diario da Arriaga. cavalcando la Bestia

Il caldo squaglia la carne e i binari, il sole arrossa la pelle sul cammino che porta al nord. Noi seguiamo i passi dei migranti che con fiducia affrontano il viaggio. Tra un assalto e una violenza, i centroamericani proseguono sulla strada per Arriaga, un paese polveroso e brutto al confine tra Chiapas e Oxaca.

Ad Arriaga a dire la verità non c’è proprio un cazzo di bello. Però ci passa la ferrovia. E come api sul miele lo sciame di migranti si lancia all’inseguimento della bestia. E noi dietro di loro, cercando di rubare momenti di vita di questa avventura che non ci appartiene ma che sentiamo stranamente nostra. Perché è la storia di tutti i migranti. è il viaggio di ogni uomo che cerca di migliorare le proprie condizioni e quelle dei propri figli appresso a un sogno, in questo caso quello americano. E avoja a dirgli che è un’illusione  quella capitalista, che non si sta poi tanto meglio a conti fatti. Facile dirlo quando si è nati a Monte Mario. Questi hanno preso coscienza di sé in mezzo a un fottuto campo di banane nelle campagne di Olancho, in Honduras. E giustamente inseguono il loro sogno americano. E che so più stronzi de noi?

E il reporter e il fotografo si fanno accompagnare da un vecchio lupo di Tapachula, il panzone Juan de Dios, che manco a farlo apposta si chiama come il tassista di Santo Domingo che ci ha portato eroicamente fino a Port au Prince, quel panzone che “pare che s’è magnato er fijo”. Ecco questo qua pare che s’è magnato er fijo e la madre. Però de treni ce capisce.

Quando arriviamo ad Arriaga iniziamo a capire un po’ meglio la follia di questo viaggio. Per arrivare qui i simpatici migranti si sono sparati 250 chilometri da Tapachula, che noi abbiamo percorso a 150 all’ora in macchina. Loro no. Loro devono affrontare i blocchi stradali di migracion. Ce ne sono 3 prima di arrivare in questo paradiso ferroviario. Se prendono un combi, un pulmino, devono pagare di più l’autista che li fa scendere all’altezza del controllo, quindi essi lo aggirano in mezzo al campo, e sperano di ritrovarci il combi ad aspettarli. Ma come in ogni videogioco che si rispetti, in mezzo al campo ci stanno i banditi che li aspettano con un bel machete in mano, o una pistola. O ci sono i Mara Salvatruchas, quei bonari omoni tatuati che ti fanno a pezzi  e mangiano le tue interiora ancora calde. Qui nel campo i Nostri devono correre di molto per sfuggire ai machetazos o ai colpi di pistola o alle pietrate, perché se li pigliano, i cattivi gli rubano tutto, li ammazzano di botte, li stuprano in gruppo o li fanno fuori. Questo se non c’è la polizia ad aspettarli. Se c’è la polizia cambia tutto, perché oltre a tutto questo la polizia li porta pure all’ufficio migratorio e se ne tornano affanculo a casa loro.

Mettiamo che uno riesca a fare tutto questo senza perdere la vita, o un arto. Arriva ad Arriaga e ancora non ha preso il cazzo di treno. Ha percorso appena 300 chilometri in terra messicana.

L’altro modo di arrivare ad Arriaga è seguire a piedi, per 250 chilometri, i binari del treno. Quei binari che fino a qualche anno fa erano percorsi dalla bestia ma che dopo l’uragano sono rimasti lì come una lunga ferita sotto il sole. A squagliarsi.

E ad Arriaga finalmente si prende il treno. Che parte quando vuole lui. Il treno piglia, arriva, carica merci e riparte. Quando gli pare. Senza orari.

Si vede gente ammonticchiata sui binari della ferrovia ad aspettare. Per giorni. A mangiare tortillas, fagioli, tonno, basta.

Noi aspettiamo pure noi, facendoci raccontare le loro storie, immortalando i loro volti. Ogni storia meriterebbe un blog a parte, ogni vita un’0dissea, ancora prima di affrontare questa.

Quello che accomuna tutti è lo sguardo fiducioso, quasi arrogante, di sfida a una vita di merda che non fa altro che schiacciarli a fondo. E loro, diocane, sempre a tirare su la testa dal fango. Svergognati. Spudorati. Si tirano su. e per farlo subiscono qualsiasi tipo di umiliazione, angheria, ingiustizia.

Forse il sogno americano consiste in questo, nel fondo. Forse è la giustificazione, lo stimolo a tirare su la testa per una volta, a intraprendere e sopportare il cammino.

Seduti all’ombra vicino ai binari si attende pazienti la bestia.

diario da Città del Messico. benvenuto!

Accompagnato da sogni di disastri e morti ammonticchiati faccio ritorno pimpante nella Città. Il DF comparato con Haiti pare la Svizzera. e questo già è straniante.

La città respira. Accoglie le notizie disastrose della vicina Haiti come un’anziana signora. E prosegue lenta e mastodontica la sua vita. È martedì sera e devo vedere un’amica a Coyoacan. Sono le dieci. Acchiappo un taxi al volo. Il tassinaro si lamenta della ruota anteriore. Io lo ignoro. State sempre a lamentarvi di qualcosa, possibile che ce n’è sempre una?

Su avenida Coyoacan la macchina rallenta, senti guardo un attimo sta gomma. Si ferma. Non faccio in tempo a bestemmiare per la mia idiozia e loro sono dentro. Uno davanti e uno dietro. Quello dietro mi rovina addosso coi suoi cento chili abbondanti strizzati nella giacca di pelle. Odore di gel e dopobarba. Eccomi qua in compagnia di due rateros. Me mancava una bella rapina.

Chiudi gli occhi e metti le mani in vista e stai zitto testa di cazzo se no ti piantiamo un balazo in mezzo alla fronte. Esagerato. Avevo intuito che era una rapina. so sempre stato uno sveglio.

Chiudere gli occhi. Mettere le mani in vista. stare zitto e cercare di non farli incazzare. Facilitare il loro lavoro. questi i compiti della serata. Vediamo se ce la faccio.

Il ciccione a fianco a me piazza una gamba sulla mia e mi mette un braccio intorno alle spalle. Siamo affettuosi. In un primo scambio di effusioni mi dice di tirare fuori tutti i soldi. Allora, amico, come te lo spiego che sto più scannato di te? Che tutti quelli che me dovevano pagà fanno i vaghi? Vabbè. Caccio sti 200 pesos (euri 10). Silenzio. Tutto qua? Oh, che devo fa? questi ho. Come? Eh, così. T’ha detto male amico mio. Ok tira fuori il telefono. Quasi mi vergogno. L’ho comprato a Managua per 10 dollari, mi piacerebbe l’aifon, ma purtroppo è andata così. lo voi? E questo che cazzo è? è il telefono mio. porta rispetto, me ce so fatto un colpo di stato e un terremoto. Il ciccio lo passa a quello davanti, che si mette a ridere.

Preso per il culo dai rapinatori a Città del Messico. E dovrei essere l’europeo impaccato di soldi che va a conquistare il nuovo mondo?

Regà, sto colle pezze ar culo. Mi spiace proprio, avrei voluto venirvi incontro. Eh scusa, ci siamo sbagliati. Ti abbiamo visto con la faccia da straniero, pensavamo fossi gonfio. Eh, lo so. So straniero ma anche senza una lira.

Ok, adesso tira fuori il portafogli. Ah, mo sì! Il ciccio lo passa a quello davanti. Che ride. È vuoto, cazzo! Oh, ma che cazzo parlo al vento?

Il ciccio cerca di rassicurarmi. Se non fai cazzate ne esci bene da questa cosa. Devi stare calmo. Fai quello che ti dico io e stai zitto. Dovete imparare a obbedire voi. Ma voi chi? Ma di chi cazzo parli? di quelli che prendono il taxi? degli italiani? dei romanisti? dei trentenni?

Lo penso ma imparo a obbedire, e taccio.

Va bene allora facciamo così. Intanto ripigliati stammerda di portafogli. Grazie. E la sim. Come la sim? che fai me ridai la sim? Capace che ce stanno più soldi dentro di quanti ne fai te co sto citofono se te lo vendi a Tepito. Però taccio.

Dove stavi andando? Alla metro Coyoacan. Ah e devi vedere una ragazza? Ma che cazzo te frega? che sei il mio analista? No, un’amica. Senti, adesso se fai il bravo ti lasciamo da qualche parte. Non lontano da lì. Va bene? Ma no, me piaceva sto giro al buio in compagnia di simpaticoni come voi. Rimango.

Sono passati 15 minuti a fare giri nelle stradine di chissà dove. La macchina rallenta alle indicazioni del ciccione amico mio. Si ferma. Allora ora scendi, cammini normale. Non gridi. Non corri. Non parli con nessuno e te ne vai, se no ti veniamo dietro e ti spariamo, hai capito stronzo? Ho capito. Sicuro? Sicuro.

Sto per scendere. Ma prima l’omino davanti mi passa una cosa. Mi mette tra le mani un biglietto. Questi sono 50 pesos, dice il ciccio. Così ci torni a casa. Siamo rateros però caballeros.

Mi ha ridato i soldi. Il ladro mi ha appena zincato 200 pesos e me ne ridà 50 perché gli faccio pena. Perché non vuole che si abbia un’idea sbagliata dei ladri in Messico. Perché in fondo è un lavoro come un altro, con la sua dignità e le sue regole. Io sono basito. Mi viene da ridere, ma mi ricordo che sono minacciato di morte e quindi non è il caso di lasciarsi andare.

Scendo. Cammino. Non grido. Il suv dei ladri che ci ha seguito per tutto il tempo carica i due compari e sparisce nella notte, insieme al figlio di puttana del tassinaro.

Io vago fino a trovare la strada conosciuta. Fino al mio appuntamento. La mia amica è in ritardo e l’aspetto fumando alla fermata della metro.

Poi non venitemi a dire che questo paese non è surreale, che vi pianto una pallottola tra gli occhi.