Radical Shock. Una storia sinistra. Capitolo tre. Illusioni di classe

Tre. Illusioni di classe.

Se i legami di amicizia o sentimentali non reggono alle prove della realtà, o se semplicemente sono troppo fiacchi per prendere un indirizzo deciso, non cercate spiegazioni, soprassedete. Altri interessi, altri progetti covano sotto la cenere. TEMPISTI.

«Amore, ti ricordi che stasera siamo alla festa di Vincenzo Carloni?»

«Cazzo mi ero dimenticato! Stavo scaldando l’acqua per i ravioli ai carciofi di Giovanni Rana. Sicura che non vuoi che mangiamo prima a casa?»

«Mmm no. Facciamo tardi. Però me li rifai domani?»

«Vavene.»

Qualche giorno fa ho litigato pesantemente con Paolo, il mio amico e collega. Non riesco più a fidarmi di lui. Questa storia della setta esoterica mi ha fatto cambiare atteggiamento. Comincia a inquietarmi più del normale. Mi ossessiona come un tarlo. Ho tirato fuori l’argomento e Paolo si è stranito. È stato evasivo.

Tempo fa però era stato lui a parlarmi del lavoro. Quando ancora io non ero allarmato, né incuriosito. Era stata una sorpresa.

Stavamo aspettando Sevla a San Paolo. Era prima di Natale perché avevo regalato a Paolo un libro di Wu Ming. E lui si presenta con un pacchetto. Un libro. Grosso. I sette pilastri della saggezza di T.S. Lawrence.

«Questo libro è molto bello, Samuele. Per me è stato importante leggerlo.»

«Grazie Paolo. Sì in effetti me ne hanno parlato bene un sacco di persone.»

«Sai, anche Lawrence faceva il lavoro

«Il “mestiere” intendi? La mignotta? Che cazzo dici Paolo?»

«Idiota. Il lavoro

«Potresti essere meno vago? Stai cercando di parlarmi di qualcosa in particolare? Ha a che fare con quei riti misteriosi che fai tutti i giorni per venti minuti?»

«Sì. Quelli sono degli esercizi che faccio.»

«Tipo meditazione?»

«Non proprio, però per capirsi puoi chiamarli così.»

«E che c’entra Lawrence d’Arabia?»

«Anche lui faceva parte del lavoro.»

«Aridaje co ‘sto lavoro. Ma non sai dire le cose in modo più chiaro?»

«È difficile da spiegare. Non è una cosa che si spiega. È una cosa che si fa.»

«Paolo, ti giuro che non capisco che cazzo dici. Aiutami.»

«Io ho un Maestro. Si chiama A. Lui è quello che mi ha tirato fuori dalla strada dieci anni fa. Ero un mezzo barbone tossico. Ho incontrato lui e mi ha fatto partecipare ad alcune riunioni.»

«E poi?»

«Poi mi ha detto che dovevo smettere di calarmi e di farmi mille canne, dovevo smettere di bere e dovevo trovare un lavoro per pagare la retta mensile del gruppo.»

«Ah, perché c’è una retta mensile…»

«Sì. E tu fai tutto quello che è necessario per poterla pagare. È una grossa spinta a darti da fare. E io ho creato la nostra associazione. Quella dove lavori pure te.»

«Ok. ok. Ma si può sapere che cazzo fate quando vi vedete? Che vi dice questo A.? Che fa? In che consiste essere un Maestro?»

«L’importante è la sua presenza. Non è che FA qualcosa come intendi tu. È una persona molto speciale. Diciamo che quello che fa ha a che fare con quella che tu chiameresti energia…»

«Ossignore iddio…. Paolo ti prego…»

«Non sto scherzando. Sei prevenuto.»

«Ok, scusa. Hai ragione non volevo mancarti di rispetto…»

«Comunque non è che devo spiegarti questa cosa adesso. Ho solo pensato che ti sarebbe piaciuto il libro.»

«Vabbè ho capito, me ne parli un’altra volta…»

Invece la seconda volta è stata l’ultima. Non so perché se la sia presa tanto. Forse non ha gradito il mio scetticismo e le domande polemiche. Forse ho esagerato. Comunque io ho dovuto vomitargli addosso la mia ansia. Ne è seguita una discussione e a ruota una lite.

L’ho mandato affanculo e gli ho detto che me ne andavo da quel posto di matti, che tanto con i soldi che mi danno non mi ci compro manco le sigarette.

Ho perso l’ennesimo lavoro.

Ma ‘sti cazzi, comunque non ci potevo campare.

In compenso io e Ginevra ci siamo visti di nuovo.

Ci siamo baciati.

Io e Ginevra abbiamo dormito insieme sul divano di casa sua e non abbiamo fatto sesso.

L’ho guardata dormire tutta la notte. Il suo viso di bambina.

Ginevra è una di quelle donne che appena sveglia è più bella della sera prima. I suoi occhi verdi tristi e giocosi insieme.

Ora facciamo l’amore.

Ed è meraviglioso.

***

Stasera io e Ginevra andiamo insieme a una festa.

Anzi. Siamo invitati a UNA FESTA. Di quelle vere.

La festa di compleanno di Vincenzo Carloni.

Un quarto piano in Prati, quartiere di studi notarili, avvocati e commercialisti di Roma. Quartiere della Roma bene di sinistra. La casa è grande, luminosa, con un caldo parquet e simpatiche poltroncine rosse. Ci accoglie Vincenzo. Me lo aspettavo più alto. E molto più vecchio. Per essere un potente ex dirigente Rai, ora trasmigrato nella Sambarao produzioni, sembra un bambino. Occhiali tondi, mani piccole, maglione Paul & Shark.

La stretta delle sua mano trasmette mollezza, calore. È morbida. È tiepida. Sicuramente profumata. Vorrei annusare le sue mani per sapere di che sanno. Forse di zagara?

«Piacere. Samuele.»

«Ciao Samuele, sono Vincenzo, accomodatevi, ciao Ginevra. Sono contento che siate venuti.»

«Tanti auguri Vincenzo.»

«Grazie.»

Sul tavolo: Champagne Veuve Cliquot. Jamón iberico. Una selezione di formaggi francesi e pane biologico di un forno della Maremma.

È il suo compleanno. Vincenzo compie gli anni e festeggia con la sua bella moglie, i suoi bambini, che vengono spupazzati dal suo amico d’infanzia, il noto leader del PD Gioacchino Sinibaldi.

Ci sono tutti gli amici della televisione. Presentatrici, produttori, attori, giornalisti, comici. Tutti sono sorridenti. Tutti si rimpinzano.

Io mi aggiro affamato nel salone. Come una fiera cerco di spazzolare più cibo possibile. Mi sento un avvoltoio sulla carcassa di una gazzella, circondato da altri avvoltoi con i quali mi azzuffo per assicurarmi il pezzo migliore.

Per esempio questo formaggio francese è una BOMBA. Ce ne sono due di capra e uno di mucca. I due di capra i migliori.

Mi ingozzo come facevo a sedici anni alle feste. Come continuo a fare anche ora.

Prima cosa quando si arriva a una festa: assicurarsi di arraffare abbastanza cibo da riempire lo stomaco.

Poi stasera tutto ha un sapore migliore: ad ogni boccone ingollo 10 euro di formaggi, 15 euro di prosciutto Pata Negra e 5 euro di champagne Veuve Cliquot.

Che prelibatezze! Nella casa dei ricchi a farla da padrone.

Con la bocca piena ormai quasi soddisfatto mi aggiro interessato per vedere i titoli sulla splendida libreria a muro di legno laccato bianco.

Spicca l’opera completa di Karl Marx.

Da sola.

Senza altri libri intorno.

Un monolito.

A destra tutto il cinema di Kurosawa.

Le maggiori opere della Scuola di Francoforte.

Sartre.

Cambiare il mondo senza prendere il potere.

Gramsci.

Mi ronza in testa una frase di una canzone dei C.S.I. Geniali dilettanti in selvaggia parata. Ragioni personali, è una questione privata.

C’è un gruppetto di autori televisivi, l’angolo dei registi e gli attori sciolti fanno capolino nei vari capannelli.

Atmosfera distesa. Risate genuine. A volte ostentate. Frangette, giacche di velluto a coste, scarpe di Rossella Carrara.

Torno da Ginevra, proprio mentre viene molestata da due sottopanza di Gioacchino Sinibaldi. Uno è alto, moro, coi capelli corti ben tagliati, impeccabile nel suo completo beige di velluto di sinistra ma costoso.

L’altro è tarchiato. Sembra calabrese. Barba lunga e occhiale, stile intellettuale organico anni ’70. Casual ricercato.

Sguardo rapace, sorriso marpione, sfrontato. Due giovani quasi trentenni inseriti nel mondo della politica italiana che lanciano occhiate languide al culo di Ginevra.

Mi va il sangue al cervello. Non è gelosia. Ho voglia di fare a botte con voi, brutti stronzi.

Non è un pezzo di carne. È una donna. La mia.

Ginevra si allontana per parlare con un’amica e partono i commenti dei due squaletti.

«Ammazza che culetto… non glie la daresti una botta alla Mischianti?»

«Cazzo, poi è pure famosa. Proprio una bella fichetta. Non sembra così carina in tivvù.»

Il quarto interlocutore, oltre ai due squaletti e a me, che evidentemente non sanno essere il fidanzato della “fichetta” in questione, è Filippo Rossi, volto televisivo, ironico osservatore della realtà politica italiana.

È diventato famoso per dei suoi pezzi molto divertenti e autoironici in cui riprende se stesso al telefono con Gioacchino Sinibaldi. La base del PD che prende la voce e le sembianze di un giovane quarantenne che si è fatto gli anni ’80, i ’90 e i duemila con il PCI nel cuore e si ritrova oggi a dover patteggiare ogni giorno i valori con gente come Sinibaldi appunto.

Le sue analisi politiche sono brillanti e ha una verve comica naturale. Ci capiamo al volo.

Filippo mi offre un assist: «E tu Samuele, che je faresti a una come Ginevra?»

Lui sa di me e Ginevra.

Vuole che spinga i due sottopanza a esporsi ancora di più per rendere la situazione parossistica e la loro figura di merda ancora più clamorosa.

Io provo a stare al gioco, anche se sento le vene del collo gonfiarsi e un formicolio in aumento nelle mani.

«Beh, non c’è che dire. Se ce l’avessi tra le mani mi divertirei un bel po’.»

Che basso profilo. Che commento moscio. So fare certamente di meglio. Come mai mi è uscita questa battutella loffia? Che mi succede?

Squaletto-alto: «Comunque quelle come Ginevra vanno castigate. No?»

Squaletto-tarchiato: «Eh sì. Ti togli belle soddisfazioni.»

Mi si annebbia la vista. Non ho mai pensato di odiare davvero i commenti machisti. Ne faccio in continuazione, sono un provocatore. Godo nel vedere le reazioni imbarazzate degli altri. Ma qui si tocca lo squallore dei giòvani del PD che manifestano con i commenti su Ginevra la summa della filosofia politica italiana: prepotenza, maschilismo, mancanza di rispetto. E di stile.

Devo menare. Devo menare. Devo menare.

«Pensa che stiamo insieme da otto mesi…» mi accorgo di dire. Ho uno stupido sorrisetto di sfida e il petto in fuori, come un galletto, senza che nemmeno me ne accorga sono diventato un coattello attaccabrighe.

Gelo. Per pochi secondi.

Filippo è palesemente divertito, anche se sperava che io resistessi di più e riuscissi a portare la situazione a un punto di non ritorno, con un effetto comico e di imbarazzo decisamente maggiore. Purtroppo non riesco ad essere all’altezza della mia spalla.

I due squaletti, dopo un primo momento di smarrimento e qualcosa di simile alla vergogna, si riprendono in uno slancio di goliardia, quella che cerca di coinvolgere i maschi presenti.

«Grande. Sei proprio forte che te la scopi! Certo potevi dirlo prima.»

Mantengo il punto.

«Non me la scopo. Stiamo insieme. Credo che se continui così ti devo prendere a capocciate.»

Mi sa che la mia minaccia assolutamente seria viene letta come la simpatica battuta di uno che sta sportivamente al gioco. Si fanno tutti una sonora risata liberatoria.

Io devo menare.

Dalla sala giunge un urlo sguaiato. «…Un attimo di attenzione!! Abbiamo preparato una sorpresa per Vincenzo. Spostatevi tutti in salotto che c’è un dvd da vedere.»

Brusio. La presentatrice della tivvù di sinistra presenta alla festa e tutti sciamano in salotto.

Io resto coi pugni serrati e il sorriso finto scolpito sul viso.

Mi viene in mente Giancarlo.

Tre anni fa ho conosciuto Giancarlo mentre lavoravo ai Ponti della Laurentina.

I Ponti della Laurentina sono famosi a Roma per la cattiva fama che hanno.

I ponti sono inseriti in un ambizioso progetto urbanistico degli anni ’80 di edilizia pubblica. Il Laurentino 38, dell’architetto Pietro Barucci.

I ponti sono passaggi pedonali che attraversano nove volte la strada sottostante che a sua volta attraversa tutto il quartiere della periferia est di Roma.

Queste splendide strutture di cemento hanno al loro interno spazi per negozi e uffici pubblici e privati, “per raggiungere quella qualità e integrazione urbana che è alla base del pensiero urbanistico moderno.”

Giancarlo l’ho conosciuto al settimo ponte. Faceva la guardia giurata nel presidio della ASL in cui lavoravo anche io.

Il mio compito nel presidio era “sistemare l’archivio”.

Per sette ore al giorno la mia attività consisteva nello spostare da uno scaffale all’altro dei faldoni impolverati appartenenti a tre settori diversi del presidio: infortunistico, medicina legale e protesi.

Il mio primo giorno fu un rito di passaggio. Incontrai Tiziana.

«Ciao Samuele, io sono Tiziana, la tua tiutor. Per qualsiasi cosa dovrai fare riferimento a me.»

Tiziana è una donna con cerbiatteschi occhi azzurri. Sui quarantacinque portati bene, o trentotto portati male. Comunque una bella donna. Capelli castani. Addosso collane con pietre dure e vestiti colorati sui toni del turchese e del viola tipo etnico elegante. Decisamente mantenuta.

«Ciao Tiziana. Cosa devo fare esattamente?»

«Guarda, qui noi non siamo dipendenti della ASL. Noi dipendiamo dalla cooperativa Santa Maria. Il tuo lavoro si svolge nell’archivio. Devi sistemare i documenti che ti arrivano via via durante il giorno dai vari presidi. E metterli in ordine nei faldoni. Siccome l’archivio è comune tutti più o meno entrano e escono da qui e ci mettono le mani. Quindi devi stare attento.»

«Ho capito. Attento a cosa?»

«A non farti mischiare tutto dagli altri.»

Il lavoro è un po’ come costruire un castello di sabbia in riva al mare. Ogni onda te lo squaglia e devi ricominciare da capo.

Dopo la prima mezz’ora ho chiaro che quello che sto facendo non è di alcuna utilità.

A fine giornata sto già sul cazzo a tutti i dipendenti perché invece di limitarmi come loro a non fare un cazzo, passo le mie sette ore nell’archivio.

Tiziana l’indomani, dopo la prima ora di lavoro entra nel mio bugigattolo.

«Senti Samuele, l’hai preso il caffè?»

«… Sì, prima di uscire di casa, alle sei e mezza. Perché?»

«Beh, perché non è che proprio ti devi ammazzare di lavoro… magari prima di iniziare vatti a prendere qualcosa al bar, no? Insomma, prenditi delle pause.»

«Ti ringrazio, ma non c’è problema. Non è così massacrante. Poi il caffè normalmente io lo prendo fuori dall’orario di lavoro.»

«Allora… diciamo così. Diciamo che è meglio per tutti se non fai troppo… anche per i colleghi… non è sempre bene fare vedere che si lavora tanto. Magari ecco, non farti vedere dal primario che stai nel corridoio, però insomma, fai con calma.»

«…»

«Comunque io ora sto uscendo. Sai, scrivo tesi di laurea, come secondo lavoro. In teoria dovrei essere reperibile qui, ma tanto non controlla mai nessuno. Gli altri ragazzi comunque sanno sempre dove trovarmi se serve. Ci vediamo più tardi.»

«Ciao Tiziana.»

Gli altri ragazzi sono trenta persone. La metà sono “soci lavoratori” della cooperativa Santa Maria. Quindi hanno, come me, condizioni contrattuali ridicole rispetto ai dipendenti, che per definizione, non fanno un cazzo.

Questa struttura non solo non ha bisogno di trenta persone, che nel migliore dei casi trasporta fogli bianchi da una stanza all’altra, ma funzionerebbe meglio con la metà dei dipendenti.

Giancarlo è fuori e fa la guardia. E fuma. Due pacchetti di MS al giorno.

«Piacere. Sono Samuele.»

«Ciao. Giancarlo. Sei nuovo?»

«Sì. Sono arrivato ieri. Lavoro per la cooperativa Santa Maria.»

«E che fai qua dentro?»

«Metto a posto l’archivio.»

«Ah, allora sei un intellettuale…»

«Beh, non esattamente. Te invece? Da quanto stai qua?»

«Oramai so du anni.»

«E com’è?»

«Che te devo dì. Io qua ai ponti ce so nato. È un posto così. La gente va in giro col pezzo. Almeno qua sto tranquillo. Io ce abito dentro, a uno dei ponti. Occupo una casa da dodici anni. Ma non c’ho l’acqua calda e il cesso è fuori.»

«Figli?»

«Due. E na moje cacacazzi.»

«Cazzo.»

«Guadagno ottocento euri al mese. Ma almeno so sicuri.»

Con Giancarlo mi prendo i sette caffè al giorno e mi fumo le sette sigarette che ogni ora mi concedo per fare contenta Tiziana e i colleghi.

Mi spiega come è stata la sua vita in questo quartiere che avrebbe dovuto essere un’opportunità della periferia per entrare nella modernità e invece è stato l’ennesimo fallimento della politica. Parliamo della Roma. Della fica. E di Berlusconi.

Lavoro lì cinque mesi. Poi me ne vado a gambe levate.

L’ultimo giorno di lavoro con lui mi prende da una parte.

Mi guarda dall’alto del suo metro e sessantacinque. Da dietro gli occhiali da sole. MS in bocca ciancicando una gomma che mastica da ore.

«A’ secco. Me dispiace che te ne vai. Qua non c’è tanta gente con cui parlare. So’ tutti categorie protette…

Comunque te volevo dì che se vede che nun sei cresciuto pe’ strada. Ma me stai simpatico lo stesso. E te vojo regalà un consiglio.»

Attendo la perla.

«Qua per strada te impari subito che certe cose le poi raddrizzà solo usando le mani. O ‘na lama. E lo capisci subito. Nun ce poi parlà co’ certa gente.» Che gente? Ma a chi ti riferisci?

«Nun le poi spiegà certe cose. Non è che devi menà sempre. Te impari pure quando non devi menà. Ma quando devi menà lo sai. E lo devi fa.»

Dopo tre anni so cosa devo fare a questa festa. So cosa sarebbe giusto. Antisociale, illegale, ma giusto.

Invece continuo a bere champagne Veuve Cliquot.

***

La vita insieme a Ginevra scorre lenta. Abitiamo in affitto in un bell’appartamento luminoso vicino Piazza Vescovio, nel quartiere Africano, una zona infestata dai gruppi neofascisti.

All’inizio la convivenza non è stata decisa. Si è presentata così. Io stavo sempre meno a casa mia, vicino al Verano, con la mia coinquilina Antonella.

Con Ginevra mi sentivo in simbiosi.

Io adoravo passare il mio tempo insieme a lei e Ginevra in quel periodo non stava lavorando, il suo cavallo era rotto e lei aveva bisogno di qualcuno che le riempisse le giornate. Io.

Questa “non decisione” ho scoperto in seguito essere uno dei motivi della sua disistima nei miei confronti. Avrebbe voluto che le dicessi: «Amore, ti amo. Andiamo a vivere insieme», invece che fosse un dato di fatto soltanto da notificare.

Non è che Ginevra abbia torto. È che nella mia valutazione questa cosa non giustifica una furia cieca come quella che ha colpito il nostro rapporto mesi dopo. O forse è la conferma del fatto che non sono un uomo. Ancora non ho deciso.

Comunque con lei ho passato dei mesi in cui sono stato sicuro di essere felice. Lo so.

La mia gastrite aveva smesso di abitare con me. Mi aveva abbandonato. Forse era rimasta nella vecchia casa vicino al Verano.

Mi entusiasma una vita borghese di famiglia in cui la mia famiglia è la mia donna e in cui la mia donna è Ginevra. E per lei cucino. Per lei e per i suoi amici che spesso sono a cena a casa nostra.

Ginevra ama molto come faccio saltare le verdure in padella. Credo che senta una sorta di eccitazione sessuale. Non ho mai capito veramente perché, però credo che faccia riferimento alla figura di uomo che ha in mente.

Adoro andare a fare la spesa insieme alla GS. Lo adoro perché Ginevra la prima volta che siamo andati a fare la spesa insieme è rimasta sorpresa dalla cura con cui scelgo le verdure. E la frutta. È andata in estasi. Adora anche il fatto che mi piace scegliere con lei le scarpe di Rossella Carrara. E scelgo sempre le più belle. E le più costose.

Che poi la GS mi fa schifo perché non c’è mai quello che voglio, ma quelle due ore passate a scarrellare insieme a Ginevra nella GS di via dei Prati Fiscali me le riprenderei subito.

Per mesi nel fondo della mia coscienza sapevo che stavo vivendo una vita non mia. Non che non mi piacesse, in parte. È che non era la mia.

È come quando una volta in palestra ho indossato la giacca di pelle nera lunga fino alle caviglie di un amico metallaro. Non è che non mi stesse bene addosso. Me la sentivo comoda. Ero un figo, solo che non è il mio genere. Io sono più da giacca di velluto a coste… anzi più da pantaloni e maglietta con un disegno sopra. Ecco.

Credo che questo lo abbia capito anche Ginevra. Anzi, credo che per lei sia stato una discriminante importante per il futuro della nostra relazione.

***

Oggi è un giorno speciale. Ho telefonato al mio amico Massimiliano. Lui è un cantautore. È una forza della natura. Un poeta. E oggi esce il suo primo disco.

È il NOSTRO cantante di riferimento. Le sue canzoni hanno segnato un anno di rapporto con Ginevra. Massimiliano è un collante per noi. La sua musica è uno degli ultimi fili che ci unisce.

Ho organizzato il gruppo di amici su facebook per andarci tutti insieme. Le cose con Ginevra non vanno tanto bene. Vanno male. Da stamattina ho capito che non ci sarà il lieto fine agli allontanamenti e riavvicinamenti.

Ma io sono come i latinoamericani. Come i messicani. Gli eroi messicani non sono dei vincenti. Sono dei grandi perdenti. Sanno perdere con uno stile inarrivabile. E la sconfitta è quasi più piacevole della vittoria.

E io voglio un canto del cigno degno di un eroe latinoamericano! Degno di Emiliano Zapata!

Chiamo Massimiliano.

«Massi, ciao.»

«Ciao Secco, come va?»

«Bene. Te? Sei agitato?»

«Un po’, ma sto bevendo. Voglio essere ubriaco stasera.»

«Daje! Senti. Ti devo chiedere una cosa. Ti dico subito che mi puoi pure dire di no.»

«Spara.»

«Stasera. Al concerto. Le cose con Ginevra stanno andando male. Volevo fare un’uscita di scena un po’ teatrale… non è che dedicheresti una canzone a lei? Non serve che dici a Ginevra. Basta che dici ‘a Quella signora’ e lei capisce.»

«Guarda devi sta tranquillo. Su che canzone la vòi?»

«Dove ti pare. Pure in un bis. Sono patetico vero?»

«Sei un innamorato. Stai sereno. Ce penso io.»

Teatro pieno. Quartiere Garbatella di Roma. Il concerto di Massimiliano è una festa. Cori da stadio tra il pubblico. È bravissimo e il suo primo disco prende il cuore di tutti quelli che lo ascoltano. È un grande. Ha la stoffa per sfondare.

Io ho la gastrite. Ginevra è seduta poche file dietro a me. Io sui gradini per godermi meglio il concerto.

Massimiliano è il “nostro” musicista. La mia storia con Ginevra è stata scandita dai concerti di Massimiliano in tutti i locali di Roma, fino in televisione.

Le sue canzoni sono le “nostre” canzoni. Le cantiamo sempre insieme. Ed è l’unico momento di vera unione.

Il concerto finisce. Massimiliano esce di scena. Applausi. Rientra. Bis. Prende in mano la chitarra. Si siede. Parla al microfono.

«Grazie a tutti. (Applausi). Mi chiedo il perché di tanto affetto. Mi hanno chiesto di dedicare una canzone a una persona… che… insomma lei lo sa. È Quella Signora…»

La gastrite si espande, come l’universo. So che non è servito a niente. Ma è stata una delle cose più belle e coatte che ho mai fatto per una donna. Sono un grande! Sono un poraccio. Sono un tamarro. Questa pietra miliare rimarrà per sempre. O giù di lì…

Grazie Massi.

Le conseguenze delle proprie azioni. II.

Svegliarsi da solo in una stanza vuota. Legato.

Svegliarsi con i postumi di una sbornia senza aver bevuto un goccio.

Svegliarsi col sapore di sangue e succhi gastrici in bocca.

Svegliarsi di sete.

Svegliarsi dopo aver bevuto un bicchiere di sabbia.

Mi avete menato. bastardi.

Mi avete gonfiato di botte. Merde.

Mi avete fatto svenire. Rotti in culo.

Bravi. Tre contro uno so’ capaci tutti.

La stanza è vuota. Mi hanno lasciato da solo. Finalmente.

Mi sono pisciato addosso prima di addormentarmi. Prima di svenire. Ho le braghe bagnate.

Mi avete fatto pisciare addosso.

Mi viene da piangere brutti stronzi fascisti.

Fascisti. Che cazzo vuol dire qui?

Mi avete fatto morire di paura, pezzi di merda mangiatacos del cazzo!

Mi avete lasciato qua. Senza dire un cazzo. Senza parlare. Dopo avermi pestato.

La finestra dà su una strada deserta. Che cazzo di ore sono?

Voglio un po’ d’acqua. Non come prima però. Da bere. Ho sete.

Basta co ‘ste cazzate da dittatura latinoamericana! Perché sentite la necessità di confermare ogni cazzo di cliché possibile? Non è squallido?

Ho sete.

http://www.carmillaonline.com/archives/2010/12/003728.html#003728

Radical Shock. Una storia sinistra. Capitolo due. La vera via

Capitolo Due. La vera via

Ricercatori e detective, preferite alla quiete delle abitudini tranquille il bisogno di percorrere sentieri inesplorati, e rivelare ciò che si nasconde dietro il sorriso dell’ufficialità. Ma l’amore vorrebbe scavalcare quel “quid” irritante e trovare pace. DETECTIVE.

Ho conosciuto Ginevra Mischianti a una festa a San Paolo. Mi ha anche riaccompagnato a casa. Io nel tragitto: muto. Ho il suo numero. Aspetto. Non è il caso di bruciare le tappe. Non è il caso di mettere troppa carne al fuoco.
Continuo a vedere Veronica. Anche Veronica fa l’attrice. Fa molte cose in realtà, una delle quali è l’attrice. È decisamente bella. La nostra prima conversazione riguarda la masturbazione femminile. Lo spirito goliardico di Veronica lascia storditi.

È in grado di dire bestialità che non stupirebbero se uscissero dalla bocca di uno scaricatore di porto (ma poi chi ha mai sentito parlare uno scaricatore di porto? Sono davvero così volgari?), mantenendo però una grazia e un fascino magici. Chi la ascolta si accorge di sentire porcate e bestemmie, ma il suo sorriso è così luminoso e la sua femminilità è così dirompente che sembra tutto appropriato.
Ci frequentiamo da alcuni mesi. In segreto. Non capisco veramente come mai questo rapporto sia nato così. Abbiamo fatto sesso una sera a casa mia.
In quel periodo ero fidanzato con Lauréda, una ragazza francese che amavo moltissimo e che stava lavorando alacremente e con estrema professionalità per fare a pezzi la mia autostima e la mia vita. Senza saperlo. Di lì a poco avrebbe portato a termine il suo compito con discreto successo. Bisogna dire che certe persone quando ci si mettono raggiungono risultati davvero notevoli. Tutto questo senza che io abbia mai smesso di amarla nemmeno per un minuto.
Perché Lauréda era troppo. Era LA libertà. Era la rappresentazione dell’essere vagabondo per non poter essere nient’altro. L’animale selvaggio.
Guardare negli occhi la definizione che sul vocabolario c’è di “bellezza”, “libertà” e “femminilità” è una cosa che un cuore umano non può sopportare. La donna che ho amato di più in vita mia.

E dunque invito Veronica a vedere un film da me perché sono due settimane che ci sentiamo. Ci sentiamo perché lei sa ascoltare. Perché è buddista e ha la propensione ad aiutare il prossimo in difficoltà. Non me lo ha proprio detto lei, ma l’ho intuito.
Siccome è un’amica di mia sorella, e mia sorella conosce la mia fidanzata, e siccome Veronica è una donna di quelle che dici, ammazza questa chissà chi devi essere per andarci a letto, la nostra “amicizia speciale” rimane nascosta, anche perché non sarebbe molto credibile.
Il film è “Sei gradi di separazione” e Veronica ci tiene proprio tanto a farmelo vedere.
Siamo nel mio divano letto ed è la prima volta che tradisco la mia ragazza.
È la prima volta che tradisco una ragazza in assoluto. Mi giustifico col fatto che mi sta facendo troppo male e ho bisogno di affetto da una donna. So che non vuol dire niente, ma forse è chiedere troppo dover ammettere che sono un fedifrago. Che poi non è che fossi sposato. E comunque poi l’amore impossibile della mia vita mi avrebbe disintegrato per cui ci sta che uno faccia qualcosa, no? E poi non capisco perché mi devo giustificare.
Io e Veronica sul divano letto ci baciamo.
Io e Veronica sul divano letto iniziamo una storia clandestina.

La settimana dopo mi invita a casa sua a bere un tè. Le donne, i buddisti, gli omosessuali e alcuni altri strani esseri ti invitano sempre più spesso a bere tè, invece del caffè.
La sua stanza è piena di incensi, fiori e c’è un grande altare in legno. Ai due lati due diplomi che attestano il passaggio al livello 3 e 4 delle tecniche IRECA. Una roba tipo cura con l’imposizione delle mani.
Cazzo pure il diploma ti danno? Io pensavo che fosse più una cosa come trasmissione orale, informale, con un maestro barbuto come quello di Kill Bill, che ti fa fare un’esperienza mistica e ti insegna a fare le magie. No con un diploma con tanto di timbri e simboli strani. Questo simbolo pare quello della Dharma Initiative, della mia serie preferita, Lost.
Veronica oltre a essere buddista cura la gente coi fiori di Bach. La cosa mi fa ridere ma mi mette anche un po’ a disagio. L’idea che dopo una diagnosi operata con un pendolino metallico vengano scelti degli estratti di fiori che vanno collocati in parti diverse del corpo o ingeriti per guarire malanni di ogni natura non riesce a non strapparmi sorrisi sardonici ogni volta. Va detto per completezza dell’informazione che per i miei mal di testa cronici gli unguenti alla lavanda di Veronica ottengono sempre un risultato incredibile. Il mal di testa mi passa come per magia. O forse è la suggestione. O il fatto che subito dopo facciamo sempre sesso. Non ho ancora chiaro come funzioni ma mi piace credere che l’olio alla lavanda abbia veramente effetti rigeneranti sul mio mal di testa.
Dopo esserci rotolati nel letto per qualche ora Veronica si alza e va a farsi la doccia. E come ogni volta aspetto di sentire lo scroscio dell’acqua e mi metto a curiosare fra i suoi libri.
Mi è sempre piaciuto ficcare il naso nelle letture delle persone. Si capisce molto guardando come la gente tiene i libri. L’ordine delle librerie, la selezione dei titoli, gli autori, l’esposizione.
Comunque qui c’è tanta filosofia, Wittgenstein su tutti, Platone, le commedie di Aristofane e poi i padri del buddismo di Soka Gakkai e libri new age.
“La Vera Via” di un autore con un nome strano, Gilberto Sagramolo, colpisce la mia attenzione.
Quello che in realtà mi colpisce sono due cose.
La prima è un simbolo geometrico uguale a quello della Dharma Initiative di Lost, proprio come sui diplomi appesi al muro. Mi viene in mente che l’ho già visto. Cioè a parte su questo libro e sui cazzo di diplomi. Non riesco a ricordarmi dove ma l’ho visto. Ne sono sicuro.
L’altro elemento è la copertina. È di forte impatto per la sua bruttezza oggettiva, però ha qualcosa che contemporaneamente attrae e inquieta.
C’è un grosso cerchio bianco che via via si fa giallo, con un bordo rosso. È un enorme sole al tramonto in mezzo a un cielo blu/viola. Al centro si stagliano nella palla infuocata tre piccole figure. Tre ombre. Una centrale che a giudicare dal cappello sembra un anziano.
Ai lati un “giovane” e un cane.
Percorrono una strada che si dirige verso il sole.
È inquietante perché trasmette subito quel misticismo di plastica che è tipico delle pubblicazioni di molti cialtroni che si spacciano per maestri di vita. Unitamente alla bruttezza del disegno (poiché di disegno trattasi. Credo pastello o qualcosa del genere) mi dà una sensazione molto sgradevole che non riesco a togliermi di dosso, come quella che lascia l’hamburger di McDonalds dopo che l’hai mangiato.
Nemmeno quando Veronica torna dal bagno completamente nuda e comincia a strusciarsi su di me riesco a togliermi il fastidio di dosso.
«Che hai? Sei strano.»
«Niente, perché?»
«Guarda che puoi anche evitare di dirmi ‘niente’. Preferisco che mi dica non ho voglia di dirtelo. Si sente nell’aria che hai qualcosa che non va.»
«Ah, già e poi tu sei pure una sensitiva o roba del genere, no?»
«Idiota!» e scoppia a ridere.
Rido anche io e mi sciolgo un po’.
«Senti Veronica, posso farti una domanda? Che ci trovi in libri come questo qua?» dico indicando il tomo con la copertina più bella della storia.
«Bah, veramente ancora non l’ho letto.»
«Mmm. Ha qualcosa a che vedere coi tuoi diplomi di guaritrice, maga e strega? Quelli là appesi al muro vicino alla tomba di Buddha.»
«Non è una tomba, ma un altare, e non sono diplomi di strega, cretino» è bello perché le dico delle cose offensive e gratuite e lei mi sorride sempre quando risponde. Non si incazza mai. Sarà questa la serenità buddica? Si dice buddica?
«Il libro me lo hanno dato quando ho fatto i corsi IRECA.» finisce di spiegare.
«Quelli dove ti insegnano a guarire con la sola imposizione delle mani?»
«Non è proprio con la sola imposizione delle mani. Si utilizza e si veicola l’energia del cosmo.»
«Ah ecco, certo… Come dici tu… comunque a me questo libro mi inquieta. Hai visto che brutta la copertina?»
«Beh, è uno stile…»
«Sì. Uno stile demmerda!»
«Sei un signore.»
«Ha parlato bocca di rosa…»
Ormai troppo sciolto non controllo le mie mani e me le ritrovo inspiegabilmente incastonate tra le cosce di Veronica.
È che nel suo letto mi sento comodo. In una cuccia. Ricominciamo a fare l’amore come due bestioline.
Mi sveglio di soprassalto dopo avere sognato di essere inseguito dal fumo nero di Lost, che voleva punirmi per avere pomiciato con Kate. Ci ho solo pomiciato, Cristo!!
Ho sete. Mi alzo e vado a bere in cucina. Ripasso davanti alla tomba di Buddha.
Alzo gli occhi e l’informazione mi colpisce come una lama in mezzo alla fronte. È così che arrivano i ricordi. Una botta secca in mezzo alla testa quando meno te lo aspetti.
Stai là a farti venire la gastrite per ore per cercare di ricordarti come si chiamava l’attore che ha fatto il “mastro di chiavi” in Ghostbusters (informazione di per sé inutile, ma che acquista l’importanza del terzo segreto di Fatima se uno non se la ricorda a una cena) e poi mentre stai tagliando le cipolle il giorno dopo ti viene in mente che quell’idiota altri non è se non… oddio non mi ricordo.
Comunque passo davanti alla tomba di Buddha e mi ricordo di quel simbolo. L’ho visto per mesi senza accorgermene a casa di Paolo, un capo/collega di lavoro nell’associazione che si occupa di rifiuti.
Era sull’agenda di Paolo, su alcune magliette, su un calendario con le foto di un vecchio (al posto delle foto di una velina).
E sempre quel simbolo simil/Dharma Initiative.
Cosa c’entra con Veronica? Quello di Paolo è una specie di setta esoterica, se non ricordo male.
Ogni giorno il mio amico si spara venti minuti di esercizi supersegreti di respirazione. Più volte sono stato cacciato fuori dalla stanza perché lui doveva fare i suoi esercizi segreti.
Nel corso degli anni per curiosità sono riuscito a scoprire che Paolo fa parte di un’associazione, cioè di una setta, che si chiama Percorso per un’Esistenza Migliore, dove c’è un maestro che trasmette l’energia del cosmo…. L’energia del cosmo!
Le cazzate da guaritrice di Veronica.
Mi sento girare la testa.
Non ho mai avuto un’avversione particolare per le religioni new age, però ultimamente mi sento circondato.
Guadagno la cucina barcollando, mi attacco al rubinetto e mi riempio di acqua fresca. Torno a letto un po’ disturbato da quello che ho appena scoperto. Mi ritorna su la sensazione McDonalds.
Cerco con la faccia il collo di Veronica. Lei si gira, mi accarezza sorridendo.
Devo aspettare un’ora prima di riaddormentarmi, per venire raggiunto da Kate, con cui ricomincio a pomiciare, all’insaputa di tutti i passeggeri del volo Oceanic 815.

Durante la riunione a casa di Paolo non riesco a seguire la conversazione. Un po’ perché sono le otto di mattina e per arrivare qui sono in piedi da due ore. A parte questo non riesco più a togliermi dalla testa il tarlo che mi rode dentro. Cosa fanno in quest’organizzazione? Perché uno come Paolo, intelligente, un politico navigato, realista, radicale, si tiene in casa foto del maestro? Vedo i simboli dell’organizzazione in ogni parte della casa, anche dove non ci sono.
Sento che c’è qualcosa che non va nell’ingranaggio. Non gira più come dovrebbe. C’è un pezzo che sta dove non dovrebbe e tutto sembra storto.
«…Quindi dobbiamo capire come vuole muoversi il Comune sulla questione rom. E fare pressione. E di questo ti devi occupare tu. A che punto siamo? Samuele? Mi ascolti?»
«Come?»
«Dai, ripigliati che qua siamo nei casini. Dobbiamo darci una svegliata, se no qua ci si mangiano».
«Scusa Paolo, mi sa che ho bisogno di un caffè. Stanotte ho fatto le ore piccole».
E in parte è vero. Ho passato la notte da Veronica e non ho dormito molto. Ma piuttosto è tutta questa serie di coincidenze riguardanti la setta che non mi fanno concentrare.
Mi alzo e vado in cucina. Mi verso una tazza di caffè tiepido avanzato e ci metto due bei cucchiaini di zucchero. Già è tanto amara la vita….
Passando per il corridoio sbircio dentro la stanza di Paolo.
Il solito casino.
Per terra montagne di vestiti, cd, il materasso su cui dorme. Sul piccolo comodino una sveglia, la foto del Maestro in una cornice di silver plate, e il libro di Gilberto Sagramolo in tutta la sua bruttezza.
In realtà Paolo mi ha parlato, a volte, della sua organizzazione, anche se, essendo esoterica, teoricamente dovrebbe essere super segreta.
Ha provato a convincermi che avrei dovuto andare a qualcuna delle loro riunioni. Così, per vedere com’era.
Sono anni che lo conosco e so che è una persona seria. Non è uno sprovveduto e mi ha dimostrato di avere grandi doti in molti campi. E allora perché mai dovrei preoccuparmi di una cosa così?
Se sta bene lui, chi sono io per dirgli cosa deve fare? Del resto ognuno deve essere libero di trovare il proprio equilibrio dove e come crede.
Se vuole credere allo yeti per sentirsi meglio perché rompergli i coglioni?
Non mi sono convinto al 100% di queste mie argomentazioni ma mi sento sollevato. Torno in salone per cercare di lavorare.
«Senti Samuele, guarda che faccia che c’hai. Così combinato non servi a niente. Fai ‘na cosa. Vattene a casa e ci vediamo direttamente domani a casa di Sevla.»
Domani siamo invitati a pranzo da una famiglia rom di San Paolo per festeggiare Djurdjevdan, la festività più importante dei rom.
«Ricordati la macchina fotografica e cerca di ripigliarti.»

***

Il 6 maggio (nel calendario Gregoriano) si festeggia San Giorgio, uno dei santi più importanti della tradizione religiosa cristiano ortodossa.
La festa, probabilmente con radici pre-cristiane, è originaria della Serbia, ma si è diffusa in tutti i territori della ex Iugoslavia. Djurdjevdan, questo il nome slavo della festa, è anche la ricorrenza più importante nel calendario rom.
È l’arrivo della primavera, festeggiato dai rom di tutto il mondo a prescindere dalla loro appartenenza religiosa. Musulmani, cattolici e ortodossi il 6 maggio di ogni anno uccidono una pecora, addobbano di fiori le case, i muri, i giardini e festeggiano il santo che ha sconfitto il drago.
Io e Paolo siamo invitati a una festa a San Paolo. A casa di Sevla e Vesjil, una coppia di rom con cui lavoriamo.
Le feste rom con le danze, i vestiti sgargianti e la musica balcanica è una cosa a cui ci hanno abituato i film di Kusturica e direi che non si vedono nei campi nomadi delle periferie romane.
Piuttosto sono feste del sottoproletariato urbano.
I figli di Sevla sono vestiti da rapper. La musica a palla sparata dalle casse si una Opel Corsa bianca con sportelli e portabagagli aperti, è reggaeton, hip hop e musica balcanica, senza sosta.
Siamo nella cultura del ghetto. E a Roma i ragazzi rom hanno interiorizzato questa cultura, che è quella che li rappresenta meglio.

L’evento centrale della giornata è la macellazione della pecora.
Vesijl, sgozza la pecora. Lo zampillo di sangue è potente. Sevla, la moglie di Vesjil, si avvicina al marito. Lui ficca l’indice nella gola della pecora e col dito insanguinato disegna un segno sulla fronte della donna. È un gesto antico, simbolico, purificatore.
Nella mia testa risento le nenie dell’infanzia in chiesa “Agnello di dio che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi”.
Però qui sembra quasi un terzo occhio hindu. I rom in fondo hanno radici indoeuropee. Sevla, con la goccia di sangue sulla fronte, torna a preparare da mangiare.
«Per noi rom il sangue è sacro così come le donne e l’oro, e ammazzare la pecora, non solo a Djurdjevdan, ma in tutte le feste importanti, è un evento emozionante. Lo sentiamo molto.»
L’animale ci mette un paio di minuti a morire. In silenzio. Vesjil appende la pecora a un gancio, la scuoia, la scanna. Tutti i ragazzi partecipano al rito. Romano, il più piccolo dei figli di Sevla, si fa fare delle foto mentre gioca con le interiora dell’ovino appeso a un gancio sul soffitto della tettoia.
Quando la pecora è pronta viene impalata per essere cotta alla brace. Intanto Sevla offre la pita a noi “gagi” per smorzare la fame, in attesa del piatto forte.
La giornata è assolata, la musica balcanica che esce dalla macchina lascia il posto a Snoop Dog, su cui i ragazzi si esibiscono in coreografie provate e riprovate.
La tradizione rom, pluricentenaria, mischiata alle nuove tradizioni dei ghetti.
L’immagine: sullo sfondo una pecora alla brace per onorare San Giorgio. In primo piano teenager vestiti di bianco, occhiali a specchio, bandane e cappelletti da baseball di traverso che ballano Eminem. Cazzo. Sono bravi.

Finito il pranzo vengo fatto schiavo. Devo per forza fare un servizio fotografico. Se no non me ne posso andare. I figli di Sevla e gli amici sopraggiunti si “sparano le pose” da rapper lungo il muro.
Vogliono sembrare dei duri, affascinanti e irresistibili. Orecchini di brillanti. Capezze al collo. Facce da zingari.
«Poi ce devi fa er cd, che lo famo vedè alle pischelle!» mi grida Mirco.
«Non sembri abbastanza cattivo. Concentrati, dai. Così sembri napoletano!» rispondo.
«Oh, piano con le parole. Io sarò zingaro, ma napoletano je lo dici a tu fratello!»

Per un po’ mi dimentico le mie perplessità su Paolo, poi lo vedo allontanarsi per fare i suoi esercizi respiratori. Provo a seguirlo. Proprio mentre faccio il primo pass mi chiama Ginevra, l’attrice della festa in terrazza. Quella che ho sempre amato da telespettatore.
Dice che vuole uscire con me. Con ME!
Mi sento le ginocchia molle molle. Non capisco più un cazzo. Farfuglio un appuntamento per il giorno dopo.
Il giorno in cui comincia la nostra storia insieme.

Le conseguenze delle proprie azioni. I.

La gola mi brucia. Non brucia, è in fiamme.
Ho una pezzetta per i piatti asciutta al posto della lingua.
Non è tanto per le mani legate dietro la schiena.
Non è tanto per il fatto di essere legato mani e piedi a una sedia.
Non è tanto per il sangue rappreso sulla faccia o per il mal di testa.
È che ho una sete fottuta. Se chiudo gli occhi vedo un ruscello. Se li apro la finestrella è sempre lì.
Solo che ora è più buio.
Da quanto tempo sto qui dentro? Saranno passate quindici ore? Venti? Da quanto se ne sono andati quei figli di una gran puttana? Quanto cazzo ho dormito? Un po’ ho dormito. Più che dormito ho fatto compagnia ai draghi che sognavo.
Ora quello che sento non è proprio paura.
Sono più spossato che spaventato.
Ventiquattro ore fa ero allegro.
Ventiquattro ore fa ci stavo provando con la commessa della libreria. Mi pareva che mi stesse andando bene.
Ma forse no. Altrimenti ora non sarei qui legato mani e piedi a bestemmiare da solo in un cazzo di stanzino. Dove sono andati tutti?
Ho sete.
Cazzo.
Ho sete.
E questa puzza di piscio mi fa vomitare. Mi ha sempre fatto schifo. E meno male che è piscio mio, altrimenti sarebbe ancora peggio.
Pisciarsi addosso in fondo non è male. Al mare mi piscio sempre addosso quando faccio il bagno.
Credo che mi piacerebbe pisciarmi addosso più spesso, ma purtroppo non è possibile a causa di alcune regole di convivenza civile.
Però poi mi dà fastidio la puzza di piscio.
Del resto non si può avere tutto.
Mi sembra di aver bevuto un bicchiere di sabbia.
Datemi da bere, Cristo!

http://www.carmillaonline.com/archives/2010/12/003716.html#003716

arrestato in Chiapas, Messico, il giornalista italiano Gianni Proiettis. LIBERATO.

Città del Messico, 16 dicembre 2010. Il giornalista e professore universitario italiano Gianni Proiettis, collaboratore de Il Manifesto e Liberation e residente da 17 anni a San Cristobal de las Casas (Chiapas), è stato incarcerato e sarebbe sotto minaccia d’espulsione dal Messico per aver partecipato alla COP16, la Conferenza delle Nazioni Unite sul cambio climatico da poco conclusasi a Cancun. La notizia del suo arresto, riportata da NarcoNews e da fonti locali, è arrivata questo pomeriggio.

Il giornalista è stato arrestato alle ore 13 a pochi metri dalla sua abitazione da tre uomini in divisa della polizia statale del Chiapas ed è stato immediatamente deportato a Tuxla Gutierrez, il capoluogo. Sarebbe ora in attesa di nuovi capi d’imputazione dopo che, in un primo momento, gli sarebbe stata paventata l’applicazione dell’articolo 33 costituzionale per il suo impegno a Cancun che era, però, di tipo professionale come inviato per media italiani.

La possibilità d’espulsione per direttissima esiste in Messico in base all’articolo 33 della Costituzione e funziona come una decisione esecutiva e inappellabile che procede ad espellere qualunque straniero ritenuto persona indesiderata: è un articolo che si presta evidentemente a un uso altamente discrezionale e motivato prevalentemente da ragioni politiche.

Gianni Proiettis si  dedica da anni a un progetto di eco-turismo nella cittadina di Venustiano Carranza, in Chiapas, dove esistono gravi conflitti tra il governo regionale, attualmente retto da Jaime Sabines del PRD (Partido Revolucion Democratica) e la popolazione locale. Inoltre Proiettis è autore di vari reportage di denuncia sull’operato delle imprese multinazionali del settore minerario in Chiapas: in particolare, un’intervista del 23 gennaio 2010 con il padre del leader sindacale Mariano Abarca, assassinato nel novembre 2009, risultò particolarmente sgradita alla compagnia mineraria canadese Blackfire Exploration Ltd e ai funzionari statali che ne defendono gli affari.

Dato che i poliziotti che hanno trattenuto Proiettis erano del Chiapas e non federali e, inoltre, i giornalisti presenti alla COP16 di Cancun erano centinaia, sia messicani che stranieri, sembra improbabile che il vero motivo dell’incarceramento sia quello presentato inizialmente. Gli attacchi alla libertà di stampa e ai giornalisti in Messico, soprattutto nei territori “in tensione” come il Chiapas, Oaxaca e la frontiera con gli Usa, sono il pane quotidiano e quindi potremmo trovarci di fronte a un altro caso di violazione delle garanzie individuali ai danni di Gianni Proiettis. Questo blog e Lamericalatina sono in attesa di nuove notizie da San Cristobal per avere il quadro completo della situazione.

diario da Port-au-Prince. forse comuni

E insomma prosegue la vacanza nella perla dei caraibi. Questa magnifica meta turistica che è Haiti. Non si sa più cosa inventarsi per attrarre vacanzieri e quindi hanno puntato sull’esotico necrofilo. Se non eravate soddisfatti dell’ondata di colera ci si può sbizzarrire con le visite guidate nelle fosse comuni, amene spianate in mezzo alle floride campagne haitiane, cosparse di bucolici contadini che usano l’aratro (senza buoi perché quelli costano) per coltivare quattro patate dolci e du pommidoro.

Inoltrandosi nelle soleggiate campagne haitiane, si viene raggiunti da repentine folate di morte, indizio che nei dintorni si apre una fantastica fossa comune, che oltre a ospitare vecchi cadaveri del terremoto oggi trabocca di cadaveri freschi senza nome, ammucchiati in discesa a difesa della loro celebrazione, verrebbe da dire, se non fosse più appropriato riferirsi con questa frase a carogne italiane che risiedono nel parlamento.

Dunque con la motoretta cinese si va a fare una scampagnata per vedere un po’ di bellezza naturale, visto che in città le strade sono nere di polvere, di cenere di copertoni bruciati negli scontri dei giorni scorsi. Nelle strade di Port-au-Prince ci sono state barricate, fumogeni, bastonate, incendi. Come a Roma, solo che questi c’hanno pure il colera, e con la differenza che se si ribellano e fanno le barricate l’opinione pubblica internazionale dice, beh, insomma, sono violenti però hanno ragione sono esasperati ti credo che si ribellano con lo schifo che fa la politica haitiana, con le porcherie che sono costretti a vivere sulla loro pelle, sulla loro carne martoriata.

Invece se lo fai a Roma, a Atene, a Londra, sei un facinoroso, antidemocratico, perché come dice robbertosaviano, la violenza è robba vecchia, sei out, sei un looser, sei un antico, stai delegittimandoti da solo, stai PASSANDODALLAPARTEDELTORTO. Stai passando dalla parte del torto. Questa frase si merita e si è sempre meritata un gigantesco vaffanculo. Che la dica robbertosaviano o Gianni Alemanno (che è vero, era diverso lui, perché invece di metterci la faccia andava a menare come un infame, come tutti i fascisti della sua specie) non fa molta differenza. Rimane una colossale stronzata.

Haiti è piena di black block. Forse perché sono negri e fanno le barricate.

Dunque Port-au-Prince si trasforma in un campo di battaglia, dove a gente esasperata e frustrata si riconosce il diritto di incazzarsi di fronte all’ennesima ingiustizia che subisce. E quindi uno decide di trasferirsi ad Haiti, perché, sí, ci sarà pure il colera, le strade sono una schifezza, le fogne sono a cielo aperto, c’è stato il terremoto, è pieno di negri incazzati, ma almeno non ti dicono che sei uno stronzo se rendi manifesta la tua rabbia.

Però oggi eravamo in moto, a fare scampagnate sull’isola tropicale. Che poi ti scordi facilmente che stai su un’isola. Ti scordi che c’è il mare. Come se il mare fosse troppo bello per andare d’accordo con lo schifo che dilaga ad Haiti.

Vedendo il cranio di uno sconosciuto esposto alle mosche, alle intemperie, sgusciando fuori da un sacco di plastica dove era stato avvolto per essere buttato insieme agli altri cadaveri nella fossa comune, mi viene in mente una cosa un po’ banale. In questi momenti non pensi a cose intelligenti. Pensi a cose banali.

Io penso che è disdicevole farsi vedere in questo stato. Anche se sei morto bisogna mantenere un certo contegno. Bisogna subire con dignità. Farsi gettare merda addosso va bene, anche per tutta la vita, ma non è accettabile una reazione scomposta.

“Silenzio! e arrispettate il presidente!”

diario da Port-au-Prince. internazionalismo, rivo-lu-zio-ne

Dopo una settimana a Port-au-Prince ho visto e sentito tante cose. Non me la sento ancora di buttare giù un buon diario, ma intanto voglio fissare alcune osservazioni.

Vorrei anticipare che oggi ho capito finalmente il significato profondo della parola internazionalismo. Oggi ho visto coi miei occhi cosa fanno i medici e gli operatori sanitari della Brigata medica internazionalista di Cuba.

E stride nella mia mente l’immediata comparazione che sorge naturale come un vibrione nell’acqua infetta. Comparo i medici cubani, che in mille stanno in questo paese devastato a soccorrere gli haitiani da un po’ tutte le sciagure che uno si possa immaginare, proveniendo da Cuba, che forse non tutti sanno che è un paese che non è nel G8, e che come affermano certi spagnoli è in crisi nera. I miei vicini di casa a Port-au-Prince invece lavorano in una sconosciuta ong tedesco canadese, che spende circa 10-15mila dollari al mese per mantenere un solo “cooperante” in una villa con piscina, giardino grande come un campo di calcio, guardie private, una schiera di cuoche, servi, maggiordomi, autisti, tricchettracche e bombe a mano. Loro aiutano i ciechi e gli handicappati.

Aiutano i ciechi loro. E vivono da nuovi coloni in un paese ridotto alla miseria più nera. E loro sono cooperanti. E si lamentano. E passano il tempo a spettegolare sulle altre ONG. Del resto è quello che fanno anche i cooperanti italiani, che devono spendere milioni di euro consegnati loro da milioni di italiani preoccupati per “i poveri negri colpiti dal terremoto” e in molti casi si trovano impreparati e pressoché inutili sul territorio haitiano. I soldi degli italiani, per come la vedo io, era meglio se se li mettevano al pizzo per comprare il panettone a natale.

Invece i cubani sono una macchina da guerra. Che con i soldi di questi stronzi tedesco canadesi ci manderebbero avanti un ospedale da campo in mezzo al campo. Ah, perché i cubani sono i soli, insieme agli altri “animali” di Medici Senza Frontiere, che raggiungono gli angoli più infognati e dimenticati da dio di questo paese coleroso e dimenticato da dio (chissà poi perché questo dio di Abramo ha deciso in maniera così arbitraria di accanirsi proprio su questo popolo e su questa terra non me lo so spiegare. io. non me lo so spiegare…).

Col loro zainetto, borraccia, sacco a pelo, tenda, sali e tabacchi i cubani sono pressoché inarrestabili, forti di una motivazione umanitaria e umanista che non ha pari.

Vengono educati a essere dei missionari laici dell’internazionalismo militante. E non è un modo di dire retorico. È esattamente quello che fanno. They mean it!! E bisogna vederli per capire come è commovente quello che fanno. E la cooperazione come business diventa una parodia. diventa una roba da fricchettoni o fighetti. Questi sono qui perché stanno costruendo il mondo migliore. Passano anni qua, senza tornare a casa, e senza avere un dio che li salva. È l’umanismo, il realismo, la passione politica. E ti fa commuovere davvero, circondati da cinismo e sufficienza.

Ecco. Volevo spendere due parole per Cuba e la sua idea umana e reale di rivoluzione. E so che molti storceranno il naso. Ma in finale sticazzi. Questo è il mio blog, e faccio come cazzo me pare.

¡Que viva la revolución!

Radical Shock. Una storia sinistra. [su Carmillaonline.com]

Alla Causa! (e all’Effetto)
Alle donne della mia vita

Commensalismo
Relazione simbiotica tra due specie in cui una delle due risulta beneficiata, senza danneggiare né beneficiare l’altra.
Mutualità
Relazione simbiotica tra due specie nella quale entrambe vengono beneficiate.
Parassitismo
Relazione simbiotica tra due specie in cui una risulta beneficiata e l’altra danneggiata.
Simbiosi
Rapporto di associazione permanente tra due organismi di specie diverse, in cui almeno uno dei due ottiene un beneficio (mutualità), un danno (parassitismo) o rimane indifferente (commensalismo).
(Enciclopedia Britannica per ragazzi)

«Nutro una morbosa attrazione nei confronti delle donne disperate; mi lascio commuovere dalle loro disgrazie e finisco per schierarmi dalla loro parte.»
«Dalla parte delle donne?»
«No. Delle loro disgrazie…»

(Jaime Avilés)

«Occorre essere attenti per essere padroni di se stessi»
(Consorzio Suonatori Indipendenti)

Capitolo Uno. Oroscopo.

La mia finestra si apre sul cimitero del Verano.
Sotto di me il traffico si è svegliato rabbioso dall’alba.
C’è puzza di asfalto bagnato. E afa.
Si prospetta una giornata di sudore appiccicaticcio addosso.
Un posacenere stracolmo di mozziconi e la bottiglia vuota di chinotto mi ricordano la mia nottata.
Otto puntate di fila di Lost. Occhi rossi, senso di colpa strisciante. Mi viene da vomitare, come ogni mattina.
Prendete tempo per realizzare i progetti importanti e intanto cercate di convincere non solo con la razionalità ma anche con il buon senso e la percettività. Dinamici ed eclettici, saprete conquistare l’amore e la fortuna nell’attimo fugace del presente. DECISI.
Le stelle sono favorevoli.
Secondo Pina Catulli, astrologa del mio settimanale femminile di riferimento, ci sono ottimi segnali che tutto vada per il verso giusto. E io le credo.
Le devo credere perché da qualche settimana l’oroscopo delle riviste più rassicuranti è diventato il mio unico e incrollabile appiglio per non venire risucchiato dallo sconforto.
Ho bisogno di sentirmi dire che “è tempo di inizi”, esigo che quando i miei amici mi parlano usino termini estremi come “dinamico”, “percettività” o che facciano riferimento a situazioni idilliache come “rapporti densi di significato”. Sento il bisogno di credere che “l’amore coniuga mente e cuore” e pensare a “nuove love-story, in un crescendo ROSSINIANO”!!

Sono il figlio degli anni ’80. Ieri mio padre mi ha telefonato:
«Senti, comunque ti volevo dire due cose. La prima è che tua sorella ti cerca perché ha bisogno che la aiuti a montare la nuova libreria di Ikea…
Oh, poi ti ricordi quando da bambino volevi qualcosa e te la compravamo e ti abbiamo convinto che tutto è a alla tua portata e che nessun obiettivo ti è precluso? Che potevi realizzare qualsiasi sogno, che sei una persona speciale? Beh, non era vero un cazzo! Buona vita!»

Oggi ho quasi 30 anni. Sono un precario della vita. Sono precario da quando ho memoria. L’idea di un contratto a tempo indeterminato mi fa venire la psoriasi e le crisi di panico.
Da quando la mia ultima donna ha deciso di non voler più avere a che fare con me perché non mi stimava più, ho cominciato a pensare che forse per tutto questo tempo mi sono un po’ sopravvalutato.
Ma non con l’atteggiamento della vittima, di quello che si dice «beh allora non valgo un cazzo» ma poi sotto sotto pensa «in realtà sono un genio incompreso e amo sentirmi dire che sono fantastico».
No. È che proprio mi sopravvaluto.
La mia socializzazione primaria, nei ruggenti anni ’80 mi ha fatto sviluppare delle aspettative su me stesso che l’andazzo degli anni ’90 avrebbe dovuto già smorzare.
Invece cieco e sordo ai segnali che le stelle inviavano a me e a quelli come me ho deciso, arrogante, di rilanciare e sognare. Di considerarmi un eletto destinato a lasciare il segno.
Io sono il migliore.
E tutta questa presunzione mi ha accompagnato nella mia crescita malsana.
Mi immagino a volte, quando lascio vagare la mia mente dopo ore di alcol e serie televisive, prima di addormentarmi, il mio destino personificato in un nano sadico che alimenta le mie illusioni. Poi si nasconde dietro gli angoli della vita con una mazza in mano e mi vede arrivare e se la ride.
E pensa, sganasciandosi «Oddio che risate appena gira l’angolo e me lo inculo! Chissà che faccia che farà.»
E regolarmente giro gli angoli e il nano mi incula e ride. Ma io imperterrito continuo a illudermi che legnate e fallimenti siano solo delle prove che la vita mi ha messo davanti per farmi crescere ancora più luminoso e vincente, quando non sono altro che ripetute conferme di un destino feroce e incattivito.
E il nano poi piano piano si trasforma, rivela la sua vera faccia: è un sessantenne. La generazione dei nostri genitori ci ha inculato e continua a incularci.
Ha scavato la fossa dove ora noi, in un mare di merda, sguazziamo.
Ci hanno abituato a un mondo che per noi era eterno e che invece è durato meno di due decenni. Un mondo dove tutto era possibile, dove tutti avevano la possibilità di essere speciali, dove saremmo stati tutti dei numeri uno!
E oggi ci dicono che è colpa nostra. È colpa nostra non esserci ribellati quando avevamo 6 anni.
Avrei dovuto fare lo sciopero dei giocattoli.
Avrei dovuto dire ai miei genitori di smetterla, che mi stavano costruendo con lima e scalpello il grosso tronco che oggi ho nel culo.
E io inizio a preoccuparmi di queste cose ora. Con un ritardo drammatico!
Ho sempre mentito a me e agli altri. Non sono un eletto. E la mia vita non è affatto luminosa.
Mi consolo perché me ne sono accorto relativamente presto, mentre tutti gli altri ancora sperano di realizzare il loro sogno di bambini degli anni ’80. Io ora so. E vivo meglio.
Ho trovato i miei punti fermi nelle immagini rassicuranti del paradosso. Negli oroscopi. Dei tiepidi consigli assennati color pastello. Non li disprezzo più. Chi li scrive anche se non sembra, sta facendo del bene. Illude mandrie di uomini e donne senza speranza. Alimenta illusioni basate sul nulla, ma mantiene viva una speranza ovattata.
La verità è che la gran parte di noi è condannata alla mediocrità ma è stata socializzata al successo.
Mi preoccupo ma in fondo non faccio nulla. Striscio nella vita perché così facendo è difficile cadere.
Dice: «Strisci così non cadi.»
«Eh però cazzo passo la vita a strisciare!»

Entra nella mia stanza Antonella, la mia coinquilina. Metto in pausa la puntata di Dexter. Mi giro una sigaretta mentre lei si siede sul letto.
Io nella mia poltrona nera da direttore di banca attendo le sue parole. Ha qualcosa da dirmi ed è sicuramente qualcosa di interessante. Antonella riesce a sorprendermi sempre.
È una delle poche persone che mi fa sentire sempre un passo indietro a lei. La adoro.
«Da una recente ricerca americana è emerso che le donne che hanno visto molte volte film come Pretty Woman, Ghost, Notting Hill, Dirty Dancing e via dicendo, in genere hanno rapporti sentimentali più disastrosi.» Ha la voce acuta, da saputella. Ma la sua espressione è così gioviale che riesce solo a risultare più simpatica. E più convincente.
Antonella continua: «Praticamente hanno in testa un ideale di uomo e di coppia che non esiste e continuano a distruggere i rapporti che hanno perché non sono mai uguali al loro paradigma.»
«Anto, tu sei un genio!»
Sorride soddisfatta e mi guarda dall’alto del suo metro e sessanta scarso. Sembra un manga. Ha due treccine legate da nastrini colorati.
«Sì, in effetti l’ho sempre sospettato, ma non avevo gli elementi per provarlo.»
«Che sei un genio?»
«No, la teoria sui film americani…»
Antonella è una socio-antropologa. Non fa mai affermazioni azzardate senza avere almeno uno straccio di prova per poter ancorare la sua argomentazione. È una macchina!
«Cioè mi stai dando ragione sulla mia teoria basata sul nulla, sulle donne e quello che si aspettano da noi uomini?? E per di più con un SOLIDISSIMO STUDIO AMERICANO!?»
«Sì. Perciò goditi questo momento. Girami una sigaretta e versami un bicchiere di chinotto. Please.»
Eseguo soddisfatto.

***

Mi chiama Fausto.
«Senti Samuele, stasera siamo imbucati a una festa a San Paolo, ti va?»
«No grazie, davvero, preferisco starmene a casa, vedere qualche puntata di OZ o di Lost… magari un’altra volta.»
«Sei un fallito, sono mesi che stai chiuso in casa tutte le sere a bere e a vederti le serie televisive. Mi fai schifo. Passo a prenderti tra venti minuti. Vestiti che lo so che stai in pigiama».
Fausto mi passa a prendere 18 minuti dopo con la sua solita espressione divertita sul viso. So che sto facendo una cazzata. So che quello di cui ho bisogno in realtà è spararmi sei ore di serie televisive senza sosta, fino a quando, stremato, sento i primi autobus passare sotto la finestra di casa, il segnale per franare sul letto perennemente sfatto. Ma come tante volte cedo alla mia stronzaggine e vado con lui.
Già dalla festa avrei dovuto capire tante cose. Il cast di una fiction televisiva di successo che si riunisce su una terrazza romana a cantare.
Noi: imbucati.
Personaggi della televisione noti, con le loro vite radical chic.
Noi: due poracci.
Ma non mi sento fuori luogo.
Ho sempre provato attrazione e disgusto per i radical chic romani. Rampolli di una ricca borghesia illuminata, che ha colonizzato tutti gli spazi della cultura, dell’informazione, dell’intrattenimento “di qualità”.
Ci sono cresciuto in mezzo fin da piccolo, senza mai esserne davvero parte. Ho imparato a conoscerli, a sapermi comportare, salvo poi sentire il bisogno di prenderli in giro e rendere visibile la loro follia cattiva e ipocrita.
«Ciao, io sono Margherita. Tu?»
«Ciao, sono Samuele. Piacere. Che bella festa.» Margherita è roscia. Ha un bel sorriso. «Tu che fai?»
«Io sono aiuto regista.»
«Pensa… che lavoro interessante.»
Poi mi viene presentato un maschio trentacinquenne. Probabilmente lui appartiene alla casta degli “autori”. Si vede dallo sguardo di sufficienza e dalla presunzione che emana.

«E insomma che fai nella vita?»
«Beh, è difficile da dire… in questo periodo lavoro con i rifiuti e con i rom. Che poi pure loro li trattano tutti come rifiuti… Studio l’economia popolare legata al riuso…»
«Davvero?? Che interessante!!» Sguardo vuoto, chiede pietà. Non vuole veramente sapere di che si tratta.
Osservo lo sguardo stupito, imbarazzato e incuriosito del mio interlocutore mentre gli descrivo il mio improbabile lavoro del momento. È una sensazione impagabile. Per pochi secondi sento un brivido sulla nuca, e trovo un senso alle delusioni e ai lavori paradossali che mi ritrovo a fare.
«Beh, è un lavoro come tanti, ne avrai fatti anche tu di assurdi. No?»
Sguardo fuori campo. «Va beh, cantiamo?»

In questo periodo sto lavorando per un’associazione che si occupa di rifiuti: umani (i rom) e non (l’immondizia vera e propria). Facciamo studi di economia popolare legata al riuso, i cui principali attori in Italia sono gli zingari. Poi c’è un laboratorio che produce oggetti di design e abbigliamento fatti con gli scarti. Non ho un contratto, e negli ultimi otto mesi di lavoro ho guadagnato 800 euro. Il lavoro è molto bello.
Avere a che fare tutto il giorno con rom e rigattieri è entusiasmante. Vedo il mio mondo da una prospettiva ribaltata. A volte faccio il giro dei secchioni dell’immondizia insieme a Humiza, una rom Khorakanè di Roma nord. Smucinare nella monnezza ti fa capire molto di te. È un po’ come guardarsi allo specchio. Uno specchio che puzza parecchio.
È un libro aperto di cui si deve solo imparare la grammatica.
Gli scarti che produciamo fanno un quadro molto preciso di chi siamo.
Ci sono zone della città in cui i rifiuti sono in ottimo stato, oggetti di marca, rivendibili nei mercatini abusivi dei rom come se fossero nuovi.
In altre zone i rifiuti, soprattutto gli ingombranti, hanno più di 30 anni. Merce che diventerà rarità vintage nei negozi dei rigattieri di via dei Coronari, dopo essere passata dai banchetti dei rom, a quelli del mercato di Porta Portese, fino appunto ai negozi ultrachic del centro.
Nel resto del tempo lavoro quando capita come traduttore o correttore di bozze, ma la mia aspirazione vera è il giornalismo.
Da cinque anni faccio il freelance, un modo elegante e straniero per dire precario.
Nella gran parte dei casi scrivo per giornali, riviste o radio “a titolo gratuito”.
Telefonata tipo con un redattore di un settimanale nazionale.
«Salve, mi chiamo Samuele Callegari sono un giornalistafrilenz, ho un reportage da proporre sui paramilitari colombiani.»
«Ah, ottimo. Di che si tratta?»
«Beh, le confessioni di un giovane paramilitare che torna a casa dalla caserma mentre parla con una donna ex guerrigliera che cerca di convincerlo che il suo lavoro è sbagliato e dovrebbe smettere…»
«Mmm»
«…i due viaggiano insieme su un autobus e si parlano in un clima surreale, poiché lui potrebbe arrestarla in qualsiasi momento e lei ha visto ammazzare la sua famiglia dai paramilitari… ho anche le foto».
«Certo, certo… mi sembra interessante. Senti. Sai che qui le collaborazioni sono a titolo gratuito, vero? Diciamo che ti diamo la possibilità di far leggere il tuo articolo su un giornale nazionale. Che te ne pare? Ti può andare bene? Sai, abbiamo poche risorse, la legge sull’editoria, la crisi…»
«Sa, non vorrei offendere, però io ci ho lavorato parecchio su questo pezzo, sono stato in Colombia a spese mie… vorrei provare a piazzarlo meglio.»
«Come vuoi. Questa è l’offerta migliore che riceverai, comunque. In bocca al lupo.»

Da giorni sto chiuso in casa, come mi rinfaccia Fausto.
Il fatto è che il mio lavoro è ricco di soddisfazioni umane e professionali, ma è anche inadatto alla sopravvivenza. E il giornalismo è chiaro che è un hobby che non posso più permettermi.
E ora sono seduto su un terrazzo circondato da attori, registi, autori della tivvù a cantare.
Da qui sopra si vede benissimo il campo rom dove lavoro tutti i giorni. Magari faccio uno squillo al mio amico zingaro, Zoran (detto Zorro) e gli dico di salire con un paio di amici suoi. Magari no.
È proprio qui sotto, vicino alla metro San Paolo, eppure è lontano anni luce dalle persone di questa festa. E da me in questo momento.
«Hai visto che abbiamo fatto bene a venire? Ti stai divertendo» mi dice Fausto.
«Beh, non c’è male. È pieno di gente famosa e spensierata. Proprio quello che volevo.»
«La fai finita di lamentarti sempre e di fare il cacacazzi? Ti credo che poi le donne non ti reggono. Sei sempre così pesante. Fatte ‘na cantata e non rompere i coglioni!»
«Allora lasciami cantare, che è meglio.»
Lasciami cantare, Fausto. Adoro cantare. Ma oltre a piacermi molto ho un problema: sono costretto a imparare a memoria i testi delle canzoni. DEVO farlo. Non tollero l’idea di non sapere le parole. Proprio mi disturba a un livello epidermico non sapere alla perfezione le parole delle canzoni. Mi sento male. E canto qui, in mezzo a sconosciuti, incappucciato per il freddo del terrazzo. È il dieci aprile ma fa freddo.
A fianco a me è seduta Ginevra Mischianti.
La conosco da sempre, anche se lei non conosce me. La televisione fa questo effetto quando sei un telespettatore.
Volevo fare l’amore con te da quando avevo diciotto anni. Mi sei sempre piaciuta. Ora sei qui che canti con me. E mi guardi. Sorridi. Forse. Comunque nella mia testa mi sorridi e io sorrido a te. So che io e te abbiamo un link.
Stiamo vivendo esattamente quel momento che non si riesce mai a definire. Il momento in cui ti rendi conto che la persona che hai di fronte è nella sceneggiatura della tua vita. Lei ancora non lo sa. Non lo sai tu. È assurdo pensarlo ma in fondo è così. Non si scappa. È una sensazione fisica, come un attacco di gastrite. La gastrite è un po’ la mia unità di misura delle cose belle e brutte della vita.
Il nostro primo dialogo è stupendo. Sono le parole delle canzoni che cantiamo. Insieme. Comunichiamo solo con questo. Nessun altro argomento. Solo unione di intenti nel riprodurre al meglio una canzone. Provo godimento vero.
Voglio non conoscerti.
Voglio continuare a godere con te senza sapere che mi farai male. Senza deluderti.
Solo sorridere e cantare.

diario da Port au Prince. polpacci

Vabbè, è un po’ presto per fare un bilancio. Sono arrivato da poche ore e non ho ancora visto molto. Ma il poco che ho visto mi sconforta. Il mio secondo arrivo a Port Au Prince è diverso dal primo. Innanzi tutto arrivo in aereo. L’altra volta avevamo raggiunto questa perla dei caraibi in macchina col sempre valido Juan, da Santo Domingo. Ora no. Ora si arriva comodamente da Miami, in comodi voli American Airlines, circondati da comodi ciccioni americani pasciuti e inguainati in magliette gialle, azzurre, rosse, con i simboli di congregazioni religiose, con cappelletti tutti uguali, con shorts che scoprono pallidi polpacci grassottelli, con scarpe da ginnastica comode, con badge in vista.

La prima domanda è: ma che cazzo ci fanno tutti questi gringos in volo verso Haiti?

Il mio aereo da Miami, che immaginavo deserto verso una destinazione piena di colera, è invece stracolmo di gringos. Molti di una certa età. Tutti visibilmente entusiasti ed emozionati, con l’atteggiamento spensierato di colui che va a farsi una bella vacanza. O di colui che va a diffondere la parola di dio e a fare del bene. Non capisco quale delle due cose stanno facendo questi qui, ma forse è l’effetto dell’hamburger che mi sono appena mangiato.

Insomma decine di americani biondissimi che si precipitano da remote cittadine del Texas, del Kansas, del Kentucky verso la ridente isola caraibica.

Un haitiano che mi fa fare una telefonata uscito dall’aeroporto mi dice che sì, effettivamente ce ne sono tanti di gringos, arrivano tutti i giorni, da mesi, vengono con le loro missioni religiose, vengono a dare una mano.

Una mano a fare che? Che tipo di mano danno centinaia di americani che fino a un’ora fa manco sapevano dove fosse Haiti, che non sono mai usciti dal loro ranch e che hanno palesemente delle scarpe inadatte alle latrine a cielo aperto di Port Au Prince? Vengono a salvare anime. Vengono a fare propaganda. Vengono a vendere il loro prodotto ai poveracci. Vengono a vendere dio. Ed è un buon momento, perché si sa che dio vende di più quando c’è il disastro, quando non si sa proprio che cazzo fare.

Le strade intanto, dopo quasi un anno dal terremoto, sono ricoperte di detriti, come se fosse stato ieri. ancora devo farmi un’idea più precisa. Ancora devo uscire. Intanto mi assalgono immagini di americani che portano i loro aiuti a questi poracci. Che dio ce ne scampi e liberi.

diario da Città del Messico. spazio a una buona iniziativa

Un post per dare spazio all’amico e compagno Fabrizio Lorusso, che dalle pagine di Carmilla lancia una iniziativa che sottoscrivo e condivido.

http://www.carmillaonline.com/archives/2010/11/003693.html#003693

diario da Tijuana. la frontiera dello squallore

Vengo a Tijuana a lavorare qualche giorno. Cosí, perché voglio respirare il senso della frontiera. Va subito detto che a Tijuana fa un freddo della madonna. É proprio un freddo senza senso. Che tu dici cazzo stiamo in Messico, stiamo nel deserto, e pare di stare a Ortisei con l’aria fredda che ti gela i polmoni.

Si va a casa dell’amico Fabio, che é venuto a stare quassú per trovare una giusta dimensione, perché a Fabio la Colombia sta stretta. Fabio si annoia della Colombia dopo un po’.

A parte il freddo qua c’é tutta la questione dei migranti, della frontiera, degli ammazzamenti. C’é un narco tunnel che hanno appena scoperto. Era lungo otto campi da calcio e ci passavano dentro tonnellate e tonnellate e tonnellate di droga.

Per costruire un narcotunnel serve un milione di dollari. Lo si usa un due tre mesi e poi te lo beccano. In quei due tre mesi ti sei ripagato cinquanta narcotunnel. All’andata mandi su la droga. Al ritorno ti entrano soldi e armi. Tijuana é piena di buchi. Anni fa hanno scoperto un narcotunnel. Era stato scavato nelle tubature sotterranee. Sbucava di fronte al parcheggio della Border Patrol. Pare che sia rimasto in funzione un anno.

Ammucchio scaglie di storie assurde in una cittá che sfida ogni giorno la categoria del credibile. Intanto leggo dell’Italia. Leggo del gesto estremo di Mario Monicelli. Che si butta dal quinto piano a novantacinque anni chissá perché. Forse ha portato a termine a suo modo la rivoluzione che tanto ci manca. Vedo le foto delle manifestazioni degli studenti e mi animo un po’. Ma poi penso che si spegneranno i fuochi anche stavolta.

Fabio mi rimprovera un volto lungo e lugubre. Questo é un momento in cui si deve resistere. A tutto. Quando sei martello batti, e quando sei chiodo statti.

Tra pochi giorni saró al caldo di Haiti, perché i caraibi son sempre i caraibi. Vado a ficcare il naso in mezzo a quel casino per vedere di nascosto l’effetto che fa.

Dopo questo elenco di azioni é il caso di aggiungere un po’ di riflessione a questo post ma proprio non ci riesco. Il problema é che sono saturo di squallore e di tristezza. Cerco riparo insieme a Fabio nei locali notturni della Tijuana storica, quella che ospitava migliaia di gringos ogni giorno e offriva loro quello che ai vicini del nord era spesso negato: il tequila, il sesso e la marijuana. Oggi il centro di Tijuana é l’espressione decadente di un mondo che non solo non ha piú risposte, ma che fatica anche a farsi le domande.

Entriamo al Mike’s. Qua ci suonava Santana ti dicono. Ora é un postribolo di ricchioni e travestiti che si esibiscono su un palco vintage, cantando in playback, truccati malamente, maschere di orrore. Il grottesco che attira donne e uomini. Risate grasse, spogliarellisti froci che acchiappano le donne del pubblico simulando inverosimili orgasmi omogeneizzati sul palco. Un palestrato gay vestito da marinaio sulle note dei Village People che simula una fornicazione volante con una cicciona mezza ubriaca, mezza isterica e mezza iena ridens.

E noi a bere birra e a sentirci a disagio e a ridere senza sapere di chi. E questa é la foto di me e di molti come me in questo momento. Annegati in una tristezza che é totale e generalizzata. E questo locale é la nostra via d’uscita. Riesce a essere piú squallido, triste e senza speranza di tutti noi. E per questo dobbiamo essere grati.

“Andiamocene va’. Andiamo a dimenticare”