diario da Tapachula. cavalcando la Bestia

Insomma mi piomba a casa dalla Colombia uno dei cavalieri con cui ho condiviso la vacanza ad Haiti. È Cutie, alias Fabio Cuttica, fotografo che il mondo ci invidia.

Mi dice, oh, senti, ma che ne pensi se ce ne andiamo in giro per questo famoso Messico a raccontare le storie degli sfigati? Dico, ma te pare? Certo Cutie, stamo qui apposta. Dunque mi arriva a casa con tutte le sue mirabolanti macchine fotografiche.

Tempo due giorni siamo in volo verso Tapachula, amena città del Chiapas al confine con il Guatemala. Questo posto è famoso perché da qui partiva il treno della morte. Conosciuto anche come la bestia, il treno trasporta merci e migranti centroamericani. Prima partiva proprio da Tapachula, ma dopo l’uragano Stan, la stazione di partenza si è spostata a 250 km da qui, in una ridente località dal simpatico nome di Arriaga.

Tapachula ci accoglie col suo clima torrido. Noi siamo due giovani reporter intenzionati a indagare a fondo il tema della migrazione, scavando nei meandri della realtà. Prima tappa, il centro di accoglienza per migranti, la versione messicana dei CPT. Premesso che trattasi di carcere a tutti gli effetti, benché il responsabile della comunicazione si inalberi in definizioni molto più politicamente corrette, ad una prima occhiata non sembra poi così male. A dire la verità sembra molto meglio della scuola dove andavo alle medie. Un posto pulito, dove la gente mangia bene, si rilassa due o tre giorni, e accetta il fatto che verrà rimpatriata. Dico, è tutto molto triste, ma siete mai passati per un CPT?

Soddisfatti della gita ci lanciamo per le strade del sud del Chiapas insieme al Gruppo Beta. Essi sono dei baldi giovini che hanno il compito di assistere i migranti in cammino, dando loro acqua, tonno, crackers, informazioni legali. Sono funzionari migratori, ma non di quelli che ti rimpatriano. Diciamo che con la loro divisa arancione trasmettono una relativa sicurezza. In genere i migranti si fidano di loro, ma comunque ti rimane un po’ la sensazione che questi famosi Beta non è che facciano poi tutta sta differenza. Per carità, gli vogliamo bene, però diciamo che non sono proprio sti eroi.

Cutie scatta le sue foto. Io prendo appunti.

Accompagnati dai Beta ci appostiamo lungo i binari abbandonati della ferrovia. Gli amabili arancioni ci assicurano che con un po’ di pazienza riusciremo a beccare qualche migrante che ha appena passato la frontiera e che si dirige a piedi ad Arriaga. E fin da questo momento inizia a formicolarmi una sensazione ancora non ben definita, che si articolerà in seguito: e cioè che “i migranti” siano un po’ come della cacciagione, delle prede da spolpare un po’ da tutti.

Li aspettiamo, appostati lungo la linea, come si aspettano le anatre migratorie. Pronti a fare fuoco. Dopo il primo incontro con “i migranti” però capirò che non è esattamente così. Che l’altra parte di questa caccia, l’altra faccia, è che loro vedono in noi un megafono. Una possibilità di farsi sentire, di far ascoltare le loro storie, di far sapere cosa devono subire. Dunque cade l’annosa questione morale e si fa spazio il senso di responsabilità.

E dunque le storie. Il primo ad attraversare il ponte ferroviario rosso in cui ci siamo appostati è un ragazzo. È piuttosto una diva. Arriva sgambettando sudato gridando “llega la reina del sur” (arriva la regina del sud). Si chiama José, è hondureño e ha 30 anni. Vuole attraversare la frontiera “andare a fare scalpore nei locali di Los Angeles”.

José ha già fatto questo viaggio. Più di una volta. E finora gli ha detto bene, se si considera l’essere derubati un prezzo equo da pagare per realizzare il sogno americano. “Poi quando ho bisogno di tornare a casa, come ora, per vedere mia madre malata, mi consegno alle autorità, e mi faccio deportare in Honduras, così non devo pagarmi il viaggio di ritorno”.

Il gruppeto è composto di otto persone. Non tutte “esuberanti” come José. Tra loro c’è un paio di ragazze. Di loro nel cammino si perderanno le tracce. Alcuni degli altri invece li incontreremo di nuovo, nelle tappe successive.

I Beta consegnano le loro scatolette di tonno, l’acqua, danno blandi consigli. José si avvicina “lo so che nel cammino c’è un sacco di brutta gente. Ma non vi preoccupate. Se qualcuno vuole violentarci mi sono preparato, ho portato venti scatole di preservativi! se devono proprio farlo almeno che sia sesso protetto!!”

Io sono allibito dalla leggerezza e la determinazione di questa gente. Sanno perfettamente che la loro è un’impresa suicida. O nel migliore dei casi terrificante. E nonostante questo, nonostante la miseria che vivono nei loro paesi, affrontano questa odissea con uno spirito sereno, facendo dell’ironia sulla loro condizione.

Lasciamo il gruppo a riposare sulle rotaie abbandonate. Il loro salute sono risate argentine. La vita è sorella della morte e non c’è motivo di appesantire qualcosa che già di per sé è difficile.

Il cammino è appena iniziato