Radical Shock. Una storia sinistra. [su Carmillaonline.com]

Alla Causa! (e all’Effetto)
Alle donne della mia vita

Commensalismo
Relazione simbiotica tra due specie in cui una delle due risulta beneficiata, senza danneggiare né beneficiare l’altra.
Mutualità
Relazione simbiotica tra due specie nella quale entrambe vengono beneficiate.
Parassitismo
Relazione simbiotica tra due specie in cui una risulta beneficiata e l’altra danneggiata.
Simbiosi
Rapporto di associazione permanente tra due organismi di specie diverse, in cui almeno uno dei due ottiene un beneficio (mutualità), un danno (parassitismo) o rimane indifferente (commensalismo).
(Enciclopedia Britannica per ragazzi)

«Nutro una morbosa attrazione nei confronti delle donne disperate; mi lascio commuovere dalle loro disgrazie e finisco per schierarmi dalla loro parte.»
«Dalla parte delle donne?»
«No. Delle loro disgrazie…»

(Jaime Avilés)

«Occorre essere attenti per essere padroni di se stessi»
(Consorzio Suonatori Indipendenti)

Capitolo Uno. Oroscopo.

La mia finestra si apre sul cimitero del Verano.
Sotto di me il traffico si è svegliato rabbioso dall’alba.
C’è puzza di asfalto bagnato. E afa.
Si prospetta una giornata di sudore appiccicaticcio addosso.
Un posacenere stracolmo di mozziconi e la bottiglia vuota di chinotto mi ricordano la mia nottata.
Otto puntate di fila di Lost. Occhi rossi, senso di colpa strisciante. Mi viene da vomitare, come ogni mattina.
Prendete tempo per realizzare i progetti importanti e intanto cercate di convincere non solo con la razionalità ma anche con il buon senso e la percettività. Dinamici ed eclettici, saprete conquistare l’amore e la fortuna nell’attimo fugace del presente. DECISI.
Le stelle sono favorevoli.
Secondo Pina Catulli, astrologa del mio settimanale femminile di riferimento, ci sono ottimi segnali che tutto vada per il verso giusto. E io le credo.
Le devo credere perché da qualche settimana l’oroscopo delle riviste più rassicuranti è diventato il mio unico e incrollabile appiglio per non venire risucchiato dallo sconforto.
Ho bisogno di sentirmi dire che “è tempo di inizi”, esigo che quando i miei amici mi parlano usino termini estremi come “dinamico”, “percettività” o che facciano riferimento a situazioni idilliache come “rapporti densi di significato”. Sento il bisogno di credere che “l’amore coniuga mente e cuore” e pensare a “nuove love-story, in un crescendo ROSSINIANO”!!

Sono il figlio degli anni ’80. Ieri mio padre mi ha telefonato:
«Senti, comunque ti volevo dire due cose. La prima è che tua sorella ti cerca perché ha bisogno che la aiuti a montare la nuova libreria di Ikea…
Oh, poi ti ricordi quando da bambino volevi qualcosa e te la compravamo e ti abbiamo convinto che tutto è a alla tua portata e che nessun obiettivo ti è precluso? Che potevi realizzare qualsiasi sogno, che sei una persona speciale? Beh, non era vero un cazzo! Buona vita!»

Oggi ho quasi 30 anni. Sono un precario della vita. Sono precario da quando ho memoria. L’idea di un contratto a tempo indeterminato mi fa venire la psoriasi e le crisi di panico.
Da quando la mia ultima donna ha deciso di non voler più avere a che fare con me perché non mi stimava più, ho cominciato a pensare che forse per tutto questo tempo mi sono un po’ sopravvalutato.
Ma non con l’atteggiamento della vittima, di quello che si dice «beh allora non valgo un cazzo» ma poi sotto sotto pensa «in realtà sono un genio incompreso e amo sentirmi dire che sono fantastico».
No. È che proprio mi sopravvaluto.
La mia socializzazione primaria, nei ruggenti anni ’80 mi ha fatto sviluppare delle aspettative su me stesso che l’andazzo degli anni ’90 avrebbe dovuto già smorzare.
Invece cieco e sordo ai segnali che le stelle inviavano a me e a quelli come me ho deciso, arrogante, di rilanciare e sognare. Di considerarmi un eletto destinato a lasciare il segno.
Io sono il migliore.
E tutta questa presunzione mi ha accompagnato nella mia crescita malsana.
Mi immagino a volte, quando lascio vagare la mia mente dopo ore di alcol e serie televisive, prima di addormentarmi, il mio destino personificato in un nano sadico che alimenta le mie illusioni. Poi si nasconde dietro gli angoli della vita con una mazza in mano e mi vede arrivare e se la ride.
E pensa, sganasciandosi «Oddio che risate appena gira l’angolo e me lo inculo! Chissà che faccia che farà.»
E regolarmente giro gli angoli e il nano mi incula e ride. Ma io imperterrito continuo a illudermi che legnate e fallimenti siano solo delle prove che la vita mi ha messo davanti per farmi crescere ancora più luminoso e vincente, quando non sono altro che ripetute conferme di un destino feroce e incattivito.
E il nano poi piano piano si trasforma, rivela la sua vera faccia: è un sessantenne. La generazione dei nostri genitori ci ha inculato e continua a incularci.
Ha scavato la fossa dove ora noi, in un mare di merda, sguazziamo.
Ci hanno abituato a un mondo che per noi era eterno e che invece è durato meno di due decenni. Un mondo dove tutto era possibile, dove tutti avevano la possibilità di essere speciali, dove saremmo stati tutti dei numeri uno!
E oggi ci dicono che è colpa nostra. È colpa nostra non esserci ribellati quando avevamo 6 anni.
Avrei dovuto fare lo sciopero dei giocattoli.
Avrei dovuto dire ai miei genitori di smetterla, che mi stavano costruendo con lima e scalpello il grosso tronco che oggi ho nel culo.
E io inizio a preoccuparmi di queste cose ora. Con un ritardo drammatico!
Ho sempre mentito a me e agli altri. Non sono un eletto. E la mia vita non è affatto luminosa.
Mi consolo perché me ne sono accorto relativamente presto, mentre tutti gli altri ancora sperano di realizzare il loro sogno di bambini degli anni ’80. Io ora so. E vivo meglio.
Ho trovato i miei punti fermi nelle immagini rassicuranti del paradosso. Negli oroscopi. Dei tiepidi consigli assennati color pastello. Non li disprezzo più. Chi li scrive anche se non sembra, sta facendo del bene. Illude mandrie di uomini e donne senza speranza. Alimenta illusioni basate sul nulla, ma mantiene viva una speranza ovattata.
La verità è che la gran parte di noi è condannata alla mediocrità ma è stata socializzata al successo.
Mi preoccupo ma in fondo non faccio nulla. Striscio nella vita perché così facendo è difficile cadere.
Dice: «Strisci così non cadi.»
«Eh però cazzo passo la vita a strisciare!»

Entra nella mia stanza Antonella, la mia coinquilina. Metto in pausa la puntata di Dexter. Mi giro una sigaretta mentre lei si siede sul letto.
Io nella mia poltrona nera da direttore di banca attendo le sue parole. Ha qualcosa da dirmi ed è sicuramente qualcosa di interessante. Antonella riesce a sorprendermi sempre.
È una delle poche persone che mi fa sentire sempre un passo indietro a lei. La adoro.
«Da una recente ricerca americana è emerso che le donne che hanno visto molte volte film come Pretty Woman, Ghost, Notting Hill, Dirty Dancing e via dicendo, in genere hanno rapporti sentimentali più disastrosi.» Ha la voce acuta, da saputella. Ma la sua espressione è così gioviale che riesce solo a risultare più simpatica. E più convincente.
Antonella continua: «Praticamente hanno in testa un ideale di uomo e di coppia che non esiste e continuano a distruggere i rapporti che hanno perché non sono mai uguali al loro paradigma.»
«Anto, tu sei un genio!»
Sorride soddisfatta e mi guarda dall’alto del suo metro e sessanta scarso. Sembra un manga. Ha due treccine legate da nastrini colorati.
«Sì, in effetti l’ho sempre sospettato, ma non avevo gli elementi per provarlo.»
«Che sei un genio?»
«No, la teoria sui film americani…»
Antonella è una socio-antropologa. Non fa mai affermazioni azzardate senza avere almeno uno straccio di prova per poter ancorare la sua argomentazione. È una macchina!
«Cioè mi stai dando ragione sulla mia teoria basata sul nulla, sulle donne e quello che si aspettano da noi uomini?? E per di più con un SOLIDISSIMO STUDIO AMERICANO!?»
«Sì. Perciò goditi questo momento. Girami una sigaretta e versami un bicchiere di chinotto. Please.»
Eseguo soddisfatto.

***

Mi chiama Fausto.
«Senti Samuele, stasera siamo imbucati a una festa a San Paolo, ti va?»
«No grazie, davvero, preferisco starmene a casa, vedere qualche puntata di OZ o di Lost… magari un’altra volta.»
«Sei un fallito, sono mesi che stai chiuso in casa tutte le sere a bere e a vederti le serie televisive. Mi fai schifo. Passo a prenderti tra venti minuti. Vestiti che lo so che stai in pigiama».
Fausto mi passa a prendere 18 minuti dopo con la sua solita espressione divertita sul viso. So che sto facendo una cazzata. So che quello di cui ho bisogno in realtà è spararmi sei ore di serie televisive senza sosta, fino a quando, stremato, sento i primi autobus passare sotto la finestra di casa, il segnale per franare sul letto perennemente sfatto. Ma come tante volte cedo alla mia stronzaggine e vado con lui.
Già dalla festa avrei dovuto capire tante cose. Il cast di una fiction televisiva di successo che si riunisce su una terrazza romana a cantare.
Noi: imbucati.
Personaggi della televisione noti, con le loro vite radical chic.
Noi: due poracci.
Ma non mi sento fuori luogo.
Ho sempre provato attrazione e disgusto per i radical chic romani. Rampolli di una ricca borghesia illuminata, che ha colonizzato tutti gli spazi della cultura, dell’informazione, dell’intrattenimento “di qualità”.
Ci sono cresciuto in mezzo fin da piccolo, senza mai esserne davvero parte. Ho imparato a conoscerli, a sapermi comportare, salvo poi sentire il bisogno di prenderli in giro e rendere visibile la loro follia cattiva e ipocrita.
«Ciao, io sono Margherita. Tu?»
«Ciao, sono Samuele. Piacere. Che bella festa.» Margherita è roscia. Ha un bel sorriso. «Tu che fai?»
«Io sono aiuto regista.»
«Pensa… che lavoro interessante.»
Poi mi viene presentato un maschio trentacinquenne. Probabilmente lui appartiene alla casta degli “autori”. Si vede dallo sguardo di sufficienza e dalla presunzione che emana.

«E insomma che fai nella vita?»
«Beh, è difficile da dire… in questo periodo lavoro con i rifiuti e con i rom. Che poi pure loro li trattano tutti come rifiuti… Studio l’economia popolare legata al riuso…»
«Davvero?? Che interessante!!» Sguardo vuoto, chiede pietà. Non vuole veramente sapere di che si tratta.
Osservo lo sguardo stupito, imbarazzato e incuriosito del mio interlocutore mentre gli descrivo il mio improbabile lavoro del momento. È una sensazione impagabile. Per pochi secondi sento un brivido sulla nuca, e trovo un senso alle delusioni e ai lavori paradossali che mi ritrovo a fare.
«Beh, è un lavoro come tanti, ne avrai fatti anche tu di assurdi. No?»
Sguardo fuori campo. «Va beh, cantiamo?»

In questo periodo sto lavorando per un’associazione che si occupa di rifiuti: umani (i rom) e non (l’immondizia vera e propria). Facciamo studi di economia popolare legata al riuso, i cui principali attori in Italia sono gli zingari. Poi c’è un laboratorio che produce oggetti di design e abbigliamento fatti con gli scarti. Non ho un contratto, e negli ultimi otto mesi di lavoro ho guadagnato 800 euro. Il lavoro è molto bello.
Avere a che fare tutto il giorno con rom e rigattieri è entusiasmante. Vedo il mio mondo da una prospettiva ribaltata. A volte faccio il giro dei secchioni dell’immondizia insieme a Humiza, una rom Khorakanè di Roma nord. Smucinare nella monnezza ti fa capire molto di te. È un po’ come guardarsi allo specchio. Uno specchio che puzza parecchio.
È un libro aperto di cui si deve solo imparare la grammatica.
Gli scarti che produciamo fanno un quadro molto preciso di chi siamo.
Ci sono zone della città in cui i rifiuti sono in ottimo stato, oggetti di marca, rivendibili nei mercatini abusivi dei rom come se fossero nuovi.
In altre zone i rifiuti, soprattutto gli ingombranti, hanno più di 30 anni. Merce che diventerà rarità vintage nei negozi dei rigattieri di via dei Coronari, dopo essere passata dai banchetti dei rom, a quelli del mercato di Porta Portese, fino appunto ai negozi ultrachic del centro.
Nel resto del tempo lavoro quando capita come traduttore o correttore di bozze, ma la mia aspirazione vera è il giornalismo.
Da cinque anni faccio il freelance, un modo elegante e straniero per dire precario.
Nella gran parte dei casi scrivo per giornali, riviste o radio “a titolo gratuito”.
Telefonata tipo con un redattore di un settimanale nazionale.
«Salve, mi chiamo Samuele Callegari sono un giornalistafrilenz, ho un reportage da proporre sui paramilitari colombiani.»
«Ah, ottimo. Di che si tratta?»
«Beh, le confessioni di un giovane paramilitare che torna a casa dalla caserma mentre parla con una donna ex guerrigliera che cerca di convincerlo che il suo lavoro è sbagliato e dovrebbe smettere…»
«Mmm»
«…i due viaggiano insieme su un autobus e si parlano in un clima surreale, poiché lui potrebbe arrestarla in qualsiasi momento e lei ha visto ammazzare la sua famiglia dai paramilitari… ho anche le foto».
«Certo, certo… mi sembra interessante. Senti. Sai che qui le collaborazioni sono a titolo gratuito, vero? Diciamo che ti diamo la possibilità di far leggere il tuo articolo su un giornale nazionale. Che te ne pare? Ti può andare bene? Sai, abbiamo poche risorse, la legge sull’editoria, la crisi…»
«Sa, non vorrei offendere, però io ci ho lavorato parecchio su questo pezzo, sono stato in Colombia a spese mie… vorrei provare a piazzarlo meglio.»
«Come vuoi. Questa è l’offerta migliore che riceverai, comunque. In bocca al lupo.»

Da giorni sto chiuso in casa, come mi rinfaccia Fausto.
Il fatto è che il mio lavoro è ricco di soddisfazioni umane e professionali, ma è anche inadatto alla sopravvivenza. E il giornalismo è chiaro che è un hobby che non posso più permettermi.
E ora sono seduto su un terrazzo circondato da attori, registi, autori della tivvù a cantare.
Da qui sopra si vede benissimo il campo rom dove lavoro tutti i giorni. Magari faccio uno squillo al mio amico zingaro, Zoran (detto Zorro) e gli dico di salire con un paio di amici suoi. Magari no.
È proprio qui sotto, vicino alla metro San Paolo, eppure è lontano anni luce dalle persone di questa festa. E da me in questo momento.
«Hai visto che abbiamo fatto bene a venire? Ti stai divertendo» mi dice Fausto.
«Beh, non c’è male. È pieno di gente famosa e spensierata. Proprio quello che volevo.»
«La fai finita di lamentarti sempre e di fare il cacacazzi? Ti credo che poi le donne non ti reggono. Sei sempre così pesante. Fatte ‘na cantata e non rompere i coglioni!»
«Allora lasciami cantare, che è meglio.»
Lasciami cantare, Fausto. Adoro cantare. Ma oltre a piacermi molto ho un problema: sono costretto a imparare a memoria i testi delle canzoni. DEVO farlo. Non tollero l’idea di non sapere le parole. Proprio mi disturba a un livello epidermico non sapere alla perfezione le parole delle canzoni. Mi sento male. E canto qui, in mezzo a sconosciuti, incappucciato per il freddo del terrazzo. È il dieci aprile ma fa freddo.
A fianco a me è seduta Ginevra Mischianti.
La conosco da sempre, anche se lei non conosce me. La televisione fa questo effetto quando sei un telespettatore.
Volevo fare l’amore con te da quando avevo diciotto anni. Mi sei sempre piaciuta. Ora sei qui che canti con me. E mi guardi. Sorridi. Forse. Comunque nella mia testa mi sorridi e io sorrido a te. So che io e te abbiamo un link.
Stiamo vivendo esattamente quel momento che non si riesce mai a definire. Il momento in cui ti rendi conto che la persona che hai di fronte è nella sceneggiatura della tua vita. Lei ancora non lo sa. Non lo sai tu. È assurdo pensarlo ma in fondo è così. Non si scappa. È una sensazione fisica, come un attacco di gastrite. La gastrite è un po’ la mia unità di misura delle cose belle e brutte della vita.
Il nostro primo dialogo è stupendo. Sono le parole delle canzoni che cantiamo. Insieme. Comunichiamo solo con questo. Nessun altro argomento. Solo unione di intenti nel riprodurre al meglio una canzone. Provo godimento vero.
Voglio non conoscerti.
Voglio continuare a godere con te senza sapere che mi farai male. Senza deluderti.
Solo sorridere e cantare.

diario da Città del Messico. fuggire dove?


Sono passati i mesi. Questo blog ha fatto la muffa, ma non è ancora morto. Sono successe cose. La Spagna ha vinto il mondiale mentre queste pagine invecchiavano. Fini è stato illuminato sulla via di Damasco, dopo anni di collusione con lo schifo. Non è il primo a ravvedersi. Si vede che la nave sta proprio per affondare.
Nel Messico sono successe tante tante cose. Allo scrivente, al paese. Oggi, dopo tanto tempo mi viene di nuovo voglia di scrivere su questo muro. Perché è successa una cosa bizzarra, una delle tante, ma non so perché questa mi piace tanto.
Insomma, ieri a Tamaulipas, lo stato del nord dove qualche settimana fa sono stati ritrovati i corpi di 72 migranti ammazzati e ammucchiati in un casolare, insomma ieri a Tamaulipas, lo stato del nord dove Cartello del Golfo e Zetas si contendono la piazza, insomma ieri a Tamaulipas, se mi fate parlare vi spiego cosa è accaduto.
Dunque, in un carcere statale c’erano stipati dentro tutti dei cattivoni, tutti ammucchiati lí, dentro questo carcere statale dello stato di Tamaulipas. A un certo punto uno dice, vabbè siamo tanti qua dentro, è ora di uscire. E allora con l’aiuto di un manipolo di guardie 89 criminali, in carcere per crimini federali, tipo narcotraffico, omicidi, sequestri, scorticamenti, torture ecc., scappano.
Scappano con una scala appoggiata al muro. Così. Con un convoglio di furgoni parcheggiati fuori ad aspettarli.
89.
89 più alcune guardie che sono “scomparse”.
E questo secondo loro è un paese normale.
Questo è un paese dove tra tre giorni, cento milioni di subnormali andranno a gridare il loro orgoglio patriottico, nel festeggiamento del bicentenario dell’indipendenza e del centenario della rivoluzione. Scrivo indipendenza e rivoluzione minuscoli perché prima di regalare maiuscole vorrei capire da cosa si sono resi indipendenti e qual è stata in fondo la rivoluzione. E soprattutto vorrei capire cosa cazzo avranno da festeggiare.
Questo paese è al tracollo. E le strade sono tappezzate di bandiere tricolori tricchettracche e bombe a mano. Soprattutto bombe a mano.
Nel frattempo al cinema esce questo film, El Infierno, di Luis Estrada, che racconta tanto del Messico di questi giorni. Di questi anni.
Ritorno al mio blog perché dopo mesi in cui non ho proprio avuto voglia di scrivere nulla, ho ritrovato l’energia, la motivazione.
E la motivazione è sempre la stessa. Sono troppe le cose da raccontare di questo paese, che ti affascina e ti seduce, che ti fa incazzare da morire, per la bontà, la grandezza e la stupidità e impotenza delle sue genti.
In questi giorni si compie la farsa suprema del bi-centenario. Si dissolvono nel patriottismo ottuso (come ogni patriottismo) le lacrime che vengono sparse ogni giorno sul martoriato suolo messicano. Si fa appello ai valori nazionali da parte di una classe politica senza vergogna, che ha solo da vergognarsi.
E cento milioni di messicani appresso a questa stupida bandiera grondante sangue.
¡Que viva México, cabrones!

Racconto da Città del Messico. L’urlo

La luce bianca del cielo nuvoloso della città ferisce gli occhi. Occhi rossi di sonno e inquinamento, stampati sulla vetrina del ristorante. Dentro un gruppo di 17 vecchie ingurgita uova strapazzate, caffè e pandulce, berciando in direzione del monitor 27 pollici appeso al muro del locale. Hanno i capelli viola, celesti, il celeste dei capelli delle vecchie. Alcune sbavano nel piatto senza sapere cosa sta succedendo intorno, con la maglietta verde della selección indossata come un maglioncino della nonna. Sulla schiena c’è un grosso 4 con sopra scritto Marquez.

Le grida si alzano ogni volta che sul televisore cambia inquadratura. È il tifo secondo le vecchie. Gridare sempre, e battere le mani istericamente, mentre pezzi di cibo piovono sul tavolo, dalle labbra coperte di rossetto e salsa verde.

Le mani appoggiate al vetro stacco gli occhi dalla scena. Mi guardo intorno. Vicino a me, fuori dalla porta del ristorante, è seduta un’anziana indigena. È seduta a terra, gambe incrociate e mangia lentamente una tortilla con fagioli e chile. Il cestino dell’elemosina poggiato davanti ai piedi. La copre un rebozo blu e i suoi lunghi capelli argento.

Il parcheggiatore del ristorante guarda la partita attraverso il vetro insieme al suo collega. Gli passa un biglietto da 50 pesos e senza esitare lo manda a comprare due caguamas al supermercato. Per vedere la partita dalla strada. Sono le 9.38 di mattina a Città del Messico. E la luce ferisce gli occhi. Ancora.

La strada è silenziosa come solo di notte.

Lascio il ristorante alle sue vecchie. Il dedalo di strade in questa zona ti fa perdere l’orientamento. Vago senza meta alla ricerca di un punto di riferimento. Non si vede anima viva. A un angolo appare un gruppetto di persone. Uomini grassi seduti su delle sedie troppo piccole per i loro culoni, come quelle della scuola media. Uno di loro è seduto quasi in mezzo alla strada. Ha un cartone della Dominos Pizza aperto sulla testa a mo di tetto alpino. Il grasso di quello che era il suo contenuto cola lentamente ai due lati e gocciola sul selciato. Gli altri tre sono più vicini fra di loro. Uno anziano col volto scolpito dal sole e dall’età incastonato in una mano, la bocca nel palmo aperto. Immobile e in piedi. Il secondo serio e impettito come se stesse aspettando i risultati del test dell’HIV nella sala d’aspetto dell’Asl. L’ultimo seduto con la pancia appoggiata allo schienale. Lo spacco tra le natiche in evidenza quasi a voler scappare dai pantaloni della tuta bisunta.

Tutti e quattro fissano ebeti uno schermo grigio topo in bianco e nero delle dimensioni di un pacchetto di sigarette, poggiato su un tavolo di metallo. In silenzio religioso, ad ascoltare il “Perro” Bermudez che commenta la partita. Messico – Sudafrica. Non si accorgono del mio passaggio.

Io ho ancora tempo.

A 36 minuti dalla fine del secondo tempo, nella città che appare disabitata, chiusa nel suo silenzio e nella sua luce bianca, arrivo a destinazione.

Le guardie sono impegnate altrove. Entro in casa senza problemi. Lei è in piedi a fianco alla sedia e accarezza calma un furetto.

Legato e imbavagliato c’è un uomo in mutande. Piange e ha la faccia piena di mocciolo.

Si è pisciato addosso mentre il furetto gli mordeva i testicoli.

Davanti a lui c’è un televisore acceso. La voce roca del “Perro” Bermudez accompagna i mugolii di paura e dolore dell’uomo nudo. Gli occhiali sono appannati per il sudore, le lacrime.

Ora tocca a me. Lo slego piano, mentre Mphela mette in difficoltà la difesa della selezione messicana. Lei mi aiuta a tenerlo fermo. Il Presidente in piedi è basso. Trema.

Fuori i carri armati occupano la città, prima che finisca la partita, ma lui, il Presidente è qui con me. Sei qui con Lei. Calma poggia sul divano il furetto. Lo sguardo del Presidente è una maschera di terrore. Lui che aveva pensato a tutto, lui che aveva previsto tutto.

Lei allaccia alla vita la cintura di cuoio fallica.

Il Presidente aspettava il calcio d’inizio per far entrare i soldati nelle strade nelle case, nelle scuole.

Lei lo fa chinare.

Il Presidente, incastrato dalla sua stessa assistente.

Lei indossa un tricolore sulle spalle, a mo di mantello.

“Sei riuscito a inculare questo paese, Presidente. Adesso tocca a te”

L’urlo di gioia dei messicani dopo il gol di Rafa Marquez si confondono con il grido sgraziato e disperato del Presidente.

diario da Arriaga. cavalcando la Bestia

Il caldo squaglia la carne e i binari, il sole arrossa la pelle sul cammino che porta al nord. Noi seguiamo i passi dei migranti che con fiducia affrontano il viaggio. Tra un assalto e una violenza, i centroamericani proseguono sulla strada per Arriaga, un paese polveroso e brutto al confine tra Chiapas e Oxaca.

Ad Arriaga a dire la verità non c’è proprio un cazzo di bello. Però ci passa la ferrovia. E come api sul miele lo sciame di migranti si lancia all’inseguimento della bestia. E noi dietro di loro, cercando di rubare momenti di vita di questa avventura che non ci appartiene ma che sentiamo stranamente nostra. Perché è la storia di tutti i migranti. è il viaggio di ogni uomo che cerca di migliorare le proprie condizioni e quelle dei propri figli appresso a un sogno, in questo caso quello americano. E avoja a dirgli che è un’illusione  quella capitalista, che non si sta poi tanto meglio a conti fatti. Facile dirlo quando si è nati a Monte Mario. Questi hanno preso coscienza di sé in mezzo a un fottuto campo di banane nelle campagne di Olancho, in Honduras. E giustamente inseguono il loro sogno americano. E che so più stronzi de noi?

E il reporter e il fotografo si fanno accompagnare da un vecchio lupo di Tapachula, il panzone Juan de Dios, che manco a farlo apposta si chiama come il tassista di Santo Domingo che ci ha portato eroicamente fino a Port au Prince, quel panzone che “pare che s’è magnato er fijo”. Ecco questo qua pare che s’è magnato er fijo e la madre. Però de treni ce capisce.

Quando arriviamo ad Arriaga iniziamo a capire un po’ meglio la follia di questo viaggio. Per arrivare qui i simpatici migranti si sono sparati 250 chilometri da Tapachula, che noi abbiamo percorso a 150 all’ora in macchina. Loro no. Loro devono affrontare i blocchi stradali di migracion. Ce ne sono 3 prima di arrivare in questo paradiso ferroviario. Se prendono un combi, un pulmino, devono pagare di più l’autista che li fa scendere all’altezza del controllo, quindi essi lo aggirano in mezzo al campo, e sperano di ritrovarci il combi ad aspettarli. Ma come in ogni videogioco che si rispetti, in mezzo al campo ci stanno i banditi che li aspettano con un bel machete in mano, o una pistola. O ci sono i Mara Salvatruchas, quei bonari omoni tatuati che ti fanno a pezzi  e mangiano le tue interiora ancora calde. Qui nel campo i Nostri devono correre di molto per sfuggire ai machetazos o ai colpi di pistola o alle pietrate, perché se li pigliano, i cattivi gli rubano tutto, li ammazzano di botte, li stuprano in gruppo o li fanno fuori. Questo se non c’è la polizia ad aspettarli. Se c’è la polizia cambia tutto, perché oltre a tutto questo la polizia li porta pure all’ufficio migratorio e se ne tornano affanculo a casa loro.

Mettiamo che uno riesca a fare tutto questo senza perdere la vita, o un arto. Arriva ad Arriaga e ancora non ha preso il cazzo di treno. Ha percorso appena 300 chilometri in terra messicana.

L’altro modo di arrivare ad Arriaga è seguire a piedi, per 250 chilometri, i binari del treno. Quei binari che fino a qualche anno fa erano percorsi dalla bestia ma che dopo l’uragano sono rimasti lì come una lunga ferita sotto il sole. A squagliarsi.

E ad Arriaga finalmente si prende il treno. Che parte quando vuole lui. Il treno piglia, arriva, carica merci e riparte. Quando gli pare. Senza orari.

Si vede gente ammonticchiata sui binari della ferrovia ad aspettare. Per giorni. A mangiare tortillas, fagioli, tonno, basta.

Noi aspettiamo pure noi, facendoci raccontare le loro storie, immortalando i loro volti. Ogni storia meriterebbe un blog a parte, ogni vita un’0dissea, ancora prima di affrontare questa.

Quello che accomuna tutti è lo sguardo fiducioso, quasi arrogante, di sfida a una vita di merda che non fa altro che schiacciarli a fondo. E loro, diocane, sempre a tirare su la testa dal fango. Svergognati. Spudorati. Si tirano su. e per farlo subiscono qualsiasi tipo di umiliazione, angheria, ingiustizia.

Forse il sogno americano consiste in questo, nel fondo. Forse è la giustificazione, lo stimolo a tirare su la testa per una volta, a intraprendere e sopportare il cammino.

Seduti all’ombra vicino ai binari si attende pazienti la bestia.

diario da Tapachula. cavalcando la Bestia

Insomma mi piomba a casa dalla Colombia uno dei cavalieri con cui ho condiviso la vacanza ad Haiti. È Cutie, alias Fabio Cuttica, fotografo che il mondo ci invidia.

Mi dice, oh, senti, ma che ne pensi se ce ne andiamo in giro per questo famoso Messico a raccontare le storie degli sfigati? Dico, ma te pare? Certo Cutie, stamo qui apposta. Dunque mi arriva a casa con tutte le sue mirabolanti macchine fotografiche.

Tempo due giorni siamo in volo verso Tapachula, amena città del Chiapas al confine con il Guatemala. Questo posto è famoso perché da qui partiva il treno della morte. Conosciuto anche come la bestia, il treno trasporta merci e migranti centroamericani. Prima partiva proprio da Tapachula, ma dopo l’uragano Stan, la stazione di partenza si è spostata a 250 km da qui, in una ridente località dal simpatico nome di Arriaga.

Tapachula ci accoglie col suo clima torrido. Noi siamo due giovani reporter intenzionati a indagare a fondo il tema della migrazione, scavando nei meandri della realtà. Prima tappa, il centro di accoglienza per migranti, la versione messicana dei CPT. Premesso che trattasi di carcere a tutti gli effetti, benché il responsabile della comunicazione si inalberi in definizioni molto più politicamente corrette, ad una prima occhiata non sembra poi così male. A dire la verità sembra molto meglio della scuola dove andavo alle medie. Un posto pulito, dove la gente mangia bene, si rilassa due o tre giorni, e accetta il fatto che verrà rimpatriata. Dico, è tutto molto triste, ma siete mai passati per un CPT?

Soddisfatti della gita ci lanciamo per le strade del sud del Chiapas insieme al Gruppo Beta. Essi sono dei baldi giovini che hanno il compito di assistere i migranti in cammino, dando loro acqua, tonno, crackers, informazioni legali. Sono funzionari migratori, ma non di quelli che ti rimpatriano. Diciamo che con la loro divisa arancione trasmettono una relativa sicurezza. In genere i migranti si fidano di loro, ma comunque ti rimane un po’ la sensazione che questi famosi Beta non è che facciano poi tutta sta differenza. Per carità, gli vogliamo bene, però diciamo che non sono proprio sti eroi.

Cutie scatta le sue foto. Io prendo appunti.

Accompagnati dai Beta ci appostiamo lungo i binari abbandonati della ferrovia. Gli amabili arancioni ci assicurano che con un po’ di pazienza riusciremo a beccare qualche migrante che ha appena passato la frontiera e che si dirige a piedi ad Arriaga. E fin da questo momento inizia a formicolarmi una sensazione ancora non ben definita, che si articolerà in seguito: e cioè che “i migranti” siano un po’ come della cacciagione, delle prede da spolpare un po’ da tutti.

Li aspettiamo, appostati lungo la linea, come si aspettano le anatre migratorie. Pronti a fare fuoco. Dopo il primo incontro con “i migranti” però capirò che non è esattamente così. Che l’altra parte di questa caccia, l’altra faccia, è che loro vedono in noi un megafono. Una possibilità di farsi sentire, di far ascoltare le loro storie, di far sapere cosa devono subire. Dunque cade l’annosa questione morale e si fa spazio il senso di responsabilità.

E dunque le storie. Il primo ad attraversare il ponte ferroviario rosso in cui ci siamo appostati è un ragazzo. È piuttosto una diva. Arriva sgambettando sudato gridando “llega la reina del sur” (arriva la regina del sud). Si chiama José, è hondureño e ha 30 anni. Vuole attraversare la frontiera “andare a fare scalpore nei locali di Los Angeles”.

José ha già fatto questo viaggio. Più di una volta. E finora gli ha detto bene, se si considera l’essere derubati un prezzo equo da pagare per realizzare il sogno americano. “Poi quando ho bisogno di tornare a casa, come ora, per vedere mia madre malata, mi consegno alle autorità, e mi faccio deportare in Honduras, così non devo pagarmi il viaggio di ritorno”.

Il gruppeto è composto di otto persone. Non tutte “esuberanti” come José. Tra loro c’è un paio di ragazze. Di loro nel cammino si perderanno le tracce. Alcuni degli altri invece li incontreremo di nuovo, nelle tappe successive.

I Beta consegnano le loro scatolette di tonno, l’acqua, danno blandi consigli. José si avvicina “lo so che nel cammino c’è un sacco di brutta gente. Ma non vi preoccupate. Se qualcuno vuole violentarci mi sono preparato, ho portato venti scatole di preservativi! se devono proprio farlo almeno che sia sesso protetto!!”

Io sono allibito dalla leggerezza e la determinazione di questa gente. Sanno perfettamente che la loro è un’impresa suicida. O nel migliore dei casi terrificante. E nonostante questo, nonostante la miseria che vivono nei loro paesi, affrontano questa odissea con uno spirito sereno, facendo dell’ironia sulla loro condizione.

Lasciamo il gruppo a riposare sulle rotaie abbandonate. Il loro salute sono risate argentine. La vita è sorella della morte e non c’è motivo di appesantire qualcosa che già di per sé è difficile.

Il cammino è appena iniziato

diario da Città del Messico. Vivete veramente in un paese di merda

Dall’esilio autoimposto nel Messico mi godo le giornate di sole, le giacarande in fiore e la vista dei vulcani dalla mia finestra. Seguo con disgusto le vicende elettorali del mio paese natale. La pseudo sinistra italiana becca l’ennesima sveglia alle regionali in regioni come il Lazio e il Piemonte, dove forse avrebbe potuto battere i neofascisti, i leghisti, i berluscones. Ma poi penso che no. Non aveva alcuna speranza. Pure troppo bene è andata.

Scrivo su feisbuc la mia opinione. Vivete in un paese veramente di merda. E vengo sommerso da commenti stizziti. Mi si dice che sono un irresponsabile cinico e che “è facile sparare sentenze da fuori”. Come se qui a me mi regalassero da mangiare. Come se partire da un paese di merda, che però è comunque il tuo, e ricominciare una vita fosse una situazione di lusso. Mi si dice che non sono rimasto a lottare. A lottare? Perché in Italia si lotta? E da quando? Quelli che nel 2001 hanno fatto spallucce di fronte alla sistematica distruzione di vere e originali alternative teoriche, avallando di fatto le violenze di stato, e il dilagare del berlusconismo adesso si radunano nelle piazze con bandiere e sciarpe viola, manco fossero ultrà della Fiorentina. Ora l’Italia è piena di eroi che lottano per la democrazia.

E chi se ne va è un vigliacco. E non ha più diritto di dire quello che pensa. Quello che ha sempre detto. Non ne ha diritto anche perché “ao, ma che cazzo voi? Manco vivessi in Svezia!” Come se il disgusto che provoca la vita politica e sociale dell’Italia potesse essere sviscerato soltanto vivendo in quello che viene considerato il paradiso delle democrazie. Anche il Messico è un paese di merda. Oggettivamente. Un paese di merda in cui sono vietati i crocifissi nelle scuole, in cui i gay si possono sposare, in cui se vuoi scrivere su un giornale perché ne hai le capacità lo fai e ti pagano, e bene. Un paese di merda che è pieno di merda, di narco, di corruzione, di violenza e omicidi, ma che non si pone con spocchia rispetto agli altri, non ha la velleità di insegnare nulla a nessuno. I messicani sanno dove vivono, e uniscono un ridicolo patriottismo a un realistico senso comune.

In questo blog non ho voglia di snocciolare le nefandezze che ogni giorno ci fanno vergognare di essere italiani, perché quelle si sanno, si scrivono, si urlano. E qui non c’è spazio per questo. In questo post voglio solo esprimere disprezzo e vergogna. E rivendicare il mio diritto e quello di tutti gli emigrati a farsi beffe del proprio paese. Di far rosicare chi è rimasto. Io ho scelto di vivere e di partecipare all’idea libertaria e solidale da qui. In Italia sarei stato un mendicante, un poveraccio, un fallito, e quale sarebbe stato il mio contributo al Mio Paese? E poi mi sono chiesto: ma cosa devo io al Mio Paese? Ma i miei ideali non sono forse sempre stati internazionalisti? E dunque il mio contributo lo do qui. Senza troppi rimorsi, senza paure, e senza vergogna.

L’Italia si merita esattamente ciò che ha. Ciò che abbiamo costruito o non abbiamo avuto i coglioni di demolire. Gli italiani si sono imborghesiti, si sono lasciati imborghesire dall’esterno. Mentalmente. E ora pagano il prezzo. Paghiamo. Ognuno a suo modo. Io, nel mio piccolo pago la distanza dalla mia famiglia, dai miei affetti, dai luoghi che amo, la distanza da quello che avrei voluto fare. E lo pago ogni giorno.

In cambio faccio quello che so fare per rimanere coerente coi miei valori, con le mie idee.

Vivete veramente in un paese di merda. È un fatto.

Rileggo queste righe prima di pubblicarle. Piene di amarezza e retorica. Le lascio così. C’è una luna piena che illumina il monstruo. Aria fresca della sera e la nenia del venditore di tamales. Non ho più un toro di cartapesta da tormentare, ma ora ho un gatto. Esso (anzi essa) è vivo. Reagisce ai miei dispetti e si incazza. La chiudo nell’armadio per sentire il suo languido miagolio. Eccellente. Stiamo migliorando.

diario da Città del Messico. benvenuto!

Accompagnato da sogni di disastri e morti ammonticchiati faccio ritorno pimpante nella Città. Il DF comparato con Haiti pare la Svizzera. e questo già è straniante.

La città respira. Accoglie le notizie disastrose della vicina Haiti come un’anziana signora. E prosegue lenta e mastodontica la sua vita. È martedì sera e devo vedere un’amica a Coyoacan. Sono le dieci. Acchiappo un taxi al volo. Il tassinaro si lamenta della ruota anteriore. Io lo ignoro. State sempre a lamentarvi di qualcosa, possibile che ce n’è sempre una?

Su avenida Coyoacan la macchina rallenta, senti guardo un attimo sta gomma. Si ferma. Non faccio in tempo a bestemmiare per la mia idiozia e loro sono dentro. Uno davanti e uno dietro. Quello dietro mi rovina addosso coi suoi cento chili abbondanti strizzati nella giacca di pelle. Odore di gel e dopobarba. Eccomi qua in compagnia di due rateros. Me mancava una bella rapina.

Chiudi gli occhi e metti le mani in vista e stai zitto testa di cazzo se no ti piantiamo un balazo in mezzo alla fronte. Esagerato. Avevo intuito che era una rapina. so sempre stato uno sveglio.

Chiudere gli occhi. Mettere le mani in vista. stare zitto e cercare di non farli incazzare. Facilitare il loro lavoro. questi i compiti della serata. Vediamo se ce la faccio.

Il ciccione a fianco a me piazza una gamba sulla mia e mi mette un braccio intorno alle spalle. Siamo affettuosi. In un primo scambio di effusioni mi dice di tirare fuori tutti i soldi. Allora, amico, come te lo spiego che sto più scannato di te? Che tutti quelli che me dovevano pagà fanno i vaghi? Vabbè. Caccio sti 200 pesos (euri 10). Silenzio. Tutto qua? Oh, che devo fa? questi ho. Come? Eh, così. T’ha detto male amico mio. Ok tira fuori il telefono. Quasi mi vergogno. L’ho comprato a Managua per 10 dollari, mi piacerebbe l’aifon, ma purtroppo è andata così. lo voi? E questo che cazzo è? è il telefono mio. porta rispetto, me ce so fatto un colpo di stato e un terremoto. Il ciccio lo passa a quello davanti, che si mette a ridere.

Preso per il culo dai rapinatori a Città del Messico. E dovrei essere l’europeo impaccato di soldi che va a conquistare il nuovo mondo?

Regà, sto colle pezze ar culo. Mi spiace proprio, avrei voluto venirvi incontro. Eh scusa, ci siamo sbagliati. Ti abbiamo visto con la faccia da straniero, pensavamo fossi gonfio. Eh, lo so. So straniero ma anche senza una lira.

Ok, adesso tira fuori il portafogli. Ah, mo sì! Il ciccio lo passa a quello davanti. Che ride. È vuoto, cazzo! Oh, ma che cazzo parlo al vento?

Il ciccio cerca di rassicurarmi. Se non fai cazzate ne esci bene da questa cosa. Devi stare calmo. Fai quello che ti dico io e stai zitto. Dovete imparare a obbedire voi. Ma voi chi? Ma di chi cazzo parli? di quelli che prendono il taxi? degli italiani? dei romanisti? dei trentenni?

Lo penso ma imparo a obbedire, e taccio.

Va bene allora facciamo così. Intanto ripigliati stammerda di portafogli. Grazie. E la sim. Come la sim? che fai me ridai la sim? Capace che ce stanno più soldi dentro di quanti ne fai te co sto citofono se te lo vendi a Tepito. Però taccio.

Dove stavi andando? Alla metro Coyoacan. Ah e devi vedere una ragazza? Ma che cazzo te frega? che sei il mio analista? No, un’amica. Senti, adesso se fai il bravo ti lasciamo da qualche parte. Non lontano da lì. Va bene? Ma no, me piaceva sto giro al buio in compagnia di simpaticoni come voi. Rimango.

Sono passati 15 minuti a fare giri nelle stradine di chissà dove. La macchina rallenta alle indicazioni del ciccione amico mio. Si ferma. Allora ora scendi, cammini normale. Non gridi. Non corri. Non parli con nessuno e te ne vai, se no ti veniamo dietro e ti spariamo, hai capito stronzo? Ho capito. Sicuro? Sicuro.

Sto per scendere. Ma prima l’omino davanti mi passa una cosa. Mi mette tra le mani un biglietto. Questi sono 50 pesos, dice il ciccio. Così ci torni a casa. Siamo rateros però caballeros.

Mi ha ridato i soldi. Il ladro mi ha appena zincato 200 pesos e me ne ridà 50 perché gli faccio pena. Perché non vuole che si abbia un’idea sbagliata dei ladri in Messico. Perché in fondo è un lavoro come un altro, con la sua dignità e le sue regole. Io sono basito. Mi viene da ridere, ma mi ricordo che sono minacciato di morte e quindi non è il caso di lasciarsi andare.

Scendo. Cammino. Non grido. Il suv dei ladri che ci ha seguito per tutto il tempo carica i due compari e sparisce nella notte, insieme al figlio di puttana del tassinaro.

Io vago fino a trovare la strada conosciuta. Fino al mio appuntamento. La mia amica è in ritardo e l’aspetto fumando alla fermata della metro.

Poi non venitemi a dire che questo paese non è surreale, che vi pianto una pallottola tra gli occhi.

diario da Port au Prince. occupazione (o le ali della libertà).

Dell’approccio creativo dei marines alle tragedie umanitarie si è già detto. Quello su cui vorrei tornare è l’immagine che si è data del popolo haitiano negli ultimi giorni. Gente che fa sommosse, che tira fuori i machete, che minaccia la sicurezza propria e altrui. Bestie di satana che si avventano sui poveri stranieri che cercano di aiutarli. Tanto da giustificare una presenza molto massiccia di militi prevalentemente della U.S. Army.

E dunque Haiti è occupata. Mentre le Nazioni Unite fanno briefing uno appresso all’altro, ti ritrovi soldati su mezzi blindati che girano per le strade di Port au Prince come se si trattasse di Saigon, fucili spianati e sguardo molto maschio e molto cattivo.

La gente da parte sua se li rimira come se fossero matti. Ma che cazzo andate in giro armati così?

Annosa questione. Ma ste famose sommosse popolari ci sono state? Dunque per rispondere facciamo un po’ di cucina. Prendiamo centinaia di migliaia di persone rimaste senza nulla (mi pare che il concetto, a questo punto, sia abbastanza chiaro) che stentano a trovare del cibo e dell’acqua. Aggiungiamo frustrazione e risentimento verso una comunità internazionale che non è in grado di organizzare la distribuzione dei viveri che quotidianamente atterrano all’aeroporto e rimangono stipati lì. A parte aggreghiamo i marines che come tutti sanno sono esperti di distribuzione di aiuti umanitari, che senza avvertire nessuno né coordinarsi ad esempio col World Food Programme decidono di lanciare a pioggia col paracadute a casaccio (tecnicamente a cazzo di cane) razioni k, cioè quei simpatici pacchettini con dentro sorprese alimentari, senza alcun criterio. Se io sono un capo banda armata e mi vedo piovere viveri dal cielo senza nessun controllo è ovvio che mi lancio a pesce ad arraffare, e se posso a rubare anche ai miei compatrioti. E dunque lo faccio. E minaccio gli altri di morte. E se non si tolgono dalle palle li faccio proprio fuori.

Ripetere l’operazione finché non si scatena una sommossa e servire a temperatura ambiente.

Viaggiando come i cani sulla fuoriserie di Vi non ci è capitato mai di vedere le violenze raccontate e gridate dai media di tutto il mondo. Parlando con gli operatori sul campo, con i volontari, con i gendarmi francesi, che pattugliano le strade con quei loro adorabili vestitini celesti, nessuno ha confermato l’efferatezza delle violenze. Non più di quanto ci si possa aspettare in una situazione del genere.

Ma se non c’è violenza sommossa, spargimento di sangue, come si giustificano le migliaia di soldati? Come si giustifica il colpo di mano dell’esercito?

Per capirlo io e Sciacallo cogliamo l’occasione al volo e ci facciamo invitare su un Seahawke, un elicottero della U.S. Navy, che tiene parcheggiate le portaerei al largo della città.

Dopo due ore a farsi esplodere le orecchie all’aeroporto tra elicotteri cargo militari, hercules, aerei civili della American Airlines, è il nostro turno di salire su questo attrezzo cafonissimo e molto maschio.

Il marine che si occupa del rapporto coi giornalisti è amabilissimo, sorride, fa battute. Cesare Lombroso lo avrebbe sicuramente tacciato di criminale a giudicare dai suoi tratti somatici leggermente “ottusi”, ma a noi ce fa tanto ride, che sagoma!

Dunque i due moschettieri si preparano a un pomeriggio da embedded. scattiamo foto ai robusti soldatini che davanti a telecamere, instancabili, caricano razioni k e bottigliette d’acqua sui mirabolanti seahawkes che vanno e vengono sul pratino dell’aeroporto. Ci tengono proprio a far vedere che sono indispensabili.

Arriva il nostro turno dopo un’attesa interminabile. Ci forniscono di due caschi con copriorecchie e saltiamo agilmente sui potenti mezzi dell’aviazione americana. Stipati in mezzo a decine di scatoloni di cibarie che, a quanto dicono i marines, devono servire a sfamare 10mila persone per 5 giorni. me cojoni!

si sorvolano i paesaggi haitiani per 15 minuti. Montagne semi deserte, fino ad arrivare a Jacmel, a sud di Port au Prince. Va detto che sti elicotteri dentro so tutti sgarrupati e mezzo sfonnati, non è che stiamo proprio viaggiando con la tecnologia di punta. Ma in ogni caso per dei giovani freelance italiani, temporaneamente embedded, che devono essere sedotti, fa comunque la sua porca figura.

Si atterra. Si scarica la merce. Foto ricordo. Poi risalite al volo se no vi lasciamo qua. E risaliamo… Di nuovo in volo su valli e colline. Finché non arriva l’imprevisto. Regà, scusate, dice il baldo soldato, c’è finita la benzina, tocca annà a fa rifornimento un attimo alla porteaerei. Come finita la benzina? E noi qua sopra a fa gli splendidi senza benzina? E annamo su sta portaerei, che te devo dì? Dopo il rifornimento, si riparte veloci come il fulmine verso Port au Prince. Ma prima a sorpresa sorvoliamo un quartiere che dà sul mare. E da qui su lo Sciacallo riesce a scattare delle foto di centinaia di poracci che si accalcano su cinque navi stile carrette del mare di Lampedusa. Più altre centinaia di persone ammucchiate a riva in attesa di salire a bordo. E dove cazzo vanno questi? Non mi dire che stanno cercando di scappare via mare? Ma siete pazzi? Gli americani hanno detto proprio specificamente, noi ve volemo tanto bene, aiuti, tricchettracche, cotillon, però nun dovete cacà er cazzo. Rimanete qua, no che venite tutti a Miami a fa come ve pare!

Invece quelli proprio se ne vanno. Ce provano. Perché se è vero che il presidente del Senegal ha offerto un pezzo del suo paese ai fratelli haitiani per farli tornare in Africa, gli Stati Uniti stanno lì appizzati per rimpatriarli tutti.

Finito il giro ringraziamo per la gentilezza e ci ributtiamo nel marasma, felici di aver visto all’opera i veri buoni, felici di aver provato l’ebbrezza di essere embedded, ma un po’ con la sensazione sgradevole di aver vissuto sulla nostra pelle il concetto di “media asserviti”. Mo perché noi siamo vagabondi e randagi e non ci comprano co du noccioline, e quindi racconteremo per bene che porcate fanno gli americani da ste parti, però sono certo che altri si sono fatti fregare co du gomme da masticare e no specchietto.

Haiti di notte direi che è buia e di bello c’è che si vede un oceano di stelle sulla testa. Sdraiato su un cartone sul prato della base ONU, cena scroccata, con una copertina aspetto che arrivi il sonno. Qua non si sogna.

diario da Port au Prince. in gita.

Le giornate sono caotiche. Ti svegli sempre con la schiena incriccata, magnato dalle zanzare, roduto perché hai dormito tre ore.

Noi ci svegliamo, prepariamo la saccoccetta con le macchine fotografiche, i registratori, le mascherine, i crèc, l’acqua. E via, veloci come il vento tra le strade di Port au Prince. Mezzo di locomozione: un’altra autovettura ad assetto ribassato. Stavolta di un colore quasi viola melanzana. Alla guida Vi. Il nome è un altro, ma ogni volta che lo pronuncia suona diverso, per cui ci siamo settati su Vi e pare che vada bene pure a lui.

È il vicino di casa della nostra ospite, Fiammetta, la santa donna cooperante che ci ha accolto come dei fratelli randagi.

Vi ci scarrozza per la città per farci vedere le meraviglie del paesaggio. E dunque si parte in gita. Tra i palazzi sventrati una volta ripieni di vita e che ora “rigurgitan salme”. E le salme sono tante. Buttate in mezzo alla strada. Gonfie. Rattrappite in posizioni oscene, raccapriccianti. Con la linfa che le abbandona sotto al sole dei Caraibi. Rimaste immobili nell’ultima posa, quella protettiva che non ha potuto nulla contro la forza di gravità. Quelle che sembrano statue di sale beccate all’improvviso dalla sorprendente violenza della natura. Se uno si avventura tra le macerie, tra un quaderno, una scarpa, una foto, compare un pezzo di torace, un braccio. Lo senti un po’ prima di vederlo. Dalla puzza immonda, dolciastra, disgustosa, che si diffonde nell’aria, attraversa il filtro della mascherina, della bandana, e ti si inalbera nel cervello, nella carne. E te la porti appresso.

I primi giorni, troppi, i cadaveri non vengono portati via. O non vengono portati via tutti. Sono troppi. E poi la gente ha paura di toccarli. Ce n’è uno, immortalato dalle macchine fotografiche dei miei compari, che è stato lasciato in mezzo a un incrocio. Come la pizzarda dei vigili urbani a Piazza Venezia. Quasi una rotonda intorno a cui circolano le macchine. E nei palazzi ombre scavano per trovare qualcuno o qualcosa da portare via. Li chiamano sciacalli. Ma se pensi che questi hanno perso tutto, sono crepate duecentomila persone, non c’è acqua, non c’è da mangiare, io non mi sento di chiamare uno sciacallo perché cerca qualcosa da vendere, mangiare, scambiare, da sotto le macerie.

Intanto i potenti mezzi sanitari soccorrono. In una visita serale alla sede amministrativa di Medici Senza Frontiere, ieri sera ci siamo imbattuti in decine di anime in pena buttate per terra, all’esterno di un edificio che non è venuto giù, perché costruito per bene. Questo non è un ospedale, sono uffici, ma la gente viene soccorsa lo stesso. Sulla rampa in discesa del garage giacciono decine di coperte, cartoni e sopra persone con ossa rotte, traumi cranici, ferite. Le ossa si aggiustano coi cartoni, legati con garze. Dio bono, fallo te un gesso senza il gesso! E fanne centinaia di migliaia. Ai primi gli ha detto culo, poi vai de garza e cartone. La gente fuori dal cancello che strilla e piange. Dentro che strilla e piange. I medici che si smazzano tutti, senza fiatare, a testa bassa. Un goccio di caffè e si ricomincia.

Di nuovo per strada. Di nuovo nel delirio. La parola che rimbomba nella testa, oltre alle bestemmie, che accompagnano e descrivono ogni scena di orrore, è brulicare. Brulicare. Brulicare. Tutto si muove. Senza alcun senso apparente. Anche chi sta fermo si muove.

Noi moschettieri cerchiamo di mantenere la lucidità. I fotografi si devono avvicinare con quell’attrezzo invasivo, sembrano distaccati. Cuttica è quello che a una prima occhiata sembra avere tutto sotto controllo, sembra solido. Salvo poi sbottare con commenti disperati. Credo che fotografi in apnea mentale, ma gli schiaffi gli arrivano forte e prima o dopo fanno male.

In ogni caso è troppa la violenza visiva, olfattiva, disperante, che ci circonda. Noi dobbiamo ricordare che siamo privilegiati, che ce ne andremo, che abbiamo l’acqua, che non abbiamo perso tutto. Quindi non siamo come loro. Siamo solo occhi e orecchie e mani e bocche. Per raccontare a chi non c’è che questo posto esiste. Sento già le polemiche dei duri e puri che ricordano a tutti, sì vabbè Haiti esisteva prima e nessuno se la inculava, con tutti i suoi problemi da paesepiùppoverodellemisferooccidentale. È vero. E quindi? Siete meglio voi che lo sapevate, per quanto mi riguarda la tragedia mi dà l’opportunità di raccontare questo posto e ora che posso lo faccio.

Nell’ospedale che puzza di piscio, di merda, di vomito, di cancrena, di braccia e gambe amputate e di morte, la gente ti racconta com’era casa loro. Com’è stato vedere quelli del piano di sopra che dopo un po’ stavano tre piani sotto di te che giocavi a carte con tua moglie, che però è stata risucchiata e fatta a pezzi dal crollo. Ti raccontano che è un miracolo che hai perso sei persone nella tua famiglia ma tua figlia si è salvata, trovata da un vicino due giorni dopo il crollo. Che Dio è grande e misericordioso nel suo amore. Se lo dici te…

L’arrivo al campo base ONU è straniante. C’è un brulicare di burocrati, funzionari, militari, caschi blu, sbirri, dottori. Anche qui ci si muove molto, e anche qui tutto questo movimento sembra non avere alcun senso. E a giudicare dai risultati ottenuti dalle istituzioni internazionali, forse il senso non ce l’ha proprio.

In compenso qui gli stipendi medi di quasi tutti sono considerevolmente alti, si chiacchiera in inglese, ci si connette a internet e si beve birra fresca, compilando migliaia di moduli, facendo decine di “riunioni operative” importantissime e supersegretissime per capire come cazzo fare a consegnare dei cazzo di pacchi col da mangiare e il da bere.

Nel frattempo si mangia e si beve. E si fanno briefing. Madonna quanti briefing se fanno qua.

Vi ci aspetta in macchina mentre torniamo dalla gita ai luoghi più divertenti di Port au Prince. Noi rimontiamo in macchina. il Principe gli parla in romano. Vi capisce e risponde in creolo ridendo. Ride molto. Perché qualcosa che tutti i megagiornalisti si scordano di dire è che qui la gente è molto gentile, amabile, per nulla aggressiva e violenta. E pronta a sorriderti. Benché gli sia venuto giù gesucristo.

Quindi sorridendo e parlando in creolo (che solo il Principe capisce) torniamo alla base e ci prepariamo a ciò che segue.

diario da Port au Prince. l’arrivo.

Ed eccoci qui nell’epicentro della tragedia planetaria. La verità è che di Haiti non glie ne frega proprio un cazzo a nessuno. Proprio, la gente al mondo pensa che sia un’isola. Invece poi vedi ed è un pezzo di un’isola. Manco è intera. Quella intera, dove poi ci sta Haiti dentro, si chiama Hispaniola. Un pezzo sfigato di un’isola. Un posto povero come pochi, pieno di negri terremotati, uraganati, massacrati più o meno sempre, che manco è l’Africa!! Che sull’Africa sono tutti d’accordo nel cordoglio, negli sguardi contriti, dici Africa e tutti pensano alla faccia un po’ dispiaciuta, all’espressione da salotto, preparata da anni. Dici Haiti e tutti pensano alla Polinesia. Quella è Tahiti. C’ha pure l’acca da un’altra parte. Allora gli fai, no Haiti è quella dei negri però latinoamericani che parlano quel francese strano. Quella che per prima si è resa indipendente, un paese di schiavi. Ah. E ‘ndo rimane?

Ora il terremoto. Sbragate migliaia di vite. In un secondo. Schiacciati sotto le macerie. Invasi i mezzi di comunicazione mondiali da immagini commoventi, strappacòre. Cordoglio a breve termine. Per l’Africa è diverso. Quello è a lungo termine. Rimane. Light, ma rimane. Questo vedi quanto ce metti a scortattelo. Chi se ricorda mo, sull’unghia, do rimane l’Indonesia? Ecco. Appunto. In più questi so pure negri.

Ora. L’armata Brancaleone catapultata nelle strade. Ho bisogno di raccontare le strade perché è qui che succedono le cose. L’azione, catturata dalle immagini dei miei compari, si manifesta e si spiega da sé nella strada. Io qui non parlo solo dei miei occhi. Qui abbiamo moltiplicato i nostri occhi, i nostri nasi, perché uno dei sensi più stimolati è l’olfatto da queste parti in questi giorni. Io ho il compito di raccontare con le parole quello che i nostri quattro corpi hanno registrato in questa settimana.

Alla partenza da Santo Domingo eravamo eccitati. Ma che sarà mai sta famosa Haiti? Ma che se dovemo aspettà? Ma come se dovemo comportà di fronte alle tragedie epocali? Se ponno fa le battute? Non saremo troppo cazzoni per essere testimoni di un evento del genere? Questa è robba che scotta. È robba dell’umanità.

Juan ce guardava appoggiato col braccio sullo sportello aperto della sua Honda bianca. Non sapeva. Salendo a bordo la macchina si abbassava quasi a toccare terra. “A regà, ma secondo voi non è bassina? Me sa che co sta cosa nun arivamo manco ar casello. E ancora non è salito Juan, guarda che panza, pare che s’è magnato er fijo!” E su queste parole del Principe, che rappresentavano i sentimenti dei quattro moschettieri, ci preparavamo non solo a guardare in faccia la STORIA (tutta maiuscola), ma addirittura a raccontarla. Vabbè, un pezzetto, però comunque sempre STORIA. Se solo la STORIA sapesse…

Il primo giro panoramico, il pomeriggio del primo giorno, ci fa stare tutti zitti. La Cité du Soleil. Di passaggio. Un assaggio. Il disastro  è nelle loro vite. Sentivo qualcuno che ha detto “vabbè quelli già erano poracci, che je fa il terremoto?”. Il terremoto je fa. Se te c’hai un palazzo, milioni, 10 macchine e ti crolla tutto ti cambia la vita. Se te non c’hai un cazzo e te crolla tutto te bevi er piscio. Ed è proprio quello che usano fare qui.

Tutto intorno gente che cerca di raccattare pezzi di qualcosa per coprirsi, per vestirsi, per mangiare. E magari tua madre che prima della scossa ti mandava a comprare il riso ora è un mucchio di carne informe, gonfia che puzza che fa schifo. E non solo la tua. Pure quella del tuo vicino, la tua ragazza, il ferramenta, il pappone, la mignotta, il gatto, il rapinatore, l’ebanista, lo scultore. E tutto er condominio loro. E i parenti. E te siccome sei sfigato che sei rimasto vivo manco magni e te bevi l’acqua della fogna. Peccato che la fogna non ci sta. Infatti in questo paradiso tropicale si so dimenticati di fare le fogne. Le stavano a fa eh. Poi però all’ultimo zac! Scordati. Quindi quando tu caghi l’acqua va in certi canali di scolo un po’ così. Si mischia alla monnezza di passaggio. E visto che la città è in discesa, quando piove l’acqua se porta tutto a valle. A fa quello che gli esperti chiamano “er Mischione”. Vicino al quale è stata scattata la foto che sta qua sopra.

Allora ce le immaginiamo le signore haitiane, tesoro, mi raccomando, a mamma, lavati bene le mani quando torni a casa da fuori, che c’è la sporcizia. A mà, le mani me le lavo nel mischione, che cazzo dici?? L’acqua questa è. E poi, quale casa, mà? Ma tanto a noi ce dura un mese la tragedia. Je mannamo l’aiutiumanitari, spediamo lessemmesse da du euri, si attiva l’unità di crisi del MAE e passa la paura.

Questo passa nella mente al vostro reporter preferito e ai suoi compari silenziosi. Si sente il clic delle macchine fotografiche che devono testimoniare l’orrore.

Intorno baraccopoli improvvisate. Teloni. Noi in giro. E giunge la sera ed il buio. Si entra nel girone dantesco. Non so bene quale.  Ma uno brutto. La macchina viaggia a velocità smodata con Jean Philippe che suona come un pazzo. Qua non è che non fai le infrazioni con la macchina. Qua fai le peggio cose con la macchina e mentre le fai suoni il clacson a palla. Sfrecciamo nella notte. Luci senza senso squarciano il buio. Non lo squarciano. lo ovattano. E nella penombra anime in pena vaganti sole insieme. Ombre che camminano. Ombre che occupano la strada. Ci mettono dei sassi a delimitare le carreggiate, o ci mettono i loro corpi sdraiati. Perché dopo sta schicchera de terremoto cor cazzo che dormimo dentro casa. Ah, quale casa?

Ombre che si mettono in gruppo e cantano canzoni a dio e a gesù, che se nun j’è fregato un cazzo de salvarli dal terremoto non si capisce perché mo li dovrebbe aiutare dopo. Arrangiatevi, stronzi!

Si canta insieme inni a gesù per paura degli spiriti. Per sconfiggere la paura. Per sentire calore. Per non sentirsi soli. Ancora più abbandonati. E sta per iniziare un circo, ragazzi, che vi lascerà ancora più soli, anche se dice di aiutarvi.

E noi si continua a sfrecciare. Ora davvero basiti per quest’atmosfera irreale, opaca ma che parla e si fa capire. Ci vorrebbe una foto di Cuttica per capire in un solo istante. E a me invece servono lunghe frasi.

Nel buio intravediamo palazzi crollati schiacciati sformati esplosi in quello che sembra un ghigno sgraziati case di disgraziati.

E noi sfrecciamo.

L’arrivo nella casa della nostra ospite. Una pastasciutta. Dormire sul cemento in giardino su un materasso fatto di asciugamanini che l’Ikea ha mandato come aiuto umanitario. Rossi. Blu. Con scritto Ikea. Grazie Ikea. Ora ti dormo sopra. Sopra la terra che ha tremato. Pronto a quello che deve arrivare.

Il sonno duro alla fine arriva.