diario da Chahuites. cavalcando la Bestia

In cima alla bestia ti ci devi arrampicare. Il tetto di lamiera scotta quando ci appoggi una mano sopra. L’aria è calda e umida e ti si appiccicano i vestiti addosso. Sul vagone io e Cutie ci sistemiamo insieme a un gruppo di honduregni che seguiamo da giorni. C’è Henry, che viveva in New Jersey, ha perso la moglie ed è stato deportato pochi mesi fa perché l’hanno beccato a guidare senza patente. E senza documenti migratori. Fila subito a casa tua, figlio di mignotta indocumentado, gli hanno detto, sì ma ho una bambina di un anno e mezzo. Cazzi tuoi. Ora monta la bestia.
C’è Cristian, che dall’Olancho, una zona rurale dell’Honduras, ha lasciato moglie e tre bambini e la sua lotta, perché lui era nella resistenza contro il colpo di stato che tutti hanno dimenticato. è nato nel paese a fianco a quello di Isis, il ragazzino a cui l’esercito del suo paese ha fatto saltare la testa il 5 luglio dell’anno scorso. Era al suo funerale. Pure io, gli dico, certo dice lui, mi ricordo, eravate un gruppetto di giornalisti. E ora me lo ritrovo qui a cercare di arrivare a nord. Perché i miei figli mica voglio farli crescere in quella merda, mica voglio farli crescere come degli sfigati.
Poi c’è Oscar. Lui questa strada l’ha già fatta poco tempo fa. Col figlio. Lo ha fatto passare dall’altro lato. Poi la border patrol li ha beccati. Oscar si è sparato 3 mesi di galera e poi è stato rimandato affanculo a casa sua. E mo lui ci riprova, vediamo chi c’ha più tigna.

Al tramonto viaggiamo col vento in poppa alla mirabolante velocità di 23 kmh su questa macchina infernale. Dice, 23 chilometri che cazzo sono? fai prima a piedi. Ecco, pare che se provi a buttarti da un treno in corsa a 23 chilometri orari ci sono ottime possibilità che ti frantumi sulle roccette che si stagliano ai lati della ferrovia. Poi pare anche che se ti ritrovi nel tuo vagone un paio di mara salvatruchas, quei simpaticoni con i numeri tatuati sulla faccia, è frequente che ti portino via tutto e ti sparino qualche pallottola in faccia, se non fai il bravo. Sempre perché col cazzo che ti butti da un treno in corsa. pure se corre come un ciccione in salita.

Sul nostro vagone di prima classe viaggia anche il nostro Virgilio, Juan de Dios, che come ricordavo in un altro post, è un pachiderma di 200 chili di esperienza. Ce l’hanno caricato a forza qua sopra, un po’ perché i migranti sono solidali, un po’ perché faceva riderissimo vedere il panzone arrampicarsi sulla bestia, sudando e bestemmiando il suo stesso nome, che contiene un dio sadico e perverso.

Nell’amenità del tramonto qualcuno fa comparire un mazzo di carte. E daje de canasta! Una partita a carte tra contadini dell’entroterra honduregno consiste in gridare fortissimo, minacciarsi di morte e insultare le rispettive madri ripetutamente, fino ad esaurimento carte. Sul tetto della bestia fa più effetto perché rischi pure di cadere.

Fabio è legato a una corda che abbiamo assicurato al vagone, per poter scattare le magiche foto che illustreranno riviste patinate. Il ciccione si accascia sulla lamiera con aria compiaciuta. Io chiacchiero con Henry e mi giro sigarette che vanno a ruba tra questi signori.

Siamo davvero un’allegra combriccola di goliardi. Peccato che questi amici stanno rischiando il culo per arrivare a quella cazzo di frontiera che li separa dal SOGNO.

Sulle ali del vento maciniamo chilometri. Dopo tre ore abbiamo fatto l’equivalente di Roma-Ostia e ci accingiamo a entrare nel rigoglioso stato di Oaxaca. Il buio ci abbraccia e ci sentiamo bene. Cazzo finalmente abbiamo preso sto treno!

Poi la bestia rallenta. Dice, più piano di così? Sì. Ancora più piano. Pianissimo, quasi a passo d’uomo. La gente si azzitta. Smette di cazzeggiare. Santoddio, state migrando, mica andate in gita scolastica. Un po’ di serietà!

I primi lampi aprono squarci nel buio. Arrivano dai due lati della ferrovia. Insieme a grida scomposte. Vedi Henry aggrapparsi alla corda che era stata di Cutie e sparire nel buio. Vedi Cristian lanciarsi giù dalla scaletta come un orso che scende da un albero. Oscar non lo vedi proprio. Quel paraculo da mo che si è dato. Liquefatto. Evaporato. Siamo in mezzo a un operativo. Quegli stronzi stanno assaltando il treno! Sono cazzi nostri.

(fine prima parte)

diario da Arriaga. cavalcando la Bestia

Il caldo squaglia la carne e i binari, il sole arrossa la pelle sul cammino che porta al nord. Noi seguiamo i passi dei migranti che con fiducia affrontano il viaggio. Tra un assalto e una violenza, i centroamericani proseguono sulla strada per Arriaga, un paese polveroso e brutto al confine tra Chiapas e Oxaca.

Ad Arriaga a dire la verità non c’è proprio un cazzo di bello. Però ci passa la ferrovia. E come api sul miele lo sciame di migranti si lancia all’inseguimento della bestia. E noi dietro di loro, cercando di rubare momenti di vita di questa avventura che non ci appartiene ma che sentiamo stranamente nostra. Perché è la storia di tutti i migranti. è il viaggio di ogni uomo che cerca di migliorare le proprie condizioni e quelle dei propri figli appresso a un sogno, in questo caso quello americano. E avoja a dirgli che è un’illusione  quella capitalista, che non si sta poi tanto meglio a conti fatti. Facile dirlo quando si è nati a Monte Mario. Questi hanno preso coscienza di sé in mezzo a un fottuto campo di banane nelle campagne di Olancho, in Honduras. E giustamente inseguono il loro sogno americano. E che so più stronzi de noi?

E il reporter e il fotografo si fanno accompagnare da un vecchio lupo di Tapachula, il panzone Juan de Dios, che manco a farlo apposta si chiama come il tassista di Santo Domingo che ci ha portato eroicamente fino a Port au Prince, quel panzone che “pare che s’è magnato er fijo”. Ecco questo qua pare che s’è magnato er fijo e la madre. Però de treni ce capisce.

Quando arriviamo ad Arriaga iniziamo a capire un po’ meglio la follia di questo viaggio. Per arrivare qui i simpatici migranti si sono sparati 250 chilometri da Tapachula, che noi abbiamo percorso a 150 all’ora in macchina. Loro no. Loro devono affrontare i blocchi stradali di migracion. Ce ne sono 3 prima di arrivare in questo paradiso ferroviario. Se prendono un combi, un pulmino, devono pagare di più l’autista che li fa scendere all’altezza del controllo, quindi essi lo aggirano in mezzo al campo, e sperano di ritrovarci il combi ad aspettarli. Ma come in ogni videogioco che si rispetti, in mezzo al campo ci stanno i banditi che li aspettano con un bel machete in mano, o una pistola. O ci sono i Mara Salvatruchas, quei bonari omoni tatuati che ti fanno a pezzi  e mangiano le tue interiora ancora calde. Qui nel campo i Nostri devono correre di molto per sfuggire ai machetazos o ai colpi di pistola o alle pietrate, perché se li pigliano, i cattivi gli rubano tutto, li ammazzano di botte, li stuprano in gruppo o li fanno fuori. Questo se non c’è la polizia ad aspettarli. Se c’è la polizia cambia tutto, perché oltre a tutto questo la polizia li porta pure all’ufficio migratorio e se ne tornano affanculo a casa loro.

Mettiamo che uno riesca a fare tutto questo senza perdere la vita, o un arto. Arriva ad Arriaga e ancora non ha preso il cazzo di treno. Ha percorso appena 300 chilometri in terra messicana.

L’altro modo di arrivare ad Arriaga è seguire a piedi, per 250 chilometri, i binari del treno. Quei binari che fino a qualche anno fa erano percorsi dalla bestia ma che dopo l’uragano sono rimasti lì come una lunga ferita sotto il sole. A squagliarsi.

E ad Arriaga finalmente si prende il treno. Che parte quando vuole lui. Il treno piglia, arriva, carica merci e riparte. Quando gli pare. Senza orari.

Si vede gente ammonticchiata sui binari della ferrovia ad aspettare. Per giorni. A mangiare tortillas, fagioli, tonno, basta.

Noi aspettiamo pure noi, facendoci raccontare le loro storie, immortalando i loro volti. Ogni storia meriterebbe un blog a parte, ogni vita un’0dissea, ancora prima di affrontare questa.

Quello che accomuna tutti è lo sguardo fiducioso, quasi arrogante, di sfida a una vita di merda che non fa altro che schiacciarli a fondo. E loro, diocane, sempre a tirare su la testa dal fango. Svergognati. Spudorati. Si tirano su. e per farlo subiscono qualsiasi tipo di umiliazione, angheria, ingiustizia.

Forse il sogno americano consiste in questo, nel fondo. Forse è la giustificazione, lo stimolo a tirare su la testa per una volta, a intraprendere e sopportare il cammino.

Seduti all’ombra vicino ai binari si attende pazienti la bestia.