diario da Port-au-Prince. forse comuni

E insomma prosegue la vacanza nella perla dei caraibi. Questa magnifica meta turistica che è Haiti. Non si sa più cosa inventarsi per attrarre vacanzieri e quindi hanno puntato sull’esotico necrofilo. Se non eravate soddisfatti dell’ondata di colera ci si può sbizzarrire con le visite guidate nelle fosse comuni, amene spianate in mezzo alle floride campagne haitiane, cosparse di bucolici contadini che usano l’aratro (senza buoi perché quelli costano) per coltivare quattro patate dolci e du pommidoro.

Inoltrandosi nelle soleggiate campagne haitiane, si viene raggiunti da repentine folate di morte, indizio che nei dintorni si apre una fantastica fossa comune, che oltre a ospitare vecchi cadaveri del terremoto oggi trabocca di cadaveri freschi senza nome, ammucchiati in discesa a difesa della loro celebrazione, verrebbe da dire, se non fosse più appropriato riferirsi con questa frase a carogne italiane che risiedono nel parlamento.

Dunque con la motoretta cinese si va a fare una scampagnata per vedere un po’ di bellezza naturale, visto che in città le strade sono nere di polvere, di cenere di copertoni bruciati negli scontri dei giorni scorsi. Nelle strade di Port-au-Prince ci sono state barricate, fumogeni, bastonate, incendi. Come a Roma, solo che questi c’hanno pure il colera, e con la differenza che se si ribellano e fanno le barricate l’opinione pubblica internazionale dice, beh, insomma, sono violenti però hanno ragione sono esasperati ti credo che si ribellano con lo schifo che fa la politica haitiana, con le porcherie che sono costretti a vivere sulla loro pelle, sulla loro carne martoriata.

Invece se lo fai a Roma, a Atene, a Londra, sei un facinoroso, antidemocratico, perché come dice robbertosaviano, la violenza è robba vecchia, sei out, sei un looser, sei un antico, stai delegittimandoti da solo, stai PASSANDODALLAPARTEDELTORTO. Stai passando dalla parte del torto. Questa frase si merita e si è sempre meritata un gigantesco vaffanculo. Che la dica robbertosaviano o Gianni Alemanno (che è vero, era diverso lui, perché invece di metterci la faccia andava a menare come un infame, come tutti i fascisti della sua specie) non fa molta differenza. Rimane una colossale stronzata.

Haiti è piena di black block. Forse perché sono negri e fanno le barricate.

Dunque Port-au-Prince si trasforma in un campo di battaglia, dove a gente esasperata e frustrata si riconosce il diritto di incazzarsi di fronte all’ennesima ingiustizia che subisce. E quindi uno decide di trasferirsi ad Haiti, perché, sí, ci sarà pure il colera, le strade sono una schifezza, le fogne sono a cielo aperto, c’è stato il terremoto, è pieno di negri incazzati, ma almeno non ti dicono che sei uno stronzo se rendi manifesta la tua rabbia.

Però oggi eravamo in moto, a fare scampagnate sull’isola tropicale. Che poi ti scordi facilmente che stai su un’isola. Ti scordi che c’è il mare. Come se il mare fosse troppo bello per andare d’accordo con lo schifo che dilaga ad Haiti.

Vedendo il cranio di uno sconosciuto esposto alle mosche, alle intemperie, sgusciando fuori da un sacco di plastica dove era stato avvolto per essere buttato insieme agli altri cadaveri nella fossa comune, mi viene in mente una cosa un po’ banale. In questi momenti non pensi a cose intelligenti. Pensi a cose banali.

Io penso che è disdicevole farsi vedere in questo stato. Anche se sei morto bisogna mantenere un certo contegno. Bisogna subire con dignità. Farsi gettare merda addosso va bene, anche per tutta la vita, ma non è accettabile una reazione scomposta.

“Silenzio! e arrispettate il presidente!”

diario da Port au Prince. polpacci

Vabbè, è un po’ presto per fare un bilancio. Sono arrivato da poche ore e non ho ancora visto molto. Ma il poco che ho visto mi sconforta. Il mio secondo arrivo a Port Au Prince è diverso dal primo. Innanzi tutto arrivo in aereo. L’altra volta avevamo raggiunto questa perla dei caraibi in macchina col sempre valido Juan, da Santo Domingo. Ora no. Ora si arriva comodamente da Miami, in comodi voli American Airlines, circondati da comodi ciccioni americani pasciuti e inguainati in magliette gialle, azzurre, rosse, con i simboli di congregazioni religiose, con cappelletti tutti uguali, con shorts che scoprono pallidi polpacci grassottelli, con scarpe da ginnastica comode, con badge in vista.

La prima domanda è: ma che cazzo ci fanno tutti questi gringos in volo verso Haiti?

Il mio aereo da Miami, che immaginavo deserto verso una destinazione piena di colera, è invece stracolmo di gringos. Molti di una certa età. Tutti visibilmente entusiasti ed emozionati, con l’atteggiamento spensierato di colui che va a farsi una bella vacanza. O di colui che va a diffondere la parola di dio e a fare del bene. Non capisco quale delle due cose stanno facendo questi qui, ma forse è l’effetto dell’hamburger che mi sono appena mangiato.

Insomma decine di americani biondissimi che si precipitano da remote cittadine del Texas, del Kansas, del Kentucky verso la ridente isola caraibica.

Un haitiano che mi fa fare una telefonata uscito dall’aeroporto mi dice che sì, effettivamente ce ne sono tanti di gringos, arrivano tutti i giorni, da mesi, vengono con le loro missioni religiose, vengono a dare una mano.

Una mano a fare che? Che tipo di mano danno centinaia di americani che fino a un’ora fa manco sapevano dove fosse Haiti, che non sono mai usciti dal loro ranch e che hanno palesemente delle scarpe inadatte alle latrine a cielo aperto di Port Au Prince? Vengono a salvare anime. Vengono a fare propaganda. Vengono a vendere il loro prodotto ai poveracci. Vengono a vendere dio. Ed è un buon momento, perché si sa che dio vende di più quando c’è il disastro, quando non si sa proprio che cazzo fare.

Le strade intanto, dopo quasi un anno dal terremoto, sono ricoperte di detriti, come se fosse stato ieri. ancora devo farmi un’idea più precisa. Ancora devo uscire. Intanto mi assalgono immagini di americani che portano i loro aiuti a questi poracci. Che dio ce ne scampi e liberi.

diario da Port au Prince. il ritorno.

Giunge all’ultima puntata il racconto delle mirabolanti avventure haitiane dei quattro moschettieri freelance.

Mentre inviati speciali italiani di grandi testate nazionali vanno a scopare a Santo Domingo coi soldi del giornale, dichiarando al mondo di raccontare l’inferno di Haiti, i vostri reporter preferiti si smazzano per tirare su i soldi del biglietto aereo. Probabilmente abbiamo sbagliato noi. E del resto come si fa a resistere alle puttane ragazzine dominicane? Bisogna capirli questi anziani inviati speciali. È una vita dura, piena di stenti, sempre con la valigia pronta per partire nei luoghi più disgraziati della terra, è ovvio che uno cerchi il conforto e la tenerezza tra le cosce mercenarie di giovani minorenni di qualche paese sottosviluppato.

Ci tocca raccontare queste cose oltre alle vicende di un popolo dimenticato da dio. Anzi. Non è che dio l’abbia dimenticato, come sostiene un signore haitiano con cui mi faccio una chiacchierata. È che qui facciamo il vodoo, la magia nera, e allora dio è arrabbiato e ci punisce. Ma allora cristo, se lo sapete la volete piantare co sta cazzo di magia nera? Dico, che altro deve fare sto dio per dimostrarvi che vi odia?

Gli ultimi giorni è un accalcarsi di tende per l’arrivo di forze fresche delle varie agenzie ONU. Servono menti riposate per affrontare tutti quei briefing. Accorrono inviati speciali da tutto il mondo, dopo ormai una settimana dall’inizio della festa. Tutti in cerca di storie nuove, di angolature diverse, creative, che nessuno ha ancora raccontato.

È tempo di andarmene, di abbandonare la mia casa, il cartone sul pratino, e di tornare al Distrito Federal, con questo magone che comincia a salire, a prendere forma. Perché uno stando lì nel mezzo dell’azione non può permettersi di sentirsi male. C’è l’adrenalina, la tensione, le mille cose da fare, da scrivere. Si è lucidi, razionali, operativi. La merda arriva dopo. Arriva per esempio quando il Principe, ormai a casa, viene a sapere che sua zia è morta, e si rende conto che ognuna delle singole 200 mila vittime era una zia, una mamma, un figlio, per qualcuno. Ognuno di quei cadaveri scomposti e putrefatti era una persona. Ma quando sono così tanti, quando è così diffuso l’orrore non li vedi come cristiani. Li vedi quasi come pezzi del paesaggio.

Lascio questo paese con un nodo in gola. Con il desiderio di restare, per continuare a raccontare una terra senza speranza, vittima delle forze della natura, dell’ottusità di eserciti che cercano di spartirsela mettendosi addosso la bandiera degli aiuti. Non posso restare perché non me lo posso permettere. Perché non ho un giornale che mi paga le troie. Devo rientrare in Messico, scroccando il passaggio di un Cessna che fa avanti e indietro da santo domingo.

Lascio Cutie e il Principe a continuare a scattare foto. Immagini atroci e bellissime, se si può parlare di bellezza qui. La foto più inquietante è quella di una bambina, fatta dal Principe in un ospedale. Invece di essere frantumata, amputata e sofferente, la bambina piange, ma perché è appena nata. La foto di un parto, tra tutti questi morti, ha un effetto straniante. Senti che è bella, è potente, ma non puoi fare a meno di chiederti che cazzo c’entra la vita in questo posto.

E invece c’entra. Questo posto è pieno di vivi. Che forse si meriterebbero un po’ di attenzione pure loro.

Torno a casa e trovo Vittorio. il toro di cartapesta che ancora non ha capito un cazzo di come funziona il mondo. Lo metterò su un cargo per dar da mangiare a qualche haitiano.
Trovo gli amici, che mi chiedono com’è stato. Che mi dicono come si fa a adottare un haitiano. Io non riesco a non rispondere che, beh, è stato da paura, del resto il Caribe è pur sempre il Caribe, una favola.

Per quanto riguarda le adozioni. Ho deciso di adottare due bambine haitiane di vent’anni. Per solidarietà con il popolo fiero dell’isola e anche un po’ coi colleghi inviati speciali. Due piccioni con una fava.

diario da Port au Prince. occupazione (o le ali della libertà).

Dell’approccio creativo dei marines alle tragedie umanitarie si è già detto. Quello su cui vorrei tornare è l’immagine che si è data del popolo haitiano negli ultimi giorni. Gente che fa sommosse, che tira fuori i machete, che minaccia la sicurezza propria e altrui. Bestie di satana che si avventano sui poveri stranieri che cercano di aiutarli. Tanto da giustificare una presenza molto massiccia di militi prevalentemente della U.S. Army.

E dunque Haiti è occupata. Mentre le Nazioni Unite fanno briefing uno appresso all’altro, ti ritrovi soldati su mezzi blindati che girano per le strade di Port au Prince come se si trattasse di Saigon, fucili spianati e sguardo molto maschio e molto cattivo.

La gente da parte sua se li rimira come se fossero matti. Ma che cazzo andate in giro armati così?

Annosa questione. Ma ste famose sommosse popolari ci sono state? Dunque per rispondere facciamo un po’ di cucina. Prendiamo centinaia di migliaia di persone rimaste senza nulla (mi pare che il concetto, a questo punto, sia abbastanza chiaro) che stentano a trovare del cibo e dell’acqua. Aggiungiamo frustrazione e risentimento verso una comunità internazionale che non è in grado di organizzare la distribuzione dei viveri che quotidianamente atterrano all’aeroporto e rimangono stipati lì. A parte aggreghiamo i marines che come tutti sanno sono esperti di distribuzione di aiuti umanitari, che senza avvertire nessuno né coordinarsi ad esempio col World Food Programme decidono di lanciare a pioggia col paracadute a casaccio (tecnicamente a cazzo di cane) razioni k, cioè quei simpatici pacchettini con dentro sorprese alimentari, senza alcun criterio. Se io sono un capo banda armata e mi vedo piovere viveri dal cielo senza nessun controllo è ovvio che mi lancio a pesce ad arraffare, e se posso a rubare anche ai miei compatrioti. E dunque lo faccio. E minaccio gli altri di morte. E se non si tolgono dalle palle li faccio proprio fuori.

Ripetere l’operazione finché non si scatena una sommossa e servire a temperatura ambiente.

Viaggiando come i cani sulla fuoriserie di Vi non ci è capitato mai di vedere le violenze raccontate e gridate dai media di tutto il mondo. Parlando con gli operatori sul campo, con i volontari, con i gendarmi francesi, che pattugliano le strade con quei loro adorabili vestitini celesti, nessuno ha confermato l’efferatezza delle violenze. Non più di quanto ci si possa aspettare in una situazione del genere.

Ma se non c’è violenza sommossa, spargimento di sangue, come si giustificano le migliaia di soldati? Come si giustifica il colpo di mano dell’esercito?

Per capirlo io e Sciacallo cogliamo l’occasione al volo e ci facciamo invitare su un Seahawke, un elicottero della U.S. Navy, che tiene parcheggiate le portaerei al largo della città.

Dopo due ore a farsi esplodere le orecchie all’aeroporto tra elicotteri cargo militari, hercules, aerei civili della American Airlines, è il nostro turno di salire su questo attrezzo cafonissimo e molto maschio.

Il marine che si occupa del rapporto coi giornalisti è amabilissimo, sorride, fa battute. Cesare Lombroso lo avrebbe sicuramente tacciato di criminale a giudicare dai suoi tratti somatici leggermente “ottusi”, ma a noi ce fa tanto ride, che sagoma!

Dunque i due moschettieri si preparano a un pomeriggio da embedded. scattiamo foto ai robusti soldatini che davanti a telecamere, instancabili, caricano razioni k e bottigliette d’acqua sui mirabolanti seahawkes che vanno e vengono sul pratino dell’aeroporto. Ci tengono proprio a far vedere che sono indispensabili.

Arriva il nostro turno dopo un’attesa interminabile. Ci forniscono di due caschi con copriorecchie e saltiamo agilmente sui potenti mezzi dell’aviazione americana. Stipati in mezzo a decine di scatoloni di cibarie che, a quanto dicono i marines, devono servire a sfamare 10mila persone per 5 giorni. me cojoni!

si sorvolano i paesaggi haitiani per 15 minuti. Montagne semi deserte, fino ad arrivare a Jacmel, a sud di Port au Prince. Va detto che sti elicotteri dentro so tutti sgarrupati e mezzo sfonnati, non è che stiamo proprio viaggiando con la tecnologia di punta. Ma in ogni caso per dei giovani freelance italiani, temporaneamente embedded, che devono essere sedotti, fa comunque la sua porca figura.

Si atterra. Si scarica la merce. Foto ricordo. Poi risalite al volo se no vi lasciamo qua. E risaliamo… Di nuovo in volo su valli e colline. Finché non arriva l’imprevisto. Regà, scusate, dice il baldo soldato, c’è finita la benzina, tocca annà a fa rifornimento un attimo alla porteaerei. Come finita la benzina? E noi qua sopra a fa gli splendidi senza benzina? E annamo su sta portaerei, che te devo dì? Dopo il rifornimento, si riparte veloci come il fulmine verso Port au Prince. Ma prima a sorpresa sorvoliamo un quartiere che dà sul mare. E da qui su lo Sciacallo riesce a scattare delle foto di centinaia di poracci che si accalcano su cinque navi stile carrette del mare di Lampedusa. Più altre centinaia di persone ammucchiate a riva in attesa di salire a bordo. E dove cazzo vanno questi? Non mi dire che stanno cercando di scappare via mare? Ma siete pazzi? Gli americani hanno detto proprio specificamente, noi ve volemo tanto bene, aiuti, tricchettracche, cotillon, però nun dovete cacà er cazzo. Rimanete qua, no che venite tutti a Miami a fa come ve pare!

Invece quelli proprio se ne vanno. Ce provano. Perché se è vero che il presidente del Senegal ha offerto un pezzo del suo paese ai fratelli haitiani per farli tornare in Africa, gli Stati Uniti stanno lì appizzati per rimpatriarli tutti.

Finito il giro ringraziamo per la gentilezza e ci ributtiamo nel marasma, felici di aver visto all’opera i veri buoni, felici di aver provato l’ebbrezza di essere embedded, ma un po’ con la sensazione sgradevole di aver vissuto sulla nostra pelle il concetto di “media asserviti”. Mo perché noi siamo vagabondi e randagi e non ci comprano co du noccioline, e quindi racconteremo per bene che porcate fanno gli americani da ste parti, però sono certo che altri si sono fatti fregare co du gomme da masticare e no specchietto.

Haiti di notte direi che è buia e di bello c’è che si vede un oceano di stelle sulla testa. Sdraiato su un cartone sul prato della base ONU, cena scroccata, con una copertina aspetto che arrivi il sonno. Qua non si sogna.

diario da Port au Prince. in gita.

Le giornate sono caotiche. Ti svegli sempre con la schiena incriccata, magnato dalle zanzare, roduto perché hai dormito tre ore.

Noi ci svegliamo, prepariamo la saccoccetta con le macchine fotografiche, i registratori, le mascherine, i crèc, l’acqua. E via, veloci come il vento tra le strade di Port au Prince. Mezzo di locomozione: un’altra autovettura ad assetto ribassato. Stavolta di un colore quasi viola melanzana. Alla guida Vi. Il nome è un altro, ma ogni volta che lo pronuncia suona diverso, per cui ci siamo settati su Vi e pare che vada bene pure a lui.

È il vicino di casa della nostra ospite, Fiammetta, la santa donna cooperante che ci ha accolto come dei fratelli randagi.

Vi ci scarrozza per la città per farci vedere le meraviglie del paesaggio. E dunque si parte in gita. Tra i palazzi sventrati una volta ripieni di vita e che ora “rigurgitan salme”. E le salme sono tante. Buttate in mezzo alla strada. Gonfie. Rattrappite in posizioni oscene, raccapriccianti. Con la linfa che le abbandona sotto al sole dei Caraibi. Rimaste immobili nell’ultima posa, quella protettiva che non ha potuto nulla contro la forza di gravità. Quelle che sembrano statue di sale beccate all’improvviso dalla sorprendente violenza della natura. Se uno si avventura tra le macerie, tra un quaderno, una scarpa, una foto, compare un pezzo di torace, un braccio. Lo senti un po’ prima di vederlo. Dalla puzza immonda, dolciastra, disgustosa, che si diffonde nell’aria, attraversa il filtro della mascherina, della bandana, e ti si inalbera nel cervello, nella carne. E te la porti appresso.

I primi giorni, troppi, i cadaveri non vengono portati via. O non vengono portati via tutti. Sono troppi. E poi la gente ha paura di toccarli. Ce n’è uno, immortalato dalle macchine fotografiche dei miei compari, che è stato lasciato in mezzo a un incrocio. Come la pizzarda dei vigili urbani a Piazza Venezia. Quasi una rotonda intorno a cui circolano le macchine. E nei palazzi ombre scavano per trovare qualcuno o qualcosa da portare via. Li chiamano sciacalli. Ma se pensi che questi hanno perso tutto, sono crepate duecentomila persone, non c’è acqua, non c’è da mangiare, io non mi sento di chiamare uno sciacallo perché cerca qualcosa da vendere, mangiare, scambiare, da sotto le macerie.

Intanto i potenti mezzi sanitari soccorrono. In una visita serale alla sede amministrativa di Medici Senza Frontiere, ieri sera ci siamo imbattuti in decine di anime in pena buttate per terra, all’esterno di un edificio che non è venuto giù, perché costruito per bene. Questo non è un ospedale, sono uffici, ma la gente viene soccorsa lo stesso. Sulla rampa in discesa del garage giacciono decine di coperte, cartoni e sopra persone con ossa rotte, traumi cranici, ferite. Le ossa si aggiustano coi cartoni, legati con garze. Dio bono, fallo te un gesso senza il gesso! E fanne centinaia di migliaia. Ai primi gli ha detto culo, poi vai de garza e cartone. La gente fuori dal cancello che strilla e piange. Dentro che strilla e piange. I medici che si smazzano tutti, senza fiatare, a testa bassa. Un goccio di caffè e si ricomincia.

Di nuovo per strada. Di nuovo nel delirio. La parola che rimbomba nella testa, oltre alle bestemmie, che accompagnano e descrivono ogni scena di orrore, è brulicare. Brulicare. Brulicare. Tutto si muove. Senza alcun senso apparente. Anche chi sta fermo si muove.

Noi moschettieri cerchiamo di mantenere la lucidità. I fotografi si devono avvicinare con quell’attrezzo invasivo, sembrano distaccati. Cuttica è quello che a una prima occhiata sembra avere tutto sotto controllo, sembra solido. Salvo poi sbottare con commenti disperati. Credo che fotografi in apnea mentale, ma gli schiaffi gli arrivano forte e prima o dopo fanno male.

In ogni caso è troppa la violenza visiva, olfattiva, disperante, che ci circonda. Noi dobbiamo ricordare che siamo privilegiati, che ce ne andremo, che abbiamo l’acqua, che non abbiamo perso tutto. Quindi non siamo come loro. Siamo solo occhi e orecchie e mani e bocche. Per raccontare a chi non c’è che questo posto esiste. Sento già le polemiche dei duri e puri che ricordano a tutti, sì vabbè Haiti esisteva prima e nessuno se la inculava, con tutti i suoi problemi da paesepiùppoverodellemisferooccidentale. È vero. E quindi? Siete meglio voi che lo sapevate, per quanto mi riguarda la tragedia mi dà l’opportunità di raccontare questo posto e ora che posso lo faccio.

Nell’ospedale che puzza di piscio, di merda, di vomito, di cancrena, di braccia e gambe amputate e di morte, la gente ti racconta com’era casa loro. Com’è stato vedere quelli del piano di sopra che dopo un po’ stavano tre piani sotto di te che giocavi a carte con tua moglie, che però è stata risucchiata e fatta a pezzi dal crollo. Ti raccontano che è un miracolo che hai perso sei persone nella tua famiglia ma tua figlia si è salvata, trovata da un vicino due giorni dopo il crollo. Che Dio è grande e misericordioso nel suo amore. Se lo dici te…

L’arrivo al campo base ONU è straniante. C’è un brulicare di burocrati, funzionari, militari, caschi blu, sbirri, dottori. Anche qui ci si muove molto, e anche qui tutto questo movimento sembra non avere alcun senso. E a giudicare dai risultati ottenuti dalle istituzioni internazionali, forse il senso non ce l’ha proprio.

In compenso qui gli stipendi medi di quasi tutti sono considerevolmente alti, si chiacchiera in inglese, ci si connette a internet e si beve birra fresca, compilando migliaia di moduli, facendo decine di “riunioni operative” importantissime e supersegretissime per capire come cazzo fare a consegnare dei cazzo di pacchi col da mangiare e il da bere.

Nel frattempo si mangia e si beve. E si fanno briefing. Madonna quanti briefing se fanno qua.

Vi ci aspetta in macchina mentre torniamo dalla gita ai luoghi più divertenti di Port au Prince. Noi rimontiamo in macchina. il Principe gli parla in romano. Vi capisce e risponde in creolo ridendo. Ride molto. Perché qualcosa che tutti i megagiornalisti si scordano di dire è che qui la gente è molto gentile, amabile, per nulla aggressiva e violenta. E pronta a sorriderti. Benché gli sia venuto giù gesucristo.

Quindi sorridendo e parlando in creolo (che solo il Principe capisce) torniamo alla base e ci prepariamo a ciò che segue.

diario da Iztapalapa. benvenuti in Afghanistan

Iztapalapa - AfghanistanAllora decido che voglio fare un giro panoramico per la famosa Iztapalapa. Cristo ne parlano tutti, tocca che vado a farci un salto. Dice, no ma sei pazzo so tutti criminali, te spanzano, te rapinano, te fanno a pezzi a Iztapalapa. Dico vabbè dai però io so giornalista ce devo annà se no che cazzo ce sto a fa qua nel famoso Messico?
Dice vabbè allora fai come cazzo ti pare, però poi non lamentarti se fai una bruttissima fine violenta e feroce.

Vabbè allora vado. Mi accompagna nella terra di nessuno un’amica che lavora da quelle parti. Mi passa a prendere la mattina presto e mi spiega in macchina nel tragitto un po’ di cose su Iztapalapa. Io un po’ perché non sono proprio abituato a svegliarmi così presto, un po’ perché l’amica in questione è decisamente una fata, non capisco un cazzo di quello che dice e mi limito ad assentire inebetito.

Giunti sul luogo però sono pervaso dalla tranquillita. Quella tipica degli ottusi.

Accompagnato dalla jefa della delegazione (la sindachessa) faccio un tour nei quartieri alti di questo barrio di due milioni di abitanti. Un posto davvero ameno. Il colore predominante è il grigio. Un bel grigio abusivismo. Di fatto tutta la zona è abusiva. Un quartiere grande come l’Avana fatto di case abusive di cemento ammucchiate tra pianura e montagna. La prima cosa che mi dice un ragazzetto di fronte al mio sguardo basito è ti piace Iztapalapa, guero? Benvenuto in Afghanistan!

C’è una signora che racconta che qui ti rapinano ogni tre per due. Gli sbirri invece di lavorare fanno le ammucchiate con le troie dentro la centrale di polizia, gli spacciatori fanno affari d’oro. Poi se ti rubano la macchina in qualsiasi parte della città dopo mezz’ora puoi venire a ricomprarla a pezzi qui.

In compenso l’acqua arriva una volta alla settimana ed è marrone, la gran parte della gente non ha manco il telefono e i ragazzini passano le giornate a farsi di crack.

per uscire dalle zone alte ci vogliono due ore perché i microbus non passano e a piedi è un po’ come andare da Genzano a San Giovanni. Solo che a ogni angolo rischi di farti sparare da un rapinatore strafatto.

Qui però c’è gente che comincia a farsi rodere il culo. si stanno organizzando per scendere dalla montagna e fare un po’ di casino. E considerato che non hanno un cazzo da perdere è verosimile che la situazione si faccia interessante. Da ste parti si dice “En México no pasa nada hasta que pasa. Y cuando pasa…”

Vuol dire che in Messico non succede un cazzo, finché non succede. Ma quando succede sono cazzi amari.

Finisco il tour in casa di una signora che ci offre un tè che sa di paglia. Torno al mio quartiere stordito. Il toro vuole sapere tutto ma io sono stanco e non riesco nemmeno a picchiarlo a sangue. Ho appuntamento domani con un trafficante di corna che ho conosciuto a Iztapalapa. Se lo viene a prendere domani alle 7. Se tutto va bene alle 7.30 si può andare a ricomprarlo a pezzi da quelle parti.

 

diario da Città del Messico

un'opera di Jimena
un'opera di Jimena

Se ti invitano a una comida (un pranzo) da queste parti vuol dire che ti devi presentare dalle 4 di pomeriggio in poi.

Sono invitato a una comida a casa di Jimena, la cugina di Silvia. Jimena è una scultrice, pittrice, artista. È di origine svizzera. È vegetariana. È fidanzata con un musicista metal che si chiama Roger.

La famiglia di Silvia è composta di vari cugini e cugine. Ci presentiamo a mani vuote e l’ambiente è subito accogliente. Tutti gli invitati sono dei surreali. Ora non è per voler sottolineare banalmente che il Messico è un paese surreale, c’è il surrealismo, eccetera. Il fatto è che sono proprio dei surreali. SIlvia compresa.

La giornata è distesa. Pioviccica e noi comunque rimaniamo nel patio a socializzare. Entrano e escono in continuazione giovani musicisti metal tatuati che vengono a suonare nella sala prove che Roger ha acchittato a casa sua. Gente assurda, dall’aspetto truce e estremamente gentile e cordiale. Ma chi l’ha detto che i metallari so brutti e cattivi? Questi si presentano. Dicono buona sera. Grossi sorrisi. Salvo poi mostrare le copertine dei loro dischi in cui magari è rappresentato un gesucristo in putrefazione con un crocifisso piantato in gola. Persone a modo.

Poi Roger comincia a parlare della parte della famiglia affiliata a una setta cristiana. La storia è quella di un famoso rapper messicano che di punto in bianco ha scoperto dio e gesucristo. e ora dedica la vita a salvare giovani dalla strada attraverso la parola del cristo.

“Non avete capito quanto è figo gesucristo. Gesucristo è una figata pazzesca – dice il pastore rapper, accompagnato da un gruppo che si chiama Fé fighters (i combattenti della fede) – Ma chi l’ha detto che gesucristo non era cool? Ragazzi, gesucristo era un figo da paura. Oddio quanto ci piace gesucristo” e via dicendo. Questa è la nuova moda religiosa degli ultimi anni. Che fa breccia nei giovani cuori sbandati di drogatelli teenager.

I cristianos, appartenenti alla setta, hanno capito che l’unico modo per fare adepti tra i giovani è vendere gesucristo e dio come dei prodotti alla moda. Basta questo. dio non punisce. dio è un taglio! La droga è una merda e gesù spacca i culi!

Più bevo e più mi entusiasmo al racconto. Più mi entusiasmo e più bevo. E più mi suggestiono con le sculture di Jimena a forma di lupi a due teste, di alci dal corpo umano e dalle corna ramificate. dio si manifesta in forma di gesù rapper con le corna di alce. Sono suggestionato.

Vorrei farmi dare da Jimena un altro animale di cartapesta per sostituire l’ottuso Littorio. Quasi quasi lo porto dai cristianos e lo faccio portare via da gesù. Ormai siamo separati in casa.

Una di queste domeniche andrò a una funzione religiosa. Spero di non farmi abbindolare. Stanotte spero di sognare gesù. e di cantare un rap insieme a lui.