diario da Città del Messico. el grito

15 de septiembre
15 de septiembre

La metro mi rigurgita fuori alla femrata di Bellas Artes insieme a un conato di uomini e donne con le facce pitturate di tricolore.

Mi ritrovo sull’Eje central alle sette di sera, piove da ore e non ha nessuna intenzione di smettere. Nonostante questo mandrie di folla si preparano alla festa. Prendo Avenida Francisco I. Madero, che mi porta dal palazzo di Bellas Artes dritto dritto al Zócalo.

Oggi è il quince de septiembre. Oggi è il giorno del Grito.

Il 15 settembre 1810, al suono della campana del prete Miguel Hidalgo, la borghesia della colonia mesoamericana sferrava l’attacco alla corona spagnola. L’indipendenza arrivò 11 anni dopo. Undici anni di guerra che consentirono al Messico di liberarsi dal giogo dei gachupines.

Sarebbe bello credere che dopo 199 anni il collare è stato spezzato. Sarebbe bello pensare che questo paese non fosse ancora al guinzaglio. Ma accontentiamoci. Almeno adesso i messicani possono urlare nelle piazze il loro orgoglio nazionalista.

Per arrivare al Zócalo devo attraversare controlli della polizia dispiegata su tutte le arterie che portano alla piazza. Metal detector, svuotamento tasche di accendini, cellulare, chiavi, monete. Tutto sotto la pioggia battente che ci accompagna.

La piazza è gremita. C’è aria di festa, ma non c’è grosso entusiasmo. La crisi si fa sentire e la gente non compra le migliaia di puttanate che gli ambulanti cercano di rifilarti ogni due metri.

C’è una signora che porta a spasso figli e nipoti. Le chiedo se è venuta qui per sentire il suo presidente nano che grida Viva México. Lei mi guarda con la faccia sorridente e mi dice, ma pensi che ce ne freghi qualcosa di Calderon? Noi veniamo qui per dimenticare per un giorno tutti i nostri problemi. Altro che grito.

Mi aggiro per la piazza in cerca di scatti-ricordo. Vedo facce che cercano in tutti i modi di grattare alla piazza un po’ di allegria. La pioggia non aiuta.

Esco dalla bolgia. Ripercorro tutta l’Avenida Francisco I. Madero fino all’Alameda. Un altro palco. Un altro grito. C’è Jesusa Rodriguez, un’attrice satirica fenomenale, che tenta di coinvolgere la folla a partecipare. Ci sono gruppi di son che suonano insieme a cantanti rap. È l’anti grito di López Obrador, quello che nel 2006 vinse le elezioni ma che  grazie a una frode elettorale grande quanto Città del Messico fu scippato della presidenza da parte del nano Calderon.

Ogni anno dal 2006 grida Viva México anche lui, da “presidente legítimo” del paese.

Due presidenti. Due gritos. Due piazze. Un paese in crisi nera.

Continuo il mio baño de pueblo sotto il diluvio immerso nella retorica nazionalista, mentre gruppi di ragazzini si sparano in faccia schiuma e coriandoli. Un carnevale istituzionale. Un dies inversus che rinforza lo spirito e fa credere alla gente di vivere in un grande paese di rivoluzioni e di onore.

Vedo solo tanta voglia di crederci.

Finisco la serata al ballo dei 25 anni della Jornada a bere tequila e a ballare sulle note di grandi successi di cumbia e duranguera.

L’anno prossimo sono 200 anni di indipendenza e 100 di rivoluzione. Speriamo che lo spirito degli eroi di questo grande paese intervenga e porti consiglio.

Vittorio si è addobbato le corna con bandierine col tricolore. Povero ottuso.

¡Que Viva México, Cabrones!