…»
Le macchine ci passano davanti in un traffico lento e annoiato. Stereo a palla che sparano reggaeton. Per un attimo mi immagino i figli di Sevla a Città del Messico. Non mi viene in mente una location più adatta di questa.
«Mi ha detto Giorgio che hai lavorato per l’Agir, quell’agenzia di stampa così filozapatista…»
«La conosci?»
«Conosco il suo direttore. Veniva in Chiapas a fare il compagno quindici anni fa. Si è fatto un pessimo nome.»
«In Italia si spaccia per uno dei più grandi conoscitori di zapatismo…»
«Che ipocrita…»
«Io ho lasciato quel posto, comunque. Qualche anno fa hanno organizzato una manifestazione contro il precariato. Piazza San Giovanni piena di gente incazzata. Sul palco gli intellettuali della sinistra radicale a urlare contro il NEMICO. Torno in redazione e mi rendo conto che non mi pagano da sei mesi, che metà delle persone che lavora con me è in nero e l’altra metà è precaria e che il mio direttore è uno stronzo che non ha mai lavorato un giorno in vita sua.»
«Hanno tutti pochi soldi comunque…»
«Non è vero. Quelli che rimangono sono quelli che possono permettersi di farlo. I mantenuti. Quelli che hanno un cognome importante. Poi il tuo amico direttore ci ha detto che dovevamo chiedere un prestito alla banca per farci dare l’anticipo sullo stipendio. Secondo lui dovevo pagare gli interessi sul mio stipendio!»
«Lui è comunista, vero?»
«Direi che lui è una merda, piuttosto!»
«Finisci i tuoi tacos che così possiamo andare a bere qualcosa di più serio.»
Le conseguenze delle proprie azioni. VI.

Il taxi mi lascia di fronte alla libreria. Pago ventisette pesos. Scendo. L’aria è tiepida e sento profumo di fiori. Nella città più inquinata del mondo.
Mi accendo una sigaretta. Qui non si trova il tabacco Old Holborne. Il poco che ho portato dall’Italia è per i momenti speciali. Quindi mi devo adattare a quello che c’è.
Fumo Delicados ovaloides.
Sono le quattro del pomeriggio. Sono stordito. Il tabacco mi fa stare meglio.
Fumare mi aiuta a pensare. E a rilassarmi.
Perché sono così ossessionato dalle sette e dalle loro dinamiche?
In fondo gli adepti ricevono un miglioramento della vita dalle pratiche dettate dai maestri.
Sono persone che hanno bisogno di trovare una figura carismatica che li comandi a bacchetta. Che dia delle risposte semplici. Risolutive, come tutte le religioni, in fondo. E che dia delle direttive da seguire senza discutere. È rassicurante.
Cos’è che mi disturba tanto allora, nel fatto che qualcuno possa annullare sé stesso per eseguire gli ordini di un Maestro?
Forse è perché non sono abbastanza narcisista da pensare che si possa essere adorati da propri simili? Oppure mi fa rosicare il fatto che esista qualcuno che si arricchisce truffando la gente senza fare il minimo sforzo? La mia è invidia? Non lo ammetterò mai. Il retaggio cattolico che mi mangia il cervello.
Mi piace pensare che il problema sia collettivo. Che è inaccettabile una delega così totale di responsabilità. Il bisogno di mettersi al fianco di una figura carismatica per non prendere delle decisioni, per farsi dire sempre con CERTEZZA cosa è giusto e cosa è sbagliato, per rimanere per sempre adolescenti.
È la vicinanza al carisma.
Il carisma è una cosa semi divina che attrae la gente che si fa attrarre. E ha un ché di potentemente naturale.
Chi ha il carisma sembra che non possa fare altro che il leader ma chi non ha il carisma, stando vicino al carismatico…beh, splende di luce riflessa. Ed è disposto a fare qualsiasi cosa. A occhi chiusi.
Si sente meglio di chi sta lontano dal carismatico. Solo per questo è già superiore agli altri e ha risolto il problema. Per cui si torna alla questione del riconoscimento sociale, che al di fuori della setta non avresti.
Ti sottometti ad un leader, ma attraverso di lui puoi sottomettere almeno simbolicamente altri, perché stai dentro una struttura piramidale che però ha una certa mobilità interna. Anche fratricida.
Finisco la sigaretta. La schiaccio con la punta del piede destro. Entro. Vago a caso tra gli scaffali.
Mi sento più calmo.

diario da Città del Messico. Io sono El Santo.

el Enmascarado de plata
el Enmascarado de plata

La giornata di ieri poteva sembrare un qualsiasi venerdì a Città del Messico. Un venerdì barzotto direbbe qualcuno. Per esempio io.

Poi all’improvviso si fanno le 7 di sera e raggiungo Silvia e i suoi amici in una cantina del centro storico. Quattro chiacchiere e qualche tequila. Continua ad essere venerdì. Nove e mezza, Arena México per il rito della lucha libre nel suo tempio nazionalpopolare. C’è un amico francese di Silvia, Roman, entusiasta degli energumeni mascherati che ogni settimana affascinano grandi e piccini con uno spettacolo che i più non riescono ad apprezzare. C’è sempre qualche ottuso che commenta sì vabbè però si vede troppo che non fanno davvero a botte, cioè si capisce che è per finta. In questi casi purtroppo è difficile avere un’interazione civile. Ma tant’è.

Dunque finita la lucha ci buttiamo tra le bancarelle che vendono maschere, magliette, pupazzi e tutto ciò che può avere impressa la faccia enmascarada dei nostri eroi.

Ovviamente non resisto e mi compro la maschera del Santo.

Ora. Per chi non lo sapesse El Santo non è stato solo il più importante luchador, insieme a Blue Demon, della storia messicana. Esso è un eroe. Un’icona immortale. Un mito. In questo paese che idolatra divinità ed eroi mascherati El Santo è più o meno come Maradona per i napoletani, o come Elvis per… per i fanatici di Elvis.

A partire dagli anni cinquanta El Santo, conosciuto anche come el enmascarado de plata, comincia a diventare un eroe grazie a fumetti e film che lo hanno come protagonista. In tutta la sua carriera nessuno è mai riuscito a togliergli la maschera in combattimento, nessuno lo ha mai visto in faccia. Da qui è nata la leggenda per cui il giorno in cui gli fosse stata tolta la maschera sarebbe morto. Nel 1984 el Enmascarado de plata partecipa a un programma televisivo e il presentatore riesce nell’impresa. Gli fa mostrare al pubblico un pezzetto della faccia. Dopo una settimana muore di infarto. E il mito prosegue e si ingrossa. Si dice che sia stato sepolto con la sua maschera d’argento.

Ieri sera mi presento con i miei amici in un locale della colonia Roma. Prima di entrare, per gioco, indosso la sacra maschera del Santo. Entro.

Da qui la serata cambia. Inaspettatamente tutto il locale esplode in grida e applausi. Dopo 30 secondi sono il re della serata. La follia. Gente che grida SantoSantoSantoSanto mi fanno ballare in mezzo a cerchi vertiginosi. Mi offrono da bere. Tutte le ragazze del locale vogliono ballare con me. Anzi non con me. Con El Santo. I loro fidanzati mi chiedono se posso farmi delle foto con loro. All’improvviso vengo preso per le gambe e sollevato come la coppa dei campioni. Sono stravolto. Non riesco a credere a quello che mi succede. Duecento persone impazzite che coinvolgono uno sconosciuto in modo forsennato peché indossa la mascara de plata. Mi fanno salire su uno sgabello e mi costringono a ballare. Per tutto il tempo in cui rimango nel locale gran pacche sulle spalle, sorrisi, abbracci commossi.

Io non posso più togliermi la maschera. Non sono più io. Non riguarda più me. In questo momento io presto il mio corpo allo spirito del Santo. E ho il dovere di onorare la maschera che indosso di fronte a tutta questa gente che la rispetta e la venera. Per un momento ho capito come deve sentirsi Francesco Totti quando entra in una trattoria di Testaccio. Per poche ore ho sentito nel mio corpo la concretezza dell’amore di un popolo verso un suo eroe. Un eroe mascherato. Un giustiziere. Un’icona positiva. Popolare.

Uscito dal locale, solo dietro l’angolo tolgo la maschera per prendere aria e un taxi. Per qualche istante temo che anch’io possa morire facendo quel gesto. Ma non accade. Evidentemente.

Probabilmente questa è l’esperienza più surreale che mi sia successa a Città del Surrealismo.

Che lo spirito di Rodolfo Guzmán, conosciuto come El Santo, ci protegga tutti.