diario da Città del Messico. la pioggia a trent’anni

yo
yo

Mancanza di eventi degni di nota? Compiere 30 anni nella città della pioggia. Pensare tanto e combinare poco. E questo blog non si scrive da solo, cazzo!

Ho rischiato di finire di nuovo a braccetto di Zelaya, che se ne sta barricato nell’ambasciata del Brasile a Tegucigalpa, Repubblica bananera dell’Honduras. Ma era tutto chiuso, frontiere, coprifuochi. M’hanno detto, dice, mejo se te ne stai a prende l’acqua in Messico che qua nun c’è trippa pe gatti. Torna domani magari.

Io abbozzo e resto qua. E un mezzo fallimento professionale si trasforma in una benedizione.

In compenso però la vita continua a riservare sorprese strabilianti e a far coincidere persone e momenti.

Navigando tra malinconia, speranza e riflessione, affronto la quarta decade da una prospettiva distorta. Probabilmente sto impazzendo. Ma il naufragar mi è dolce in questo mare.

Oggi, per riprendere un po’ il filo di questi miei diari vorrei solo postare una poesia di un grande scrittore. Perché sì. Vediamo chi la riconosce per primo. (Mia sorella è esclusa dalla gara).

Sull’ultime soglie
ne ho cinque di voglie.
Per ultimo gusto
un vino vetusto.
Per ultima vista
un ciel d’ametista.
Per ultimo tatto
il pelo di un gatto.
Per ultimo udito
del mare il muggito.
Per ultimo odore
l’occulto di un fiore.
Infine vorrei
il cinque far sei,
e stringere al petto
avanti ch’io muoia
ignuda sul letto
la figlia del boia.

Tornerà presto il sarcasmo che caratterizza i miei post. Non sono diventato una mammoletta. Lasciatemi qualche giorno per digerire la meraviglia di alcuni fatti straordinari che mi sono successi e sarò di nuovo il solito stronzo.

Ho portato Vittorio in cantina. Non ho la minima intenzione di farmi vedere  tenero davanti a lui. Hai visto mai se dovesse fa strane idee.

“Come farai a vivere senza di me?” (Menka)

diario da Città del Messico. el grito

15 de septiembre
15 de septiembre

La metro mi rigurgita fuori alla femrata di Bellas Artes insieme a un conato di uomini e donne con le facce pitturate di tricolore.

Mi ritrovo sull’Eje central alle sette di sera, piove da ore e non ha nessuna intenzione di smettere. Nonostante questo mandrie di folla si preparano alla festa. Prendo Avenida Francisco I. Madero, che mi porta dal palazzo di Bellas Artes dritto dritto al Zócalo.

Oggi è il quince de septiembre. Oggi è il giorno del Grito.

Il 15 settembre 1810, al suono della campana del prete Miguel Hidalgo, la borghesia della colonia mesoamericana sferrava l’attacco alla corona spagnola. L’indipendenza arrivò 11 anni dopo. Undici anni di guerra che consentirono al Messico di liberarsi dal giogo dei gachupines.

Sarebbe bello credere che dopo 199 anni il collare è stato spezzato. Sarebbe bello pensare che questo paese non fosse ancora al guinzaglio. Ma accontentiamoci. Almeno adesso i messicani possono urlare nelle piazze il loro orgoglio nazionalista.

Per arrivare al Zócalo devo attraversare controlli della polizia dispiegata su tutte le arterie che portano alla piazza. Metal detector, svuotamento tasche di accendini, cellulare, chiavi, monete. Tutto sotto la pioggia battente che ci accompagna.

La piazza è gremita. C’è aria di festa, ma non c’è grosso entusiasmo. La crisi si fa sentire e la gente non compra le migliaia di puttanate che gli ambulanti cercano di rifilarti ogni due metri.

C’è una signora che porta a spasso figli e nipoti. Le chiedo se è venuta qui per sentire il suo presidente nano che grida Viva México. Lei mi guarda con la faccia sorridente e mi dice, ma pensi che ce ne freghi qualcosa di Calderon? Noi veniamo qui per dimenticare per un giorno tutti i nostri problemi. Altro che grito.

Mi aggiro per la piazza in cerca di scatti-ricordo. Vedo facce che cercano in tutti i modi di grattare alla piazza un po’ di allegria. La pioggia non aiuta.

Esco dalla bolgia. Ripercorro tutta l’Avenida Francisco I. Madero fino all’Alameda. Un altro palco. Un altro grito. C’è Jesusa Rodriguez, un’attrice satirica fenomenale, che tenta di coinvolgere la folla a partecipare. Ci sono gruppi di son che suonano insieme a cantanti rap. È l’anti grito di López Obrador, quello che nel 2006 vinse le elezioni ma che  grazie a una frode elettorale grande quanto Città del Messico fu scippato della presidenza da parte del nano Calderon.

Ogni anno dal 2006 grida Viva México anche lui, da “presidente legítimo” del paese.

Due presidenti. Due gritos. Due piazze. Un paese in crisi nera.

Continuo il mio baño de pueblo sotto il diluvio immerso nella retorica nazionalista, mentre gruppi di ragazzini si sparano in faccia schiuma e coriandoli. Un carnevale istituzionale. Un dies inversus che rinforza lo spirito e fa credere alla gente di vivere in un grande paese di rivoluzioni e di onore.

Vedo solo tanta voglia di crederci.

Finisco la serata al ballo dei 25 anni della Jornada a bere tequila e a ballare sulle note di grandi successi di cumbia e duranguera.

L’anno prossimo sono 200 anni di indipendenza e 100 di rivoluzione. Speriamo che lo spirito degli eroi di questo grande paese intervenga e porti consiglio.

Vittorio si è addobbato le corna con bandierine col tricolore. Povero ottuso.

¡Que Viva México, Cabrones!

diario da Città del Messico. la plaza de toros

hilda la torera
hilda la torera

Vivo a pochi isolati dalla Monumental Plaza de Toros. Che poi è anche la plaza de toros più grande del mondo. Qui dentro la domenica ci fanno la corrida. E io non ci sono mai andato.

Il fatto è che cresci con dei sani ideali animalisti, che ti impediscono quasi fisicamente anche solo di pensare di mettere piede lì dentro. E quando poi ti ci trovi tanto vicino dici, no, vabbè, meglio di no, che crudeltà.

Però ci cammino affianco tutti i giorni per andare a Insurgentes a prendere il Metrobus. E lancio uno sguardo alle statue in bronzo di toreri famosi che campeggiano sulle colonne all’ingresso. Con tanto di tori di bronzo.C’è pure Manolete.

Oppure è l’influenza nefasta di Littorio, il toro di cartapesta con cui convivo, che con quegli occhi da bue mi implora di non andare a vedere matar i suoi fratelli.

Però oggi è un giorno speciale. Oggi torean tre donne torere. E io ho fermo il cuore in petto. Non ho timor. Andrò!

Mi accompagno a degli esperti. A delle autorità taurine.

Prima di entrare fermata d’obbligo a mangiare una birria, una zuppa di carne di capra.

Poi l’ingresso in questo mega imbuto con al centro la plaza. Sono un po’ nervoso. Non so se mi piacerà. Non so se soffrirò alla vista di questo spettacolo barbaro e brutale. Mi passa davanti un indù. Tutti ci guardiamo stupiti. Che cazzo ci fa un indù alla corrida? Ma non erano bestie sacre per voi? Forse è un indù critico sul concetto di induismo.

Poi entrano le torere. E tutto l’armamentario di cavalli, aiutanti banderilleros, tricchettracche e bombe a mano.

Ci accomodiamo sulle gradinate di questo luogo sacro. Silenzio.

Entra il toro.

In realtà mi dicono che questi sono “toretti” da 3/400 chili. Per questo si chiama novillada. Sono toreri che ancora non hanno preso la “alternativa”, un po’ come i novizi che ancora non hanno preso i voti, o qualcosa del genere. Comunque di fatto sono tori più piccoli, meno cornuti, ma ugualmente incazzati.

Queste torere mi piacciono subito. I movimenti del torero fatti da una donna sono aggraziati, nobili. Già le amo. Oggi  facciamo il tifo per una in particolare. Si chiama Hilda e ha iniziato a 13 anni a toreare.

Entrano i cavalli. Con sopra dei panzoni con delle lance. Questi panzoni servono per piantare le lance sul groppone del toro. Per ferirlo e farlo stancare. E quello se stanca. Non prima di aver piazzato cornate contro cavallo e cavaliere, che però sono imbottiti.

Finita questa parte entrano i banderilleros, che piantano tre coppie di banderillas sempre sul groppone. Così. Non ho ben capito perché ma gli rimangono piantate fino alla fine.

Infine la terza parte, la faena, dove il torero si porta a spasso la bestia per tutta la plaza e infine gli pianta una spada sempre in mezzo al groppone.

Tre toreras. Sei tori.

Non l’avrei mai detto ma sono entusiasta. Ho sempre pensato che fosse uno spettacolo crudele. Ma è molto di più. È la sfida con una bestia che pesa dieci volte te. È la bellezza dei movimenti. È il coraggio dei toreros che guardano negli occhi un cazzo di toro che se gli parte la brocca e li incorna sono cazzacci loro. E hanno solo il loro drappo, il loro coraggio e la loro spadina.

La seconda torera viene mezzo incornata. Un sospiro nella plaza. Ruzzolone. Si rialza. Si mette a posto. Ricomincia. Applausi. Quando mata il toro tutti tirano fuori un fazzoletto bianco. Anche il giudice. Sei stata brava e ti spetta l’orecchio del toro. Con l’orecchio in mano Lupita fa il giro della plaza. Dagli spalti le lanciano fiori, cappelli, vestiti. Anticamente l’orecchio del toro era un segno di merito. Il torero dopo la faena si presentava con l’orecchio in mano e gli spettava la carne del toro. Se la poteva portare a casa.

Penultimo toreo. Inizia a piovere. La torera in un lago di fango da sola di fronte al toro. Silenzio. La stoccata finale è magnifica. Il toro barcolla. Crolla. L’ultima immagine è l’acqua sotto di lui che si tinge del suo di sangue. E un mare di applausi.

Dei sei tori ne sono usciti solo cinque. Manca l’ultimo ma piove troppo. La pioggia gli ha salvato la vita. Per questa settimana. Tu non lo sai ma t’ha detto de lusso, toro.

Torno a casa carico. Vittorio si è messo in un angolo e mi guarda coi suoi occhi di tortilla implorante. Ho imparato come si fa. Stai manzo moretto, gli dico, che sono cazzi tuoi. Lui continua a guardarmi con sdegno e paura.

Hai le ore contate toro. Olè!

diario da Città del Messico. Pane e tamales

tamaleeees oaxaqueñoooos
tamaleeees oaxaqueñoooos

Sono le diciotto e cinquantasette a Città del Messico.

Ha appena smesso di piovere e ho voglia di tamales. E forse per la prima volta da quando sono qui, se mi sbrigo a finire questo post, riesco a comprarli in tempo.

Ogni giorno a un’ora ics (che è sempre diversa) passa un carretto che dice tamaleees, oaxaqueñooooos e tu sai che passa uno con la bici che vende i tamales. però, come donne è arrivato l’arrotino a Roma, non potrai mai fare in tempo a vestirti, metterti le scarpe, prendere le chiavi e scendere in strada prima che il venditore di tamales sia scomparso in una nuvola di fumo.

I tamales sono fagottelli di farina di mais. Ricordano la polenta. Si piglia la farina di mais, si lavora in qualche modo a me sconosciuto con acqua e manteca de cerdo, tipo lardo di maiale. Poi si cuoce al vapore dentro foglie di mais o di banano. Dentro al tamal ci trovi una striscetta di pollo con salsa verde (tamales verdes), una striscetta di carne con salsa rossa (tamales rojos) o una specie di marmellata (tamales dulces).

Non so perché mi piacciano tanto, ma potrei mangiarne a tutte le ore. Solo che qui è vietatissimo. I tamales si mangiano solo la mattina o la sera. Se sgarri ti guardano tutti malissimo. A volte ti uccidono per questo. Cioè, non è che puoi andare in giro e chiedere, scusi dove vendono tamales, per esempio alle due del pomeriggio. La risposta standard è, e perché vuoi tamales a quest’ora?

C’è sempre un omino che li vende verso sera vicino all’Oxxo a due isolati da casa mia. dalle sei in poi. Ma finiscono subito. Il fatto è che qui la gente, dico la maggior parte della gente, mangia un po’ male. Come detto i tamales sono fondamentalmente un ammasso di farina di mais. Un conglomerato di carboidrati. Si mangiano sorseggiando atole. Cioè farina di riso sciolta in acqua e zucchero e fatta bollire. Ha la consistenza del mocciolo. Quando uno ha proprio fame si mangia pane e tamales. Che poi si chiama guajolote (che vuol dire tacchino. non chiedetemi perché). Quindi riassumendo. farina di mais, più farina di grano, più farina di riso. e se ti va bene una striscetta di pollo.

Poi dice che i messicani c’hanno la pellagra. Grazie al cazzo. O che so gonfi. Te spari sta colazione e stai attufato almeno otto ore. Così non pensi a che vita demmerda che conduci.

Occhei è un po’ pessimista questa visione. Ma oggi va così.

Ecco. Per stare a spiegare a voi che sono i tamales si so fatte le diciannoveeventicinque. Saranno già finiti. Luridi fascisti! Ora mi dovrò vedere il tiggì e i venti morti decapitati della giornata a stomaco vuoto. Non c’è niente di peggio. È come il cinema senza popcorn.