diario da Chahuites. cavalcando la Bestia (parte seconda)

E dunque inizia lo show. Gente che si lancia dal treno in corsa, nel buio della sera. Ombre che saltano verso l’ombra. Le grida, da terra, si fanno più vicine, finché il treno si ferma del tutto. La prima cosa che facciamo è buttarci a pancia sotto sul tetto del treno, hai visto mai che parta qualche proiettile e decida di piantarsi in mezzo alla fronte dei valorosi giornalisti frilènz. Le voci degli uomini incappucciati dicono cose tipo “figli di puttana scendete da quel cazzo di treno o vi ammazziamo tutti” e amenità simili.

Non si vede un cazzo a parte i lampi di luce sparati dalle torce dei nostri nuovi amici. Il paese è un po’ distante. Sul treno non c’è quasi più nessuno, tranne noi e un povero migrante ubriaco rimasto tramortito dall’alcol ingurgitato nelle ore di attesa ad Arriaga e steso bocconi a pochi metri da noi.

Sul tetto del treno si arrampicano un paio di incappucciati. Ora da vicino si riconosce la divisa. Si tratta della Polizia Federale. Da vicino vuol dire che uno degli agenti mascherati è salito sul nostro vagone e ora mentre noi mostriamo alla luce della sua potente torcia le nostre identificazioni di giornalisti, lui ci punta in faccia un M16, quei fucili ad alto potenziale che vanno tanto di moda da queste parti. E daje de insulti e minacce di morte. Noi, solidi sulle nostre posizioni non cediamo di un passo, puntando tutto sul fatto che evidentemente deve trattarsi di un’arma giocattolo e presto l’agente ci dirà che è tutto uno scherzo.

Nel frattempo di sotto hanno fermato un centinaio di nostri compagni di viaggio. Li hanno stesi su quattro file faccia a terra. Per essere più convincenti i trenta federali spintonano, alzano la voce, le mani, schiacciano le facce della gente nella polvere del suolo con i loro anfibi ben lucidati. Noi ora decidiamo che abbiamo fatto capire le nostre ragioni e allora possiamo anche acconsentire e scendere da questo treno.

A terra non c’è nessun rappresentante dell’ufficio migrazione. Il che rende automaticamente illegale questa operazione dei federali. Altro elemento che la rende illegale è il fatto che questi amabili tutori dell’ordine sparano un po’ per aria, cosa proibita. Ah e altra cosa che forse rende illegale l’operazione è il fatto che si mettono a rubare soldi ai migranti. Tutto quello che hanno. Sistematicamente, per poi lasciarli andare nella notte, in balia dei violentatori e assassini che si nascondono nel buio.

I migranti che rimangono in arresto sono quelli che, sfigati, non avevano una lira addosso. Sono 47, e verranno trasferiti, un’ora e mezza dopo, negli uffici di migrazione, da dove verranno rimpatriati nelle loro case di fango in centroamerica.

Noi siamo testimoni di questa messa in scena. Ci provano a minacciarci, a intimidirci, ma noi con l’aplomb che ci contraddistingue e forti del fatto che siamo europei e giornalisti e soprattutto bellocci, non ci scomponiamo.

Loro lo capiscono e dopo una mezz’ora di minacce decidono che non possono nulla contro la libertà di stampa e desistono.

Quello che ti resta addosso, piantato nel petto è la sensazione chiara di impotenza di fronte a un abuso. La normalità della logica del più forte, tanto comune e tanto opprimente.

Qualcuno dei coraggiosi e folli viaggiatori arriverà a realizzare quel sogno, costruire le case dei ricchi in California, in Oregon, in Carolina del Nord. Dimenticherà le difficoltà o ne farà tesoro. Ma ne arriveranno altri, ognuno dei migranti porta con sé la vita di tutti quelli che lo hanno preceduto e che lo seguiranno. Ogni presente di ogni migrante è la ripetizione di una storia fatta di miseria, orrore e sogni, e di attraversamento di frontiere.

diario da Chahuites. cavalcando la Bestia

In cima alla bestia ti ci devi arrampicare. Il tetto di lamiera scotta quando ci appoggi una mano sopra. L’aria è calda e umida e ti si appiccicano i vestiti addosso. Sul vagone io e Cutie ci sistemiamo insieme a un gruppo di honduregni che seguiamo da giorni. C’è Henry, che viveva in New Jersey, ha perso la moglie ed è stato deportato pochi mesi fa perché l’hanno beccato a guidare senza patente. E senza documenti migratori. Fila subito a casa tua, figlio di mignotta indocumentado, gli hanno detto, sì ma ho una bambina di un anno e mezzo. Cazzi tuoi. Ora monta la bestia.
C’è Cristian, che dall’Olancho, una zona rurale dell’Honduras, ha lasciato moglie e tre bambini e la sua lotta, perché lui era nella resistenza contro il colpo di stato che tutti hanno dimenticato. è nato nel paese a fianco a quello di Isis, il ragazzino a cui l’esercito del suo paese ha fatto saltare la testa il 5 luglio dell’anno scorso. Era al suo funerale. Pure io, gli dico, certo dice lui, mi ricordo, eravate un gruppetto di giornalisti. E ora me lo ritrovo qui a cercare di arrivare a nord. Perché i miei figli mica voglio farli crescere in quella merda, mica voglio farli crescere come degli sfigati.
Poi c’è Oscar. Lui questa strada l’ha già fatta poco tempo fa. Col figlio. Lo ha fatto passare dall’altro lato. Poi la border patrol li ha beccati. Oscar si è sparato 3 mesi di galera e poi è stato rimandato affanculo a casa sua. E mo lui ci riprova, vediamo chi c’ha più tigna.

Al tramonto viaggiamo col vento in poppa alla mirabolante velocità di 23 kmh su questa macchina infernale. Dice, 23 chilometri che cazzo sono? fai prima a piedi. Ecco, pare che se provi a buttarti da un treno in corsa a 23 chilometri orari ci sono ottime possibilità che ti frantumi sulle roccette che si stagliano ai lati della ferrovia. Poi pare anche che se ti ritrovi nel tuo vagone un paio di mara salvatruchas, quei simpaticoni con i numeri tatuati sulla faccia, è frequente che ti portino via tutto e ti sparino qualche pallottola in faccia, se non fai il bravo. Sempre perché col cazzo che ti butti da un treno in corsa. pure se corre come un ciccione in salita.

Sul nostro vagone di prima classe viaggia anche il nostro Virgilio, Juan de Dios, che come ricordavo in un altro post, è un pachiderma di 200 chili di esperienza. Ce l’hanno caricato a forza qua sopra, un po’ perché i migranti sono solidali, un po’ perché faceva riderissimo vedere il panzone arrampicarsi sulla bestia, sudando e bestemmiando il suo stesso nome, che contiene un dio sadico e perverso.

Nell’amenità del tramonto qualcuno fa comparire un mazzo di carte. E daje de canasta! Una partita a carte tra contadini dell’entroterra honduregno consiste in gridare fortissimo, minacciarsi di morte e insultare le rispettive madri ripetutamente, fino ad esaurimento carte. Sul tetto della bestia fa più effetto perché rischi pure di cadere.

Fabio è legato a una corda che abbiamo assicurato al vagone, per poter scattare le magiche foto che illustreranno riviste patinate. Il ciccione si accascia sulla lamiera con aria compiaciuta. Io chiacchiero con Henry e mi giro sigarette che vanno a ruba tra questi signori.

Siamo davvero un’allegra combriccola di goliardi. Peccato che questi amici stanno rischiando il culo per arrivare a quella cazzo di frontiera che li separa dal SOGNO.

Sulle ali del vento maciniamo chilometri. Dopo tre ore abbiamo fatto l’equivalente di Roma-Ostia e ci accingiamo a entrare nel rigoglioso stato di Oaxaca. Il buio ci abbraccia e ci sentiamo bene. Cazzo finalmente abbiamo preso sto treno!

Poi la bestia rallenta. Dice, più piano di così? Sì. Ancora più piano. Pianissimo, quasi a passo d’uomo. La gente si azzitta. Smette di cazzeggiare. Santoddio, state migrando, mica andate in gita scolastica. Un po’ di serietà!

I primi lampi aprono squarci nel buio. Arrivano dai due lati della ferrovia. Insieme a grida scomposte. Vedi Henry aggrapparsi alla corda che era stata di Cutie e sparire nel buio. Vedi Cristian lanciarsi giù dalla scaletta come un orso che scende da un albero. Oscar non lo vedi proprio. Quel paraculo da mo che si è dato. Liquefatto. Evaporato. Siamo in mezzo a un operativo. Quegli stronzi stanno assaltando il treno! Sono cazzi nostri.

(fine prima parte)