diario da Città del Messico. benvenuti a sti frocioni

– Pronto buongiorno, chiamo dal Messico, dovrei fare l’esame all’ordine, mi hanno detto luglio, vorrei sapere una data precisa, devo fare il biglietto apposta.

– Ah però no, guardi una data precisa nun glie la posso dare.

– Come? Non ho capito. Scusi, ho fatto domanda sei mesi fa, è l’8 giugno.

– Eh, vabbè però noi gli esami li facciamo settimanalmente. A seconda degli impegni del presidente.

– Non ha capito, io devo comprare il biglietto dell’aereo apposta. Sono 10mila chilometri.

– Ho capito. Senta guardi lei faccia ‘na cosa. Fa sto bijetto, ariva a Roma e quanno ariva a Roma me fa na telefonata e vediamo si se po’ fissà st’appuntamento.

– Che però non è sicuro.

– Ennò. Si magari viene a settembre capace che è più facile. Dica un po’ come se chiama?

– Eulalio. Eulalio Caroddi.

– Eh Eulalio. Bravo. Sta qua.

– Lo so…

– SìSì. Ha fatto domanda a febbraio. È venuto su padre a portare tutti i documenti. Me ricordo. Ecco Guarda Eulà, fai ‘na cosa. Te vieni a Roma, tanto ce dovrai passà ogni tanto da Roma no? Ecco te quando arivi fai ‘na telefonta e vedemo si se po’ fa o no l’esame.

 

Dov’è che volevamo annà noi? dice il futuro dell’Italia… ecco.

Radical Shock. Una storia sinistra. Capitolo undici. Sarà il canto delle balene

Undici. Sarà il canto delle balene.

L’incertezza tra l’adesione e la ribellione può provocare l’impasse e aprire una crisi esistenziale. Per evitarla, adottate due regole d’oro: concedetevi il tempo dell’attesa e “fissate” le nuove strategie d’attacco. Amore in gestazione. STRATEGICI.

«Ti meriteresti di rimanere qua a crepare in mezzo al tuo piscio.»
La voce viene da dietro. La conosco. Sono stordito e assetato. E impaurito e vaffanculo chiunque tu sia fatti vedere!
Entra in campo un vestito gessato. Entra in campo un paio di scarpe italiane. Entra in campo una testa di capelli ingelatinati e un viso con una lunga cicatrice.
Entra in campo Fernando.
«Shei shtato tu a faghmi queshto?»
«Vedi che sei un idiota?» Non ho ben chiaro a cosa faccia riferimento. «Non sono io il cattivo, italiano. Io sono quello che ti salva il culo.»
Silenzio. Proprio non capisco. Come fa Fernando a essere qui ora? E se non è stato lui chi è stato a ridurmi così?
Io continuo a essere legato alla sedia, pieno di sangue, vomito e orina. Tumefatto, assetato e spaventato a morte.
E Fernando non si muove. Rimane in piedi. Elegantissimo. Serio. Mi guarda.
«Ti avevo detto di non immischiarti in certe cose. Di fare attenzione. Di non fare troppe domande. Invece hai voluto fare di testa tua. Chi pensavi di essere? Batman?»
«Volevo faghe il mio lavogho… Shcusha non è che mi potreshti shlegaghe?»
Non riesco a parlare bene. Ho una pigna in bocca.
Fernando si avvicina piano. Attento a non sporcarsi il vestito. Tira fuori dalla tasca un coltello. Ha il manico di avorio. Mentre taglia la corda mi spiega.
«Mi dispiace Samuele, ma non hai proprio capito niente. Davvero non sai chi ti ha ridotto così?»
Faccio segno di no con la testa. Mi fa male anche il collo. balene

«E non ti chiedi come ho fatto a trovarti? Qua sperduto nel buco del culo di Ciudad Neza?»
Sono a Ciudad Nezahualcoyotl. Dove sono venuto a vedere la pelea de perros.
Faccio di nuovo no con la testa.
Si dice diniego.
Faccio un segno di diniego.
Libero le mani e i piedi dalla morsa delle corde che mi hanno scavato la carne per tutte queste ore. Mi massaggio i polsi e le caviglie. Ci sono croste di sangue rappreso un po’ dappertutto, ma sono integro. La mia gola arde.
«Era un po’ di tempo che il mio caro e fidato Tintan aveva degli affari paralleli. Per un po’ li ho tollerati. Ma qui si parla di omicidi su commissione. Di rapporti con le famiglie del narco. Ho provato ad avvertirti, ma tu ti sei cacciato proprio tra le sue braccia.»
Io muoio di sete.
L’espressione di Fernando è calma. Non manifesta emozioni particolari mentre mi spiega come il suo uomo più fidato lo ha tradito.
«Ti ho fatto seguire dopo che sei venuto a Tepito. Senza che Tintan lo sapesse. Ti ho messo sotto sorveglianza speciale. Quello che mi manca è il motivo per cui Tintan ti ha fatto fare questo dai tre fratelli Cabrera. Cosa hai fatto?»
I tre fratelli Cabrera. Che cazzo di nome è? Tre energumeni mascherati si chiamano “i tre fratelli Cabrera.” Un film messicano anni settanta, tipo El Santo contra los cazadores de cabezas.
Capolavoro del 1971. Che squallore.
Un nuovo segno di diniego da parte mia.
Fernando mi guarda paziente e annuisce.
Il dolore inizia dalla punta della testa e ricopre in maniera quasi uniforme tutta la superficie del mio corpo. Dove non sono stato picchiato ho degli stiramenti autoindotti. Dove non ho lividi ho escoriazioni o ferite o graffi o fratture. Credo che mi abbiano rotto una costola. E il naso. E uno zigomo mi fa lacrimare in continuazione.
Ma sono vivo. Respiro.
Fernando finalmente mi aiuta a tirarmi in piedi.
Entra un ometto piccolo e magro. La faccia da tagliagole. È in silenzio. Mi prende un braccio e mi sostiene. Sarà alto meno di un metro e sessanta ma ha una forza incredibile che si trasmette nei muscoli tesi e tonici.
Vengo portato fuori. L’aria è fresca. Ha piovuto da poco. L’ometto mi guida a una Mercedes Classe C nera coi vetri oscurati. Ovviamente. Mi apre lo sportello posteriore. Entro. Sale anche Fernando dietro. L’ometto si posiziona nel posto del navigatore. Alla guida uno degli scimmioni di Fernando.
In macchina bevo da una bottiglietta di acqua Electropura. La finisco in quattro secondi. Ho ancora sete e in pancia un gracidare di rane. E crampi.
Attraversiamo la città a velocità molto sostenuta. La pelle dei rivestimenti della Mercedes ha un buon odore.
«Ho visto qualcosa. Che non dovevo vedere. Credo.»
«Questo lo avevo intuito. Cosa hai visto esattamente?»
Non so se posso fidarmi di lui. Potrebbe benissimo essere una ennesima inculata. Ma ho bisogno di credere in qualcuno. Ho bisogno di una guida. Ho bisogno di affidarmi a qualcuno che prenda le decisioni al posto mio.
Fernando non mi fa più paura. O me ne fa meno.
«Ho visto un ragazzo. Della mia età. Con un tatuaggio sul braccio.» Fernando è in ascolto. «Il tatuaggio era il simbolo della Vera Via. E aveva un sacco nero in mano. Alla lotta dei cani. E dentro il sacco c’era una testa umana. E la faceva vedere a qualcuno. Non riuscivo a vedere a chi la mostrava.»
Silenzio.
«Speravo che non si fossero accorti di me.» Dico piano.
Fernando mi guarda pensieroso. E tace.
«Tintan da qualche tempo è in affari, in proprio, con i vertici del PEM. Facilita il loro ingresso e sviluppo nel mercato messicano. Trova spazi, finanziatori, elimina concorrenti e a volte si occupa del lavoro sporco. Lo fa utilizzando alcuni adepti. I più problematici. I più facili da controllare. I più fanatici. È il suo piccolo esercito di disadattati.»
Il ragazzo tatuato uguale a me. Sei parecchio problematico se vai in giro con una testa umana in un sacco.
Fisso Fernando negli occhi mentre fuori dal finestrino scorre la città con la sua vita.
Io penso. Penso. E piango. Senza poter fare nulla per impedirlo. Vorrei non piangere davanti a Fernando. Non posso.
È stato un avvertimento. Tintan non mi ha voluto ammazzare. Solo spaventare.
Passiamo per il Periferico.
Passiamo per il Viaducto.
Passiamo per la Colonia del Valle.
Fernando mi porta a casa.
Nella casa di Silvia alla Condesa.
«Riprenditi. E quando ti sei ripreso vienimi a trovare a Tepito.»
Annuisco. Scendo dalla macchina, che riparte. Citofono. Silvia mi apre. Entro nel palazzo. Mi chiudo il portone alle spalle e respiro.

***

Ho raccolto abbastanza materiale per un bell’articolo per Mondo Oggi. Sono ancora stordito, ma di roba da scrivere ce n’è.
Apro la posta elettronica dopo troppi giorni.
44 messaggi.
Antonella che mi comunica che aspetta un bambino e che ha deciso di emigrare anche lei. Con tutto il pupo in pancia. Pensa di andare in Tailandia.
Una mail di Giorgio. Giorgio non mi scrive mai le mail.
Giorgio mi comunica che ha fatto il possibile per mantenere aperto il canale con la redazione. Ma lo hanno mandato affanculo scocciati.
Cazzo. Non conti un cazzo, no, amico mio. Grazie lo stesso.
Il mio pezzo ora non serve a nessuno. L’unico buon contatto me lo sono bruciato.
Giorgio è rammaricato. Lo so, fratello.
Io pure. E non ho un cazzo di lavoro e ho finito i miei pochi risparmi.
Mi chiama Silvia.
«Hai saputo la notizia del giorno?»
«Cosa? che non mi pubblicheranno mai o che sono rimasto senza un soldo?»
«No. Questa non è la notizia del giorno. E non è nemmeno una notizia. Invece la news è che è morto Michael Jackson! Davvero non lo sapevi? Sei l’unico, Samuele.»
«Vuoi dire Michael Jackson il pedofilo? Michael Jackson l’ex negro che è diventato bianco? Quello che si è rifatto cento volte il naso? Quello che costruisce parchi di divertimento perché è un miliardario genero di Elvis con la sindrome di Peter Pan che molesta ragazzini e li fa giocare con il suo pisello? Quel Michael Jackson?»
«Dai sei di cattivo gusto.»
«Quello che è passato dal funk al pop? Quello che insieme a quella stronza di Madonna ha dettato legge durante gli anni ottanta, il periodo più buio degli ultimi secoli? Di che è morto?»
«Di infarto.»
«È crepato a 50 anni di infarto lasciando 500 milioni di dollari di debiti, leggo ora su repubblica onlain. E, credimi Silvia, penso che ci siano poche cose al mondo che mi possano fregare di meno. Comunque grazie per l’informazione. Ora che ci penso la prima musicassetta che ho avuto è stata Bad. È commovente.»
«Sei proprio un cazzone, Samuele. Ma che c’hai oggi? Vabbè, quando hai finito di fare lo stronzo fatti sentire.»

Le ferite non mi fanno più tanto male. Sono passate due settimane da quando il boss di Tepito è venuto a liberarmi sul suo cavallo bianco. Sulla sua Mercedes nera.
Per farmi riprendere Silvia mi porta al mare a Tulum.
Due settimane di mare.
Tulum è un posto bellissimo. Dicono che fino a un po’ di anni fa era ancora più bello.
È sulla costa caraibica del Messico, a due ore da Cancun. Verso sud. La famosa riviera maya.
Una costa di sabbia bianca, corallina. Mare turchese. Palme, cabañas sul mare. Il paradiso da cartolina.
Faccio il bagno nel cenote, con la maschera e le pinne.
A Tulum siamo alle cabañas Los Arrecifes. Sono gestite da un amico di Serapio, Xavier.
Xavier è un uomo sulla cinquantina. Indossa sempre occhiali da sole. Ha sempre in mano un bicchiere pieno di vino rosso, ghiaccio e succo di ananas. Nell’altra mano un purino di mota.
Lui mi ha consigliato i bagni nel cenote.
«Il cenote è dove i maya facevano il bagno. Sono dei grossi buchi molto profondi pieni di acqua dolce. Tutta la zona è piena. In mezzo alla selva ti ritrovi questi mini laghi profondissimi di acqua dolce. È un’acqua rigenerante. Purificatrice. Vedrai che ti sentirai meglio.»
E infatti sto tutti i giorni lì. A mollo. Silvia si è portata da leggere perché lei sta perennemente a fare il carpaccio umano sotto il sole.
Si prende cura di me.
La sera Xavier mi fa assaggiare tutte le prelibatezze del luogo. Avocado delle Barbados, ceviche di lumache di mare giganti, tartaruga.
«Ma non è illegale?»
«Sì, ma senti quanto è buona. Questa è solo per gli amici.»
La tartaruga è uno dei cibi più deliziosi che abbia mai mangiato.
Xavier mi racconta che Tulum era un vero paradiso. In uno stato, Quintana Roo, che fino a poco tempo fa non aveva vere e proprie istituzioni. Era un po’ il far west del Messico.
Ora tutta la costa se la sono comprata le multinazionali.
«Ci siamo venduti tutto il paese. Poi facciamo le vittime. Tutto quello che di buono avevamo lo abbiamo svenduto o regalato.»
Il principale acquirente è la compagnia multinazionale Barceló. E hanno costruito enormi resort sul mare. Uno dopo l’altro.
Ci sono più campi da golf qui che in tutta la penisola dello Yucatán.
E adesso ne costruiscono altri. E riempiono di cemento centinaia di cenotes. Per fare campi da golf. Abbattono la selva. Riempiono le “buche” di cemento. E fanno campi da golf. Lasciando crescere i margini della selva affinché da fuori non si veda nulla.
Decine di ettari quadrati.
Accendo il purino di mota. Qui cresce endemica. Mi lascio dondolare sull’amaca e i miei pensieri mariguani viaggiano su appezzamenti infiniti di campi da golf, su cui crescono mazze come alberi da cui pendono palline come frutti. E i laghetti sono cenotes. E nei cenotes molti alligatori che azzannano gringos e europei in vacanza nei resort Riviera Maya®.
Un’iguana passeggia serena sotto di me. E mangia zanzare. Brava.
Dopo due settimane a Tulum vuoi uccidere qualcuno dalla noia o scappare il più velocemente possibile.
Con tutta l’erba che mi sono fumato e la birra che ho bevuto sono riuscito a stordirmi e a distrarmi dalla noia. Ma porcaputtana che palle!
Torno nella pancia del Monstruo. Benché non abbia niente a cui tornare.
Io e Silvia.
Due italiani, amici da una vita emigrati in Messico. Silvia mi fa «Ma l’avresti mai detto dieci anni fa che ci saremmo ritrovati qua io e te su un pesero a Coyoacán?»
Siamo su un pesero a Coyoacán.
Quando sali su un pesero, una specie di piccolo autobus, devi dare i 3 pesos al conducente. Se c’è posto ti siedi. Se non c’è posto il conducente di fa sedere spiaccicato contro il parabrezza davanti. Seduto su un cassone a fianco alla porta. Io e Silvia siamo ammucchiati lì.
«No – le faccio io. – Proprio no. Siamo due surreali comunque.»
Passiamo per una scuola di ceramica. Un gineceo di ceramica. Dove Silvia imparava a fare dei vasi qualche mese fa con delle amabili signore di sinistra.
Silvia vive qui da due anni e tra le altre cose ha fatto un corso di ceramica a Coyoacán. E oggi passiamo a prendere un vaso che ha fatto quando era un po’ giù. Quando aveva il cuore come un alveare. E infatti il vaso sembra un nido di vespe. Ma dentro è laccato e bello.
Poi a Coyoacán una cosa che si fa è passeggiare. E allora passeggiamo per i giardini di Coyoacán dove c’è una fontana con i coyotes. Da cui prende il nome il quartiere. Dai coyotes, non dalla fontana.
Racconto a Silvia di quante cose surreali succedono in nella vita. Concorda. Prendiamo per Avenida Felipe Carrillo Puerto. E siamo un fiume di chiacchiere rumorose.
«E quindi in Colombia incontro questo tizio francese di età indefinita» le dico «che ha passato otto anni nei corpi speciali dell’esercito francese a fare il paracadutista e ammazzare africani in Africa. Poi a una certa sbrocca…»
Voce fuori campo: «Chi è che sbrocca??»
Gelo.
Io e la mia complice ci giriamo di scatto. Da dentro un negozio esce una voce. Una voce con uno spiccato accento romano. Maschile.
«Chi è che sbrocca allora??»
La voce ha una faccia. Una faccia di Roma.
Dietro a un bancone su cui sono esposte teglie di melanzane alla parmigiana. Su cui sono esposte lasagne. Su cui sono esposte torte rustiche.
La voce si chiama Emiliano.
«Come Emiliano Zapata?» chiedo.
«Sì. Sono nato qua – dice Emiliano – mia madre mi ha chiamato come un eroe messicano.»
«Beh, ti poteva andare peggio – dico – ti poteva chiamare Porfirio, come Porfirio Díaz. O ancora peggio, Benito, come Juárez.»
Risata.
La madre in questione è Alessandra. Oggi è il suo compleanno. Alessandra è della Balduina. Un quartiere di Roma, adiacente al mio. È andata a scuola alla Ludovico Ariosto. Dove sono andato io. Scuola demmerda. È qui dal ‘78 e oggi compie gli anni. Con il figlio Emiliano che ha una sciarpetta della Roma appesa a un vaso sopra al bancone.
Il Messico è surreale. Emiliano è surreale. E mi invita a vedere le partite della Maggica a casa sua.
«Noi ogni domenica ci vediamo alle otto di mattina a vedè la Roma. Se vuoi puoi venire appena ricomincia il campionato.»
La Roma a casa di Emiliano. Era tutto quello che potevo desiderare. Come la Roma a casa di Giorgio.

***

La giornata di ieri poteva sembrare un qualsiasi venerdì a Città del Messico. Un venerdì barzotto direbbe qualcuno. Per esempio io.
Poi all’improvviso si fanno le sette di sera e raggiungo Silvia e i suoi amici in una cantina del centro storico. Quattro chiacchiere e qualche tequila.
Continua ad essere venerdì.
Nove e mezza, Arena México per il rito della lucha libre nel suo tempio nazionalpopolare.
C’è un amico francese di Silvia, Roman, entusiasta degli energumeni mascherati che ogni settimana affascinano grandi e piccini con uno spettacolo che i più non riescono ad apprezzare.
C’è sempre qualche ottuso che commenta sì vabbè però si vede troppo che non fanno davvero a botte, cioè si capisce che è per finta.
In questi casi purtroppo è difficile avere un’interazione civile. Ma tant’è.
Dunque, finita la lucha, ci buttiamo tra le bancarelle che vendono maschere, magliette, pupazzi e tutto ciò che può avere impressa la faccia enmascarada dei nostri eroi.
Ovviamente non resisto e mi compro la maschera del Santo.
Ora. Per chi non lo sapesse, El Santo non è stato solo il più importante luchador, insieme a Blue Demon, della storia messicana. Esso è un eroe. Un’icona immortale. Un mito.
In questo paese che idolatra divinità ed eroi mascherati El Santo è più o meno come Maradona per i napoletani, o come Elvis per… per i fanatici di Elvis.
A partire dagli anni cinquanta El Santo, conosciuto anche come el enmascarado de plata, poiché la sua maschera è d’argento, comincia a diventare un eroe grazie a fumetti e film che lo hanno come protagonista.
In tutta la sua carriera nessuno è mai riuscito a togliergli la maschera in combattimento, nessuno lo ha mai visto in faccia. Da qui è nata la leggenda per cui il giorno in cui gli fosse stata tolta la maschera sarebbe morto. Nel 1984 el Enmascarado de plata partecipa a un programma televisivo e il presentatore riesce nell’impresa. Gli fa mostrare al pubblico un pezzetto della faccia. Dopo una settimana muore di infarto. E il mito prosegue e si ingrossa. Si dice che sia stato sepolto con la sua maschera d’argento.
Ieri sera mi presento con i miei amici in un locale della colonia Roma. Prima di entrare, per gioco, indosso la sacra maschera del Santo. Entro.
Da qui la serata cambia. Inaspettatamente tutto il locale esplode in grida e applausi. Dopo 30 secondi sono il re della serata. La follia. Gente che grida SantoooSantoooSantoooSantoooo. Mi fanno ballare in mezzo a cerchi vertiginosi. Mi offrono da bere. Tutte le ragazze del locale vogliono ballare con me. Anzi non con me. Con El Santo. I loro fidanzati mi chiedono se posso farmi delle foto con loro. All’improvviso vengo preso per le gambe e sollevato come la coppa dei campioni. Sono stravolto. Non riesco a credere a quello che mi succede. Duecento persone impazzite che coinvolgono uno sconosciuto in modo forsennato peché indossa la mascara de plata. Mi fanno salire su uno sgabello e mi costringono a ballare. Per tutto il tempo in cui rimango nel locale gran pacche sulle spalle, sorrisi, abbracci commossi.
Io ora non posso più togliermi la maschera. Non sono più io. Non riguarda più me. In questo momento io presto il mio corpo allo spirito del Santo. E ho il dovere di onorare la maschera che indosso di fronte a tutta questa gente che la rispetta e la venera. Per un momento ho capito come deve sentirsi Francesco Totti quando entra in una trattoria di Testaccio. Per poche ore ho sentito nel mio corpo la concretezza dell’amore di un popolo verso un suo eroe. Un eroe mascherato. Un giustiziere. Un’icona positiva. Popolare.
Uscito dal locale, solo dietro l’angolo tolgo la maschera per prendere aria e un taxi. Per qualche istante temo che anch’io possa morire facendo quel gesto. Ma non accade. Evidentemente.
Probabilmente questa è l’esperienza più surreale che mi sia successa a Città del Surrealismo.
Che lo spirito di Rodolfo Guzmán, conosciuto come El Santo, ci protegga tutti.
***

Scrivo e guardo la televisione.
Scrivo e vedo dei poliziotti che bloccano la strada.
Di fronte a loro dei poliziotti.
I poliziotti puntano dei fucili in faccia a dei poliziotti.
L’unica differenza è che alcuni sono vestiti di blu e altri di nero. Quelli vestiti di blu sono meno. Quelli di nero di più.
Un po’ guardo facebook e un po’ alzo lo sguardo su questa scena irreale. Sembra che questo paese voglia mettermi alla prova ogni giorno.
Motivo dello scontro: i federali decidono di fare una scampagnata a Monterrey, Nuevo León, per arrestare il capo della polizia di stato e altri otto ufficiali.
Allora la polizia dello stato di Nuevo León decide che col cazzo che l’Efbiai messicano si porta via il loro amato capo. E bloccano la strada. Per tre ore.
E ecco qua che tutto il paese si trova di fronte alla scena finale delle Iene con tutti che puntano pistole contro tutti.
Che poi c’hanno il volto coperto.
Cioè è come se uno accendesse Rai due e vedesse la seguente scena: sulla Salerno-Reggio Calabria, all’altezza di Vibo Valentia c’è un blocco della polizia.
I poliziotti, con il volto coperto, bloccano la strada e arrivano i carabinieri con le camionette blindate e gli dicono “vabbè ora toglietevi dai coglioni” e quelli, sempre a volto coperto “no, perché avete arrestato Ciccio Notraco, il nostro amato capo”.
E allora restano lì.
Ore.
A puntarsi in faccia i mitra e i fucili da guerra.
Tutti molto maschi e molto incazzati.
Ecco questo è più o meno quello che vedo. Solo che qui sono messicani e non sono in Calabria. Ma non c’è tutta sta differenza.
Sarà che sono tre giorni che non bevo un goccio di alcol? Sono allucinazioni?
È arrivato il momento di tornare a Tepito.

Prendo il pesero che mi porta fino in centro. Da lì attraversando un labirinto di stradine arrivo a Tepito.
Fernando mi ha dato appuntamento in un bar vicino a una piazza. Un posto pubblico.
Fernando mi accoglie con la solita espressione calma, posata.
«Abbronzato eh? Sei stato al mare?»
«Un po’ di riposo a Tulum.»
«Ah, un posto straordinario.»
«Sì.»
Silenzio.
«Fernando, volevi vedermi?»
«Sì. Volevo dirti alcune cose.» Parla facendo molte pause. Bevendo lentamente il cappuccino che ha ordinato.
Io bevo un caffè americano con latte. Molto latte e molto zucchero.
«Tintan non è più un problema. Né mio, né tuo.»
La notizia è come un tocco di campana sordo. Senza rimbombo. Non sento nulla.
Quando ho visto quel ragazzo tatuato con la testa in mano e sono corso al cesso, per un po’ ho creduto di avercela fatta. L’omone che è entrato dopo di me era un quarantenne ubriaco come una merda, che veniva a svuotare la vescica al cesso.
Ho vomitato tutto quello che avevo in corpo, ma nessuno mi ha toccato. Nessuna minaccia. Niente.
Uscito dal bagno un po’ sconvolto sono tornato nel patio a vedere dei cani ammazzarsi.
Tintan è ricomparso dopo qualche minuto con l’espressione imperturbabile sul volto.
Non ho pensato che potesse essere lui l’uomo nell’ombra.
Ha fatto finta di niente. Mi ha chiesto se avevo visto abbastanza. Gli ho risposto che sì, sarei tornato volentieri a casa. Avevo un altro conato.
Dopo venti minuti eravamo di nuovo seduti nel Chevrolet TrailBlazer di Tintan. La musica a palla. Reggaeton.
Tintan mi ha accompagnato fino a Tepito. E da lì ho proseguito da solo.
Nessun segnale. Nessuna preoccupazione.
E ora nessuna emozione nel sapere che il mio aguzzino è stato tolto di mezzo. Non sento nulla.
Ho solo voglia di smettere di decidere.
Ho solo voglia che qualcuno si prenda cura di me.
«Ho un lavoro per te Samuele. Sarai il mio aiutante. Non come Tintan. Lui era una guardia del corpo, il mio braccio destro, il mio assistente sotto tutti i punti di vista. No, per te sto pensando più a una specie di addetto stampa. Una specie di faccia pulita. Che ne pensi?»
È pazzo. Per forza. Cosa gli fa pensare che io possa accettare una proposta del genere?
Affiliarmi a un boss di Città del Messico è fuori discussione. Anche se no ho altro da fare. Anche se non ho da mangiare.
«Perché dovrei lavorare per te?»
«Perché non hai niente. Non hai niente da perdere. E perché sei stanco.»
Sono stanco. È vero. Ma questo non basta.
«In che consiste questo lavoro? Cosa vuoi esattamente da me?»
«Ho varie attività oltre alla gestione del mercato. E per alcune ho bisogno di avere una faccia pulita, credibile, che mi rappresenti. Voglio che quando vedono te vedano anche me. Voglio che si associ la tua faccia europea, i tuoi occhi sinceri, il tuo sorriso rassicurante, a me. Tu devi essere il volto pubblico di Fernando. Devi essere uno specchio per le allodole. Anzi. LO specchio per le allodole. Sai essere convincente. Sai trasmettere sicurezza. Sai far credere di avere le risposte. L’ho notato, sai?»
«E perché dovrei accettare?»
«Per esempio perché ti ho salvato la vita.»
Questa era banale.
«O perché non hai un cazzo. Non ti è rimasto niente.»
Ora cominci a dire cose pesanti.
«O più semplicemente perché tu LO VUOI.»

Questo paese non è esattamente come mi aspettavo. Pensavo che avrei trovato un modo per sfangare. Per fare quello che pensavo fosse il mio lavoro, scrivere.
Da fuori sembra solo un posto surreale dove succedono cose strane. Invece è proprio una giungla.
Per questo i messicani sono così cabrones.
Millenovecentonovantotto: durante i mondiali di calcio di Francia, un messicano con parecchio alcol in corpo, pensa bene di pisciare nel focolare del trionfo, che si trova sotto l’omonimo arco. Ci ha pisciato sopra!
Prima conseguenza: ha spento il sacro fuoco del tronfio trionfo francese.
Seconda conseguenza: unanime disgusto internazionale nei confronti del Messico.
Ti piscio sopra, Trionfo.
Ti piscio sopra, comunità internazionale, sono messicano e sono ubriaco. Non c’è nulla di più molesto e antisociale al mondo.
E io arrivo in questo paese. Sperando di trovare le armi necessarie a smantellare l’organizzazione di un paraculo che ha capito come soggiogare un fottìo di persone adoranti.
Sono arrivato qui pensando che avrei potuto lasciarmi alle spalle tutta la disperazione, la delusione, la frustrazione della mia vita.
Sono arrivato qui pensando di lasciare in Italia i miei fantasmi. Le donne che non mi hanno amato. Ginevra. Lauréda.
Pensando che avrei avuto un’altra possibilità.
Per essere luminoso. Vincente. Coerente con i miei sogni di giustizia e successo di bambino anni ottanta.
Ken il Guerriero. Che uccide i cattivi facendogli esplodere la testa. I cattivi.
Indiana Jones, che va alla ricerca della Verità. Del Graal. Che uccide i nazisti. I cattivi.
Smantellare la Vera Via. Ma la Vera Via è un polipo. L’ennesimo polipo. L’ennesimo oppio. L’ennesimo padrone a cui tutti prima o poi, stanchi, decidiamo di sottometterci.
Né più, né meno.
La Vera Via in fondo sono io.
Fernando aspetta una risposta da me. Ma già la conosce.

***

La mia casa si affaccia sul Mar di Cortés. Il rumore del mare mi accompagna durante la giornata.
Il lavoro non è difficile. Lo faccio tranquillamente da casa con una connessione veloce.
Lavoro per Fernando. Sono la sua faccia pulita. Quello che gestisce la comunicazione delle sue molte imprese.
Siamo in affari anche con il PEM. Ho conosciuto il Maestro. È un cialtrone. Ma Fernando dice che è affidabile per ripulire denaro sporco.
Mi ha sempre disgustato l’idea che chiunque si metta in ginocchio davanti a un dio, davanti a un uomo.
Mi disgusta l’idea che qualcuno scelga di mettersi in ginocchio.
Mi disgusta il gesto di mettersi in ginocchio.
Di pregare.
Di scegliere di dare la propria fiducia, la propria fede, a un’altra persona. Incondizionatamente.
Per anni è stata la mia battaglia. Il faro della mia vita.
Non riesco ad accettare che qualcuno possa rinunciare al proprio arbitrio e affidarsi a qualcun altro.
Non accetto l’idea di rinunciare al mio libero arbitrio e delegare qualcun altro che decida al posto mio.
Non accetto l’idea di rinunciare alle responsabilità per mettermi nelle mani di qualcun altro.
Oppure non accetto di farlo io?
Oppure non accetto che esista un dio se quel dio non sono io?
Ora c’è qualcuno che ripone la sua fede in me.
Ora c’è qualcuno che è disposto a inginocchiarsi di fronte a me.
Che crede ciecamente in me e che esegue i miei ordini come se questi fossero legge.
Questo è quello che mi ha dato Fernando.
«Tu non odi le sètte perché rappresentano il male. Perché anche tu sei oscuro. Tu odi il Maestro perché non sei stato ancora capace di sottomettere totalmente qualcuno. Io voglio darti questa possibilità. Voglio metterti di fronte al tuo lato oscuro. Perché so che lo abbraccerai.» Mi ha detto Fernando. Darth Vader.
Guerre stellari era una menzogna. Una menzogna anni ottanta. E io ci avevo creduto di essere il cavaliere Jedi. Di essere un Padawan. Di essere Luke Skywalker.
E invece no. Ognuno incontra il suo lato oscuro e lo abbraccia. Prima o poi.
E io l’ho abbracciato il mio lato oscuro.
Fernando si è limitato a tirare fuori quello che da tempo era già sul piatto.
Vaffanculo George Lucas.
«Chi non vuole vedere l’immagine nello specchio è un ingenuo o un ipocrita. E l’ingenuità tu dovresti averla persa durante l’adolescenza.» Mi ha detto Fernando/Darth Vader.
Ora sono diventato un uomo. Abbastanza uomo. E forse anche un po’ pitbull.
Ora accetto l’idea che si tratta solo di lavoro. Che c’è un mercato che ha bisogno di un prodotto. Un mercato di gente che vuole credere. Che vuole essere presa per mano. Che vuole essere presa in giro.
Accetto l’idea che o sono come loro o sono il loro spacciatore di menzogne.
Quel prodotto posso propinarlo senza grande sforzo.
Spacciatore di menzogne. Invece che uno scrittore, un truffatore. I miei sogni medio borghesi di sinistra. I miei sogni di giustizia. La mia vocazione. Raccontare storie.
Ma in fondo è poi tanto diverso raccontare panzane per un mafioso?
Dunque mi limito a fare il mio lavoro. E scrivo nel tempo libero. Perché ho molto tempo libero.
Così penso alla mia fuga. Alla fuga da quel mondo in cui ero nato e cresciuto. In quella Roma di sinistra patinata. La fuga da. Non la fuga verso.

A volte nel tempo libero aiuto Doña Tota a fare pacchetti nel suo negozio di dolciumi, vicino casa.
Vivo poco fuori La Paz, capitale della Baja California Sur.
Intorno a me: il deserto e il mare.
Che poi non è vero che è deserto. È pieno di piante cactacee, succulente. Qui poi fanno un ottimo formaggio di capra. È il posto che più di tutti mi dà un senso di vastità. Più di Città del Messico.
La mia casa è scarna. Pochi mobili. Tre amache appese al soffitto. Una cucina grande.
Il mio Mac. La macchina fotografica. Libri.
Ho portato con me anche Vittorio. Ma sembra non gradire il deserto.
Sono tre giorni che fa l’offeso e fa finta di essere una statua di sale.
Ho un bel giardino di cactus che dà sul mare.
Qui una volta all’anno arrivano le balene grigie che vengono a svernare e a partorire.
Succede a febbraio.
Di notte si sente il canto delle balene.
Respiro.

diario da Port-au-Prince. internazionalismo, rivo-lu-zio-ne

Dopo una settimana a Port-au-Prince ho visto e sentito tante cose. Non me la sento ancora di buttare giù un buon diario, ma intanto voglio fissare alcune osservazioni.

Vorrei anticipare che oggi ho capito finalmente il significato profondo della parola internazionalismo. Oggi ho visto coi miei occhi cosa fanno i medici e gli operatori sanitari della Brigata medica internazionalista di Cuba.

E stride nella mia mente l’immediata comparazione che sorge naturale come un vibrione nell’acqua infetta. Comparo i medici cubani, che in mille stanno in questo paese devastato a soccorrere gli haitiani da un po’ tutte le sciagure che uno si possa immaginare, proveniendo da Cuba, che forse non tutti sanno che è un paese che non è nel G8, e che come affermano certi spagnoli è in crisi nera. I miei vicini di casa a Port-au-Prince invece lavorano in una sconosciuta ong tedesco canadese, che spende circa 10-15mila dollari al mese per mantenere un solo “cooperante” in una villa con piscina, giardino grande come un campo di calcio, guardie private, una schiera di cuoche, servi, maggiordomi, autisti, tricchettracche e bombe a mano. Loro aiutano i ciechi e gli handicappati.

Aiutano i ciechi loro. E vivono da nuovi coloni in un paese ridotto alla miseria più nera. E loro sono cooperanti. E si lamentano. E passano il tempo a spettegolare sulle altre ONG. Del resto è quello che fanno anche i cooperanti italiani, che devono spendere milioni di euro consegnati loro da milioni di italiani preoccupati per “i poveri negri colpiti dal terremoto” e in molti casi si trovano impreparati e pressoché inutili sul territorio haitiano. I soldi degli italiani, per come la vedo io, era meglio se se li mettevano al pizzo per comprare il panettone a natale.

Invece i cubani sono una macchina da guerra. Che con i soldi di questi stronzi tedesco canadesi ci manderebbero avanti un ospedale da campo in mezzo al campo. Ah, perché i cubani sono i soli, insieme agli altri “animali” di Medici Senza Frontiere, che raggiungono gli angoli più infognati e dimenticati da dio di questo paese coleroso e dimenticato da dio (chissà poi perché questo dio di Abramo ha deciso in maniera così arbitraria di accanirsi proprio su questo popolo e su questa terra non me lo so spiegare. io. non me lo so spiegare…).

Col loro zainetto, borraccia, sacco a pelo, tenda, sali e tabacchi i cubani sono pressoché inarrestabili, forti di una motivazione umanitaria e umanista che non ha pari.

Vengono educati a essere dei missionari laici dell’internazionalismo militante. E non è un modo di dire retorico. È esattamente quello che fanno. They mean it!! E bisogna vederli per capire come è commovente quello che fanno. E la cooperazione come business diventa una parodia. diventa una roba da fricchettoni o fighetti. Questi sono qui perché stanno costruendo il mondo migliore. Passano anni qua, senza tornare a casa, e senza avere un dio che li salva. È l’umanismo, il realismo, la passione politica. E ti fa commuovere davvero, circondati da cinismo e sufficienza.

Ecco. Volevo spendere due parole per Cuba e la sua idea umana e reale di rivoluzione. E so che molti storceranno il naso. Ma in finale sticazzi. Questo è il mio blog, e faccio come cazzo me pare.

¡Que viva la revolución!

diario da Chahuites. cavalcando la Bestia

In cima alla bestia ti ci devi arrampicare. Il tetto di lamiera scotta quando ci appoggi una mano sopra. L’aria è calda e umida e ti si appiccicano i vestiti addosso. Sul vagone io e Cutie ci sistemiamo insieme a un gruppo di honduregni che seguiamo da giorni. C’è Henry, che viveva in New Jersey, ha perso la moglie ed è stato deportato pochi mesi fa perché l’hanno beccato a guidare senza patente. E senza documenti migratori. Fila subito a casa tua, figlio di mignotta indocumentado, gli hanno detto, sì ma ho una bambina di un anno e mezzo. Cazzi tuoi. Ora monta la bestia.
C’è Cristian, che dall’Olancho, una zona rurale dell’Honduras, ha lasciato moglie e tre bambini e la sua lotta, perché lui era nella resistenza contro il colpo di stato che tutti hanno dimenticato. è nato nel paese a fianco a quello di Isis, il ragazzino a cui l’esercito del suo paese ha fatto saltare la testa il 5 luglio dell’anno scorso. Era al suo funerale. Pure io, gli dico, certo dice lui, mi ricordo, eravate un gruppetto di giornalisti. E ora me lo ritrovo qui a cercare di arrivare a nord. Perché i miei figli mica voglio farli crescere in quella merda, mica voglio farli crescere come degli sfigati.
Poi c’è Oscar. Lui questa strada l’ha già fatta poco tempo fa. Col figlio. Lo ha fatto passare dall’altro lato. Poi la border patrol li ha beccati. Oscar si è sparato 3 mesi di galera e poi è stato rimandato affanculo a casa sua. E mo lui ci riprova, vediamo chi c’ha più tigna.

Al tramonto viaggiamo col vento in poppa alla mirabolante velocità di 23 kmh su questa macchina infernale. Dice, 23 chilometri che cazzo sono? fai prima a piedi. Ecco, pare che se provi a buttarti da un treno in corsa a 23 chilometri orari ci sono ottime possibilità che ti frantumi sulle roccette che si stagliano ai lati della ferrovia. Poi pare anche che se ti ritrovi nel tuo vagone un paio di mara salvatruchas, quei simpaticoni con i numeri tatuati sulla faccia, è frequente che ti portino via tutto e ti sparino qualche pallottola in faccia, se non fai il bravo. Sempre perché col cazzo che ti butti da un treno in corsa. pure se corre come un ciccione in salita.

Sul nostro vagone di prima classe viaggia anche il nostro Virgilio, Juan de Dios, che come ricordavo in un altro post, è un pachiderma di 200 chili di esperienza. Ce l’hanno caricato a forza qua sopra, un po’ perché i migranti sono solidali, un po’ perché faceva riderissimo vedere il panzone arrampicarsi sulla bestia, sudando e bestemmiando il suo stesso nome, che contiene un dio sadico e perverso.

Nell’amenità del tramonto qualcuno fa comparire un mazzo di carte. E daje de canasta! Una partita a carte tra contadini dell’entroterra honduregno consiste in gridare fortissimo, minacciarsi di morte e insultare le rispettive madri ripetutamente, fino ad esaurimento carte. Sul tetto della bestia fa più effetto perché rischi pure di cadere.

Fabio è legato a una corda che abbiamo assicurato al vagone, per poter scattare le magiche foto che illustreranno riviste patinate. Il ciccione si accascia sulla lamiera con aria compiaciuta. Io chiacchiero con Henry e mi giro sigarette che vanno a ruba tra questi signori.

Siamo davvero un’allegra combriccola di goliardi. Peccato che questi amici stanno rischiando il culo per arrivare a quella cazzo di frontiera che li separa dal SOGNO.

Sulle ali del vento maciniamo chilometri. Dopo tre ore abbiamo fatto l’equivalente di Roma-Ostia e ci accingiamo a entrare nel rigoglioso stato di Oaxaca. Il buio ci abbraccia e ci sentiamo bene. Cazzo finalmente abbiamo preso sto treno!

Poi la bestia rallenta. Dice, più piano di così? Sì. Ancora più piano. Pianissimo, quasi a passo d’uomo. La gente si azzitta. Smette di cazzeggiare. Santoddio, state migrando, mica andate in gita scolastica. Un po’ di serietà!

I primi lampi aprono squarci nel buio. Arrivano dai due lati della ferrovia. Insieme a grida scomposte. Vedi Henry aggrapparsi alla corda che era stata di Cutie e sparire nel buio. Vedi Cristian lanciarsi giù dalla scaletta come un orso che scende da un albero. Oscar non lo vedi proprio. Quel paraculo da mo che si è dato. Liquefatto. Evaporato. Siamo in mezzo a un operativo. Quegli stronzi stanno assaltando il treno! Sono cazzi nostri.

(fine prima parte)

diario da Port au Prince. occupazione (o le ali della libertà).

Dell’approccio creativo dei marines alle tragedie umanitarie si è già detto. Quello su cui vorrei tornare è l’immagine che si è data del popolo haitiano negli ultimi giorni. Gente che fa sommosse, che tira fuori i machete, che minaccia la sicurezza propria e altrui. Bestie di satana che si avventano sui poveri stranieri che cercano di aiutarli. Tanto da giustificare una presenza molto massiccia di militi prevalentemente della U.S. Army.

E dunque Haiti è occupata. Mentre le Nazioni Unite fanno briefing uno appresso all’altro, ti ritrovi soldati su mezzi blindati che girano per le strade di Port au Prince come se si trattasse di Saigon, fucili spianati e sguardo molto maschio e molto cattivo.

La gente da parte sua se li rimira come se fossero matti. Ma che cazzo andate in giro armati così?

Annosa questione. Ma ste famose sommosse popolari ci sono state? Dunque per rispondere facciamo un po’ di cucina. Prendiamo centinaia di migliaia di persone rimaste senza nulla (mi pare che il concetto, a questo punto, sia abbastanza chiaro) che stentano a trovare del cibo e dell’acqua. Aggiungiamo frustrazione e risentimento verso una comunità internazionale che non è in grado di organizzare la distribuzione dei viveri che quotidianamente atterrano all’aeroporto e rimangono stipati lì. A parte aggreghiamo i marines che come tutti sanno sono esperti di distribuzione di aiuti umanitari, che senza avvertire nessuno né coordinarsi ad esempio col World Food Programme decidono di lanciare a pioggia col paracadute a casaccio (tecnicamente a cazzo di cane) razioni k, cioè quei simpatici pacchettini con dentro sorprese alimentari, senza alcun criterio. Se io sono un capo banda armata e mi vedo piovere viveri dal cielo senza nessun controllo è ovvio che mi lancio a pesce ad arraffare, e se posso a rubare anche ai miei compatrioti. E dunque lo faccio. E minaccio gli altri di morte. E se non si tolgono dalle palle li faccio proprio fuori.

Ripetere l’operazione finché non si scatena una sommossa e servire a temperatura ambiente.

Viaggiando come i cani sulla fuoriserie di Vi non ci è capitato mai di vedere le violenze raccontate e gridate dai media di tutto il mondo. Parlando con gli operatori sul campo, con i volontari, con i gendarmi francesi, che pattugliano le strade con quei loro adorabili vestitini celesti, nessuno ha confermato l’efferatezza delle violenze. Non più di quanto ci si possa aspettare in una situazione del genere.

Ma se non c’è violenza sommossa, spargimento di sangue, come si giustificano le migliaia di soldati? Come si giustifica il colpo di mano dell’esercito?

Per capirlo io e Sciacallo cogliamo l’occasione al volo e ci facciamo invitare su un Seahawke, un elicottero della U.S. Navy, che tiene parcheggiate le portaerei al largo della città.

Dopo due ore a farsi esplodere le orecchie all’aeroporto tra elicotteri cargo militari, hercules, aerei civili della American Airlines, è il nostro turno di salire su questo attrezzo cafonissimo e molto maschio.

Il marine che si occupa del rapporto coi giornalisti è amabilissimo, sorride, fa battute. Cesare Lombroso lo avrebbe sicuramente tacciato di criminale a giudicare dai suoi tratti somatici leggermente “ottusi”, ma a noi ce fa tanto ride, che sagoma!

Dunque i due moschettieri si preparano a un pomeriggio da embedded. scattiamo foto ai robusti soldatini che davanti a telecamere, instancabili, caricano razioni k e bottigliette d’acqua sui mirabolanti seahawkes che vanno e vengono sul pratino dell’aeroporto. Ci tengono proprio a far vedere che sono indispensabili.

Arriva il nostro turno dopo un’attesa interminabile. Ci forniscono di due caschi con copriorecchie e saltiamo agilmente sui potenti mezzi dell’aviazione americana. Stipati in mezzo a decine di scatoloni di cibarie che, a quanto dicono i marines, devono servire a sfamare 10mila persone per 5 giorni. me cojoni!

si sorvolano i paesaggi haitiani per 15 minuti. Montagne semi deserte, fino ad arrivare a Jacmel, a sud di Port au Prince. Va detto che sti elicotteri dentro so tutti sgarrupati e mezzo sfonnati, non è che stiamo proprio viaggiando con la tecnologia di punta. Ma in ogni caso per dei giovani freelance italiani, temporaneamente embedded, che devono essere sedotti, fa comunque la sua porca figura.

Si atterra. Si scarica la merce. Foto ricordo. Poi risalite al volo se no vi lasciamo qua. E risaliamo… Di nuovo in volo su valli e colline. Finché non arriva l’imprevisto. Regà, scusate, dice il baldo soldato, c’è finita la benzina, tocca annà a fa rifornimento un attimo alla porteaerei. Come finita la benzina? E noi qua sopra a fa gli splendidi senza benzina? E annamo su sta portaerei, che te devo dì? Dopo il rifornimento, si riparte veloci come il fulmine verso Port au Prince. Ma prima a sorpresa sorvoliamo un quartiere che dà sul mare. E da qui su lo Sciacallo riesce a scattare delle foto di centinaia di poracci che si accalcano su cinque navi stile carrette del mare di Lampedusa. Più altre centinaia di persone ammucchiate a riva in attesa di salire a bordo. E dove cazzo vanno questi? Non mi dire che stanno cercando di scappare via mare? Ma siete pazzi? Gli americani hanno detto proprio specificamente, noi ve volemo tanto bene, aiuti, tricchettracche, cotillon, però nun dovete cacà er cazzo. Rimanete qua, no che venite tutti a Miami a fa come ve pare!

Invece quelli proprio se ne vanno. Ce provano. Perché se è vero che il presidente del Senegal ha offerto un pezzo del suo paese ai fratelli haitiani per farli tornare in Africa, gli Stati Uniti stanno lì appizzati per rimpatriarli tutti.

Finito il giro ringraziamo per la gentilezza e ci ributtiamo nel marasma, felici di aver visto all’opera i veri buoni, felici di aver provato l’ebbrezza di essere embedded, ma un po’ con la sensazione sgradevole di aver vissuto sulla nostra pelle il concetto di “media asserviti”. Mo perché noi siamo vagabondi e randagi e non ci comprano co du noccioline, e quindi racconteremo per bene che porcate fanno gli americani da ste parti, però sono certo che altri si sono fatti fregare co du gomme da masticare e no specchietto.

Haiti di notte direi che è buia e di bello c’è che si vede un oceano di stelle sulla testa. Sdraiato su un cartone sul prato della base ONU, cena scroccata, con una copertina aspetto che arrivi il sonno. Qua non si sogna.

Diario dalla periferia dell’impero. Lacrime e sangue.

Uno cerca di farsi i cazzi suoi. Davvero. Stare a Roma per passare un po’ di giorni nell’amatamadrepatria. Invece poi quel nano è così invasivo.

Ti si ficca in casa pure se non vuoi. Un uomo ha sfasciato in faccia a Berlusconi una statuetta del duomodimilano. Lo sappiamo tutti. E quanti di noi hanno gioito? Siamo tutti dei violenti antidemocratici, perché la violenza va stigmatizzata. Stigmatizzata. È un gesto da censurare. Inaccettabile. Vergognoso per un paese civile. Aberrante. tutte parole pronunciate maiuscole, se ci fate caso. Tutti come un sol’uomo si ergono. “ammucchiati in discesa, a difesa della loro celebrazione”.

La verità è che questa storia della stigmatizzazione della violenza ha un po’ rotto il cazzo. Mentre metà della popolazione di questo paese si rallegra che un pazzo abbia fatto quello che tutti avremmo voluto di fare, i mezzi di comunicazione democratici ci inondano di precetti morali. Gli stessi, a partire dal Berlusconi, che quotidianamente in questo paese violentano, stuprano, sparano, ammazzano, in senso letterale e in senso lato, che schiacciano, fanno soprusi, corrompono, sono corrotti, adesso ci insegnano che la violenza di un uomo che a viso scoperto dà una sveglia, da uomo a uomo, a un pezzo di merda che di questo paese ha fatto carne di porco, è una vigliaccata, va stigmatizzata.

Dice certo in un paese democratico i conflitti non si risolvono a cazzotti e a duomate in faccia. Intanto… ma quale cazzo di paese democratico? E poi il messaggio è oltremodo educativo. Stai in campana, psiconano del cazzo. Non puoi fare sempre come ti pare, perché grazie a dio il mondo è pieno di matti, e se la maggioranza degli italiani sono capre, basta un solo matto.

Parafrasando la meravigliosa Plastilina, ti sei portato a casa centinaia di troie, che avrebbero potuto far brillare tutta la villa di arcore, nascondendosi quintalate di tritolo fra le natiche. Devi stare attento alle cazzate che fai, misterprèsident!

Detto questo, brindiamo. Senza alcun dubbio questo piccolo sfogo del Tartaglia servirà a loro a reprimere ancora di più, gli servirà a continuare a incularci a sangue. Sarà controproducente, inutile, servirà a rendere lo stronzo un martire.

In ogni caso, che bella scena la sua faccia di plastica, per una volta, piena di quello che dovrebbe portare più spesso: lacrime e sangue.

diario da Città del Messico. Ermita o dell’uomo dell’ascensore

Iztapalapa ha scombussolato un po’ le vicende di un emigrante. Sono passate le settimane, la città continua a macinare i giorni e io mi assesto.

È di notte che entro nell’edificio Ermita, su Avenida Revolución. Uno degli edifici più belli del Distrito Federal. Un palazzo di architettura premoderna disegnato dall’architetto Juan Segura nel 1929. Entrarci dentro equivale a venire scaraventati in un’altra epoca, quella della belle époque messicana. un ampio portone di metallo, il palazzo bianco. Imponente e ironico. Ma di notte questo non si nota molto. Ma poi una volta dentro. Un ascensore aspetta al pian terreno. Dentro l’ascensore un uomo. Con gli occhiali quadrati e la barba di una settimana. L’addetto all’ascensore. C’è una sedia a sdraio nell’ascensore. la manovella che viene manovrata per far muovere il montacarichi d’epoca. Appesa alla manovella una radiolina che mantiene sveglio l’anziano guardiano. Sopra la sua testa, sopra la tastiera dei bottoni, un altarino della vergine di Guadalupe, con due candele accese.

L’uomo è il guardiano dell’ascensore. Lui vive lì. Il suo lavoro consiste nel trasportare la gente da un piano all’altro, aprire le porte meccaniche, e garantire che il vecchio ascensore si mantenga funzionante.

Io sono sconvolto, ammirato, perplesso. Un uomo vive in un ascensore d’epoca, in un palazzo d’epoca, con la sua radio, la sua Virgen, le parole crociate. L’uomo bofonchia. Si addorme in piedi. Passa il piano dove devo scendere. Torna indietro con la manovella.

Sono giorni di riflessione. Di pace. Di cose semplici. Come far muovere un vecchio ascensore. Come mangiare una pizza con gli amici. È ritrovare il tempo umano e il ritmo adatto nella città del caos. Ci ho messo mesi, e ora sto prendendo il ritmo. Fin qui tutto bene.

E questo è tutto.

diario da Zihuatanejo. finalmente il mare

dalla mia terrazza
dalla mia terrazza

Ed ecco qua che dopo un po’ di giorni di riflessione ricompare il radical shock. Stavolta per rompere un po’ le palle a tutti coloro che sono costretti in una città. Dopo più di un anno di assenza, il Vostro rimette piede su una spiaggia e rivede il mare.

La sensazione di uscire dalla Città del Surrealismo è quella di togliere la testa da dentro una busta di plastica dopo parecchi minuti di asfissia.

La ricetta è semplice. Si dà fondo a gran parte dei propri risparmi, si prenota un aereo che in 45 minuti porta sulla costa del Pacifico, nella baia di Zihuatanejo, a nord di Acapulco, per capirsi. Si mischia con una bella prenotazione in un hotel a picco sul mare con terrazza, amache, buganville, ventilatore, wifi, tricchettracche e bombe a mano. Da vero pappone.

Si shakera fino ad ottenere un pomeriggio passato in spiaggia su un lettino sotto una palapa, con una birra ghiacciata nella destra e un romanzo poliziesco di un noto autore svedese che va per la maggiore nella sinistra.

Servire a temperatura ambiente.

Mi sento un vero pappone.

Nel pomeriggio il mio compare ha avvistato un coccodrillo di tre metri sulla spiaggia, ma io ero intento a farmi una pennica sotto il sole, per cui credo che dovrò aspettare domani per poter vivere queste emozionanti avventure estive di inizio ottobre.

Il godimento sta nel fatto che la gran parte di chi mi legge ora si trova all’inizio dell’autunno, in Europa, a sgobbare. Questa piccola vendetta deriva solo dal fatto che il sottoscritto ha passato l’estate appresso a golpisti in centroamerica o sotto la pioggia battente di una Città del Messico opprimente, mentre tutti godevano delle meraviglie del mediterraneo e dell’estate romana.

Lungo la spiaggia o direttamente in mare poi si viene raggiunti da sordidi figuri che di lavoro ti offrono qualsiasi cosa: allora abbiamo la barca. domani possiamo partire alle sette di mattina (ALLE SETTE DI MATTINA IN VACANZA? MA TU SEI PAZZO??) per andare a pescare. poi se ti va possiamo fare snorkeling. Ti garantisco pesca sicura. tonni, merlin. quello che ti pare. Oh poi se ti piace abbiamo dell’ottima marijuana. ti piace la marijuana? te sei uno che legge. bravo. ti ho visto che leggi. ti rilassi. una bella canna non ti va? poi abbiamo delle belle ragazze. come le vuoi? con 5000 pesos ti porto delle femmine che te le ricordi. Oh, ma se ti piacciono i ragazzi abbiamo anche quelli. basta che mi fai un fischio. tanto sto qua. c’ho la moto d’acqua, il gommone, il paracadute, il bananone, le femmine, la droga, il pesce, cena sulla spiaggia.

Stordito torno alla mia birra e mi rimetto a leggere. Oggi nun me va proprio de fa un cazzo. Me stanco pure a pensare a tutte ste possibilità.

L’aria è dolce. Il tramonto sul golfo è di quelli che vorresti condividere con tutte le donne della tua vita insieme. Invece me lo tengo tutto per me. Anzi ne metto un pezzetto su sto blog.

Mi preparo a questa settimana con l’usuale spirito critico che contraddistigue questo blog. E terrò informati tutti.

E pensando a quell’infelice di Vittorio, chiuso in una stanza in un appartamento a Città del Messico, tra smog e pioggia, a due isolati dalla Plaza de Toros il mio godimento arriva alle stelle. Gli mando sms ogni mezz’ora solo per farlo rotolare nella sua inettitudine.

Salute a tutti. Belli, e quel signore!

diario da Città del Messico. el grito

15 de septiembre
15 de septiembre

La metro mi rigurgita fuori alla femrata di Bellas Artes insieme a un conato di uomini e donne con le facce pitturate di tricolore.

Mi ritrovo sull’Eje central alle sette di sera, piove da ore e non ha nessuna intenzione di smettere. Nonostante questo mandrie di folla si preparano alla festa. Prendo Avenida Francisco I. Madero, che mi porta dal palazzo di Bellas Artes dritto dritto al Zócalo.

Oggi è il quince de septiembre. Oggi è il giorno del Grito.

Il 15 settembre 1810, al suono della campana del prete Miguel Hidalgo, la borghesia della colonia mesoamericana sferrava l’attacco alla corona spagnola. L’indipendenza arrivò 11 anni dopo. Undici anni di guerra che consentirono al Messico di liberarsi dal giogo dei gachupines.

Sarebbe bello credere che dopo 199 anni il collare è stato spezzato. Sarebbe bello pensare che questo paese non fosse ancora al guinzaglio. Ma accontentiamoci. Almeno adesso i messicani possono urlare nelle piazze il loro orgoglio nazionalista.

Per arrivare al Zócalo devo attraversare controlli della polizia dispiegata su tutte le arterie che portano alla piazza. Metal detector, svuotamento tasche di accendini, cellulare, chiavi, monete. Tutto sotto la pioggia battente che ci accompagna.

La piazza è gremita. C’è aria di festa, ma non c’è grosso entusiasmo. La crisi si fa sentire e la gente non compra le migliaia di puttanate che gli ambulanti cercano di rifilarti ogni due metri.

C’è una signora che porta a spasso figli e nipoti. Le chiedo se è venuta qui per sentire il suo presidente nano che grida Viva México. Lei mi guarda con la faccia sorridente e mi dice, ma pensi che ce ne freghi qualcosa di Calderon? Noi veniamo qui per dimenticare per un giorno tutti i nostri problemi. Altro che grito.

Mi aggiro per la piazza in cerca di scatti-ricordo. Vedo facce che cercano in tutti i modi di grattare alla piazza un po’ di allegria. La pioggia non aiuta.

Esco dalla bolgia. Ripercorro tutta l’Avenida Francisco I. Madero fino all’Alameda. Un altro palco. Un altro grito. C’è Jesusa Rodriguez, un’attrice satirica fenomenale, che tenta di coinvolgere la folla a partecipare. Ci sono gruppi di son che suonano insieme a cantanti rap. È l’anti grito di López Obrador, quello che nel 2006 vinse le elezioni ma che  grazie a una frode elettorale grande quanto Città del Messico fu scippato della presidenza da parte del nano Calderon.

Ogni anno dal 2006 grida Viva México anche lui, da “presidente legítimo” del paese.

Due presidenti. Due gritos. Due piazze. Un paese in crisi nera.

Continuo il mio baño de pueblo sotto il diluvio immerso nella retorica nazionalista, mentre gruppi di ragazzini si sparano in faccia schiuma e coriandoli. Un carnevale istituzionale. Un dies inversus che rinforza lo spirito e fa credere alla gente di vivere in un grande paese di rivoluzioni e di onore.

Vedo solo tanta voglia di crederci.

Finisco la serata al ballo dei 25 anni della Jornada a bere tequila e a ballare sulle note di grandi successi di cumbia e duranguera.

L’anno prossimo sono 200 anni di indipendenza e 100 di rivoluzione. Speriamo che lo spirito degli eroi di questo grande paese intervenga e porti consiglio.

Vittorio si è addobbato le corna con bandierine col tricolore. Povero ottuso.

¡Que Viva México, Cabrones!

diario da Città del Messico. Io sono El Santo.

el Enmascarado de plata
el Enmascarado de plata

La giornata di ieri poteva sembrare un qualsiasi venerdì a Città del Messico. Un venerdì barzotto direbbe qualcuno. Per esempio io.

Poi all’improvviso si fanno le 7 di sera e raggiungo Silvia e i suoi amici in una cantina del centro storico. Quattro chiacchiere e qualche tequila. Continua ad essere venerdì. Nove e mezza, Arena México per il rito della lucha libre nel suo tempio nazionalpopolare. C’è un amico francese di Silvia, Roman, entusiasta degli energumeni mascherati che ogni settimana affascinano grandi e piccini con uno spettacolo che i più non riescono ad apprezzare. C’è sempre qualche ottuso che commenta sì vabbè però si vede troppo che non fanno davvero a botte, cioè si capisce che è per finta. In questi casi purtroppo è difficile avere un’interazione civile. Ma tant’è.

Dunque finita la lucha ci buttiamo tra le bancarelle che vendono maschere, magliette, pupazzi e tutto ciò che può avere impressa la faccia enmascarada dei nostri eroi.

Ovviamente non resisto e mi compro la maschera del Santo.

Ora. Per chi non lo sapesse El Santo non è stato solo il più importante luchador, insieme a Blue Demon, della storia messicana. Esso è un eroe. Un’icona immortale. Un mito. In questo paese che idolatra divinità ed eroi mascherati El Santo è più o meno come Maradona per i napoletani, o come Elvis per… per i fanatici di Elvis.

A partire dagli anni cinquanta El Santo, conosciuto anche come el enmascarado de plata, comincia a diventare un eroe grazie a fumetti e film che lo hanno come protagonista. In tutta la sua carriera nessuno è mai riuscito a togliergli la maschera in combattimento, nessuno lo ha mai visto in faccia. Da qui è nata la leggenda per cui il giorno in cui gli fosse stata tolta la maschera sarebbe morto. Nel 1984 el Enmascarado de plata partecipa a un programma televisivo e il presentatore riesce nell’impresa. Gli fa mostrare al pubblico un pezzetto della faccia. Dopo una settimana muore di infarto. E il mito prosegue e si ingrossa. Si dice che sia stato sepolto con la sua maschera d’argento.

Ieri sera mi presento con i miei amici in un locale della colonia Roma. Prima di entrare, per gioco, indosso la sacra maschera del Santo. Entro.

Da qui la serata cambia. Inaspettatamente tutto il locale esplode in grida e applausi. Dopo 30 secondi sono il re della serata. La follia. Gente che grida SantoSantoSantoSanto mi fanno ballare in mezzo a cerchi vertiginosi. Mi offrono da bere. Tutte le ragazze del locale vogliono ballare con me. Anzi non con me. Con El Santo. I loro fidanzati mi chiedono se posso farmi delle foto con loro. All’improvviso vengo preso per le gambe e sollevato come la coppa dei campioni. Sono stravolto. Non riesco a credere a quello che mi succede. Duecento persone impazzite che coinvolgono uno sconosciuto in modo forsennato peché indossa la mascara de plata. Mi fanno salire su uno sgabello e mi costringono a ballare. Per tutto il tempo in cui rimango nel locale gran pacche sulle spalle, sorrisi, abbracci commossi.

Io non posso più togliermi la maschera. Non sono più io. Non riguarda più me. In questo momento io presto il mio corpo allo spirito del Santo. E ho il dovere di onorare la maschera che indosso di fronte a tutta questa gente che la rispetta e la venera. Per un momento ho capito come deve sentirsi Francesco Totti quando entra in una trattoria di Testaccio. Per poche ore ho sentito nel mio corpo la concretezza dell’amore di un popolo verso un suo eroe. Un eroe mascherato. Un giustiziere. Un’icona positiva. Popolare.

Uscito dal locale, solo dietro l’angolo tolgo la maschera per prendere aria e un taxi. Per qualche istante temo che anch’io possa morire facendo quel gesto. Ma non accade. Evidentemente.

Probabilmente questa è l’esperienza più surreale che mi sia successa a Città del Surrealismo.

Che lo spirito di Rodolfo Guzmán, conosciuto come El Santo, ci protegga tutti.