Racconto da Città del Messico. L’urlo

La luce bianca del cielo nuvoloso della città ferisce gli occhi. Occhi rossi di sonno e inquinamento, stampati sulla vetrina del ristorante. Dentro un gruppo di 17 vecchie ingurgita uova strapazzate, caffè e pandulce, berciando in direzione del monitor 27 pollici appeso al muro del locale. Hanno i capelli viola, celesti, il celeste dei capelli delle vecchie. Alcune sbavano nel piatto senza sapere cosa sta succedendo intorno, con la maglietta verde della selección indossata come un maglioncino della nonna. Sulla schiena c’è un grosso 4 con sopra scritto Marquez.

Le grida si alzano ogni volta che sul televisore cambia inquadratura. È il tifo secondo le vecchie. Gridare sempre, e battere le mani istericamente, mentre pezzi di cibo piovono sul tavolo, dalle labbra coperte di rossetto e salsa verde.

Le mani appoggiate al vetro stacco gli occhi dalla scena. Mi guardo intorno. Vicino a me, fuori dalla porta del ristorante, è seduta un’anziana indigena. È seduta a terra, gambe incrociate e mangia lentamente una tortilla con fagioli e chile. Il cestino dell’elemosina poggiato davanti ai piedi. La copre un rebozo blu e i suoi lunghi capelli argento.

Il parcheggiatore del ristorante guarda la partita attraverso il vetro insieme al suo collega. Gli passa un biglietto da 50 pesos e senza esitare lo manda a comprare due caguamas al supermercato. Per vedere la partita dalla strada. Sono le 9.38 di mattina a Città del Messico. E la luce ferisce gli occhi. Ancora.

La strada è silenziosa come solo di notte.

Lascio il ristorante alle sue vecchie. Il dedalo di strade in questa zona ti fa perdere l’orientamento. Vago senza meta alla ricerca di un punto di riferimento. Non si vede anima viva. A un angolo appare un gruppetto di persone. Uomini grassi seduti su delle sedie troppo piccole per i loro culoni, come quelle della scuola media. Uno di loro è seduto quasi in mezzo alla strada. Ha un cartone della Dominos Pizza aperto sulla testa a mo di tetto alpino. Il grasso di quello che era il suo contenuto cola lentamente ai due lati e gocciola sul selciato. Gli altri tre sono più vicini fra di loro. Uno anziano col volto scolpito dal sole e dall’età incastonato in una mano, la bocca nel palmo aperto. Immobile e in piedi. Il secondo serio e impettito come se stesse aspettando i risultati del test dell’HIV nella sala d’aspetto dell’Asl. L’ultimo seduto con la pancia appoggiata allo schienale. Lo spacco tra le natiche in evidenza quasi a voler scappare dai pantaloni della tuta bisunta.

Tutti e quattro fissano ebeti uno schermo grigio topo in bianco e nero delle dimensioni di un pacchetto di sigarette, poggiato su un tavolo di metallo. In silenzio religioso, ad ascoltare il “Perro” Bermudez che commenta la partita. Messico – Sudafrica. Non si accorgono del mio passaggio.

Io ho ancora tempo.

A 36 minuti dalla fine del secondo tempo, nella città che appare disabitata, chiusa nel suo silenzio e nella sua luce bianca, arrivo a destinazione.

Le guardie sono impegnate altrove. Entro in casa senza problemi. Lei è in piedi a fianco alla sedia e accarezza calma un furetto.

Legato e imbavagliato c’è un uomo in mutande. Piange e ha la faccia piena di mocciolo.

Si è pisciato addosso mentre il furetto gli mordeva i testicoli.

Davanti a lui c’è un televisore acceso. La voce roca del “Perro” Bermudez accompagna i mugolii di paura e dolore dell’uomo nudo. Gli occhiali sono appannati per il sudore, le lacrime.

Ora tocca a me. Lo slego piano, mentre Mphela mette in difficoltà la difesa della selezione messicana. Lei mi aiuta a tenerlo fermo. Il Presidente in piedi è basso. Trema.

Fuori i carri armati occupano la città, prima che finisca la partita, ma lui, il Presidente è qui con me. Sei qui con Lei. Calma poggia sul divano il furetto. Lo sguardo del Presidente è una maschera di terrore. Lui che aveva pensato a tutto, lui che aveva previsto tutto.

Lei allaccia alla vita la cintura di cuoio fallica.

Il Presidente aspettava il calcio d’inizio per far entrare i soldati nelle strade nelle case, nelle scuole.

Lei lo fa chinare.

Il Presidente, incastrato dalla sua stessa assistente.

Lei indossa un tricolore sulle spalle, a mo di mantello.

“Sei riuscito a inculare questo paese, Presidente. Adesso tocca a te”

L’urlo di gioia dei messicani dopo il gol di Rafa Marquez si confondono con il grido sgraziato e disperato del Presidente.

diario da Città del Messico

schutzstaffel
schutzstaffel

Apro gli occhi sul soffitto bianco rugoso. Notte brava ieri sera: karaoke!

Amo il karaoke. La gente si scatena su una pista tirando fuori il peggio di sé e cantando il peggio della musica mondiale, ovunque ci si trovi. Io sto in Messico, quindi si cantano i capolavori di Luís Miguel, Elvis Crespo, e altri autori di cui è vietato fare il nome su questo blog per la violenta censura che lo governa.

Prima di questo: un concerto su avenida Insurgentes in un locale che si chiama New York. Io e Cachorro a vedere i Plastilina Mosh. Un gruppo di Monterrey, che è la città più ricca del paese, la Milano messicana, comprensiva di stronzaggine milanese. Non ho capito se mi piacciono i Plastilina Mosh. Sicuramente sono un po’ delle scimmie che rifanno troppo il verso a troppa gente, tipo i CafeTacvba. Poi sono di Monterrey. L’ultimo contatto che ho avuto con gente di Monterrey è stato qualche settimana fa.

Sul piccolo velivolo di Aeroméxico che mi avrebbe portato dal DF a Managua mi siedo accanto a un omone con la faccia di cartapesta. Sembra il comandante Adamo di Battlestar Galactica (e se non sapete cos’è Battlestar Galactica, fuori dal mio blog!).

Comincia a attaccare bottone su temi insignificanti. È alto. Indossa vestiti molto costosi, gemelli ai polsini, orologio d’oro. Sarà sulla sessantina e legge il Washington Post.

Sto andando a Managua a parlare col ministro dei trasporti per concordare con lui la possibilità di costruire delle strade in tutto il paese, mi dice.

L’omone è un industriale. Che viaggia in centroamerica contrattato dai governi, per contribuire allo sviluppo di quei paesi. Lui mi parla dei suoi figli, che ha educato con rigore e rettitudine, coi sani valori tradizionali. Mi chiede dell’Honduras. Io rispondo che in democrazia certe cose non si dovrebbero proprio fare, tipo dei colpi di stato militari.

Il regiomontano (che sarebbe come si dice uno che è di Monterrey) mi fissa. Dietro di lui c’è l’oblo con la tendina aperta e un fascio di luce mi acceca. Tu sei molto giovane, mi dice, non sapendo quanto mi stanno sul cazzo quelli che per argomentare le cazzate immonde che stanno per sparare premettono una supposta superiorità dovuta a ragioni anagrafiche. Sei molto giovane e non capisci che non tutti sono pronti per la democrazia.

Ecco. Adesso sorprendimi. E lui lo fa.

Vedi, prosegue il saggio vegliardo miliardario, Adolf Hitler (!!!) diceva una cosa interessante. Magari a te non piace Hitler (ma che ne sai. io lo amo quel figliodiputtana. è il mio mito!) e nemmeno a me, però ha detto delle cose interessanti (probabilmente la maggior parte nel privato della sua cameretta). Diceva che le persone non sono tutte uguali (un modo per dirlo, in effetti), e i migliori sono una minoranza. E la democrazia è il governo della maggioranza, cioè dei peggiori. E quindi la democrazia è una grande ingiustizia perché i migliori, pochi, sono governati dai peggiori, molti.

Lo guardo ammirato senza riuscire a proferire parola. Lui prosegue il suo delirio vaticinando della disciplina nel football americano comparata con l’anarchia nel calcio, ma io ormai ho perso il filo e mi immagino di marciare per le strade di Managua vestito da ufficiale della Schutzstaffel spiegando che purtroppo loro non erano pronti per la democrazia, anzi, il loro prendersela costantemente in culo era un segno della giustizia di dio.

La versione messicana del comandante Adamo mi augura buon viaggio, mi da il suo biglietto da visita e mi offre anche un passaggio sulla sua auto ministeriale. Io declino con garbo e mi tuffo nel caldo orrido di Managua e dei suoi taxi collettivi (perché a Managua se sali su un taxi non è tutto per te. Se il tassinaro riesce a caricarlo di gente diventa tipo un microbus).

Il concerto dei Plastilina Mosh ci rompe il cazzo dopo mezz’ora. Sono autoindulgenti e non hanno nulla di nuovo. Per questo la nostra meta diventa il karaoke, dove scaricare la nostra frustrazione (ognuno c’ha la sua) e dare sfogo ai nostri istinti più bassi. Sempre meglio così che esportando il nazismo in centroamerica.

diario da Città del Messico

Xochimilco
Xochimilco

Un po’ di silenzio per qualche giorno. È che magari uno si prende una pausa. Del resto passare dalle emozionanti avventure golpiste centroamericane alla routine messicana è un po’ come una pizza in faccia (per i lettori non romani una pizza non è in senso stretto. vuol dire schiaffo).

La città mi ha accolto indifferente come fa con tutti. Come se in fondo quello che succede fuori dal Mostro non fosse proprio vero. Come se la vita scorresse solo nelle arterie di cemento che lo attravesano.

In realtà passare dall’azione alla riflessione dovrebbe atterrirmi. Probabilmente accadrà. Ma non so perché fare il precario in Messico e vivere giorno per giorno mette meno ansia che in Italia. Deve essere per gli effetti psicotropi dell’inquinamento atmosferico sulle ghiandole che producono l’ansia. O sarà perché qua è molto più facile pensare a un piano B, tipo fare il taxista o il lavapiatti.

Non scrivo da qualche giorno anche perché ho un po’ paura che dopo il mese di golpe i miei post risultino noiosi e barzotti, senza il vigore del racconto in presa diretta.

Invece inaspettatamente ad aiutarmi a spremere sto limone ci pensa il semprevalido baffone. Stasera è arrivato in Messico il presidente dell’Honduras Mel Zelaya, quello che mi è toccato tallonare per un mese. Invece ora mi segue lui. Gli mancavo, perché. Giunge al messico per parlare con quel paladino della democrazia che si chiama Felipe Caldero. Che pare sia il presidente del Messico. Cioè praticamente è un po’ come se il presidente dell’Albania, cacciato dal suo paese dopo un colpo di stato, venisse a prendere lezioni di democrazia e a farsi difendere da Silvio Berlusconi. È evidente che lo scenario è piuttosto surreale, tanto per fare una cosa nuova.

E i messicani, quelli che seguono le vicende internazionali, quindi principalmente un gruppetto esiguo di “intellettuali” che senza alcun motivo pensano davvero di contare qualcosa nella storia dell’umanità, gongolano per questo riconoscimento.

Io di fronte a questo preferisco andare a passare i miei pomeriggi a bere con gli amici su una chiatta (che qua si chiama trajinera) a Xochimilco. Xochimilco è quella parte di Città del Messico che si sviluppa sull’acqua. Qui una volta, prima che gli spagnoli venissero a tirare fuori questi incivili dalla barbarie, c’era una città sull’acqua. Tenochtitlán si chiamava. Tutta la valle si sviluppava sull’acqua come Venezia degli aztechi. E Xochimilco è quello che resta di questo.

E la gente ci va la domenica. Su delle chiatte con una tavolata al centro. Si porta da beve, da magnà e un gondoliere messicano ti scarrozza in giro. Poi si viene abbordati da altre chiattine (perché quella su cui viaggi te è na chiattona) che ti offrono beni di prima necessità come pannocchie arroste (elote), mele caramellate, patatine, bibite, tricchettracche e bombe a mano. Oh, poi c’è la chiatta dei mariachi, che ti insegue nei meandri più reconditi della laguna e sbuca all’improvviso cantando cielito lindo.

Tutto molto bello e colorato. E tanto per cambiare se beve per interminabili ore.

Poi c’è unisoletta dove un pazzo 40 anni fa ha deciso di cominciare ad appendere agli alberi bambole e pupazzi di ogni tipo. E ora sono migliaia. Macabro monito alle sirene, ai fantasmi e ai mostri di ogni tipo che popolano la laguna di Xochimilco. Il vecchio pazzo ha addobbato tutti i pertugi dell’isoletta perché sentiva tutte le notti la voce del fantasma di una giovine morta li vicino anni prima.

Dopo un mese ho rivisto Vittorio, il toro di cartapesta che dorme con me. Ha fatto finta di non riconoscermi. Si è sentito abbandonato. Ha provato a farmi sentire in colpa. Per punizione l’ho chiuso due giorni al buio in uno stanzino. Mi sta crescendo il pelo sullo stomaco e questi atteggiamenti stucchevoli non li reggo più.

diario dalla repubblica sandinista del Nicaragua

bienvenidos a Honduras
bienvenidos a Honduras

Dalla frontiera ho scritto poco. È che la connessione già di per sé da ste parti è una ciofeca, come si diceva a Roma negli anni ’80, là su poi era a pedali. Ma ci sono diverse altre cose da dire su quell’eroe di Zelaya.

Una bella gag è la sua assistente, la sera di giovedì, quando siamo arrivati tutti in carovana a Estelí, a 150 km dalla frontiera.

Situazione: schiera di giornalisti, fotografi, cameramen stanchi morti ma pronti a scattare come un sol’uomo alla prossima avvisaglia di rueda de presna. Esce la povera Betty, con la faccia nel culo, come dicono i francesi, sfatta dalla schiera di panzoni che accompagnano grugnendo (letteralmente) il legittimo presidente. Fa la funzionaria dell’ambasciata e fa da segretaria al baffone, e prende i nostri nomi per le domande da fare al presidente.

Alla fine stremata afferma: “e vi prego, qualcuno di voi gli può chiedere cosa ha intenzione di fare domani per favore, che io non l’ho capito? vi dispiace?” Purtroppo nemmeno di fronte alla miseria umana della povera Betty siamo riusciti a mantenere un contegno. Un coro di risate de còre. Un attimo di consapevolezza che stamo tutti a giocà in fondo. Daje co le pacche sulle spalle.

Come giocava quell’altro pischello che hanno trovato crepato la mattina di sabato. Pedro. Misteriosamente ammazzato dalle parti di El Paraiso, a qualche chilometro dalla frontiera, lato Honduras. La bocca spalancata in un ghigno orrendo, gli occhi aperti e sorpresi. Buttato in mezzo all’erba. Anche lui un ragazzino, 22 anni aveva Pedro, mortacci sua. Ma tanto sticazzi. È una guerra o no? E Mel è il comandante baffuto che grida al suo popolo “Armiamoci e partite!”

Dice che però c’ha tanto carisma. A me me pare che l’ha lasciato da qualche parte sto carisma. Invece s’è portato appresso parecchia logorrea populista, oltre alla collezione di sombreri.

Ma comunque veramente basta parlare di questo genio militare. Ora sono di nuovo a Managua, pronto a spiccare il volo verso il Messico.

E qua a Managua, come dice il mio amico fricchettone che gira per il centroamerica “in viaggio” carico di amore per i popoli oppressi, me ne dormo in un hotel coll’aria condizionata.

E rido dei commenti de quelli militanti. I militanti co la bandiera sugli occhi. Di quelle bandiere che te porti da casa. E pure quando vedi l’evidenza ti dici, no cazzo non è vero. te dici, no la rivoluzione sandinista è da paura! Perché te caghi addosso a pensare che, porca troia, te sei sbagliato fino a mo. O semplicemente che avevi bisogno di credere in un’idea, ma in verità era solo un’idea e non era vero un cazzo nella vita dei poracci che quell’idea se la devono accollare tutti i giorni, e che quell’idea la pagano pure per te.

Ma non c’è niente di male in verità. Ho capito questo, che l’idea non muore nel fallimento della realtà. L’idea rimane bella e viva. Se uno crede nei valori sandinisti ci crede pure quando vede i vermi che mangiano questo paese e dicono di essere sandinisti.

Sto a diventà patetico e cattedratico, per cui mi ricaccio nel mio strato basso dove sto più a mio agio.

Accendo la tivvù e c’è una telenovelas messicana. La misura di quanto sto posto è finito la dà il fatto che qua il Messico è considerato tipo l’Italia per gli albanesi negli anni novanta. Cioè un Nica davvero pensa che il Messico è un posto fenomenale guardando alla tivvù messicana le saghe familiari dei vari FlorianoAlberto Saltapicchio Ortega. Poi lo stesso nica magari si lancia a attraversare mezzo centroamerica per finire sparato sul muro alla frontiera con gli Stati Uniti.

E l’Italia, come il Messico, so tutta scena pe l’albanesi. So postacci.

Sono finito nell’Albania degli anni novanta. Me pareva un ambiente familiare.

Pièsse. oggi ho ricevuto il commento più bello da quando ho aperto il blog. Lo riporto perché mi ha riempito il mio stupido cuore di riso e gioia. Dice così: “Ao’ !…
nun resisto, me fai taja’…
uno che scrive come te ( a sto livello de sincerita’ ) nun l’avevo ancora trovato in giro…”

Daje Bubu.

diario dalla frontiera tra repubbliche bananere

Recate
Recarte

Oggi è domenica. Giovedì è partita la carovana del tonto, come la chiama un amico. Ma i tonti siamo noi. Accompagnamo Mel Zelaya a fare il suo show alla frontiera con l’Honduras. Col suo cappellone e il megafono ora si presenta ogni giorno alla stampa internazionale continuando a gridare al mondo che lui è il paladino della democrazia nel mondo. Lui. E grida “quien dijo miedo?? Quien dijo miedo?” che da noi si direbbe chi ha detto paura!? ma lo grida nascondendosi dietro ai camion immobili che aspettano da tre giorni di passare quella frontiera. Si nasconde perché non ha paura di niente, ok ma dice che comunque non si sa mai.
Dice un comandante della polizia Nica in pensione che a Mel gli manca una cosa fondamentale, “i coglioni”! Poteva benissimo passare la frontiera, dice il vecchio sbirro sandinista, se avesse avuto le palle, ma pare che ai catrachos gli manchino le palle. Ma queste sono considerazioni campaniliste tra centroamericani.
Quallo che è vero è che molti supporters di Mel che si sono sparati dodici ore di foresta, inseguiti dai cani dell’esercito, per arrivare qua a gridare “Viva Mel”, adesso lo vedono fare il buffone e a loro sì che cominciano a girare le palle (quindi verrebbe meno la teoria del comandante sandinista sui catrachos, che è come si dice hondureños). Sto tira e molla è per mantenere la gente barzotta, ma si sa che se uno sta barzotto troppo a lungo poi je rode. È esattamente quello che succede qua.
Io comunque continuo a farmi nuovi amici e a mangiare gallo pinto. E stasera torno alla civiltà: a Managua. Per il Messico manca ancora un po’.
Il migliore di questi giorni comunque rimane il colonnello Recarte, quello che ha dato la mano a Mel. Ha una faccia buffa, non sembra il solito figlio di puttana militare. Cioè sicuramente lo è, ma almeno fa ridere.
È quello che quando gli abbiamo chiesto scusi tenentecolonnello, abbiamo saputo che ci sono stati morti tra i sostenitori di Zelaya in Honduras, lui ha risposto pacifico con la faccia da bamboccione, io non ne so niente, si dicono tante cose… dicevano che nel 2000 sarebbe finito il mondo, e invece alla fine siamo ancora tutti qua.
Sul serio credo che la comicità innata e involontaria di questa gente sia da ascriversi all’alimentazione. O al caldo umido. Dovrebbero riuscire a sfruttare questo essere dei buffoni e smetterla di cercare di essere seri. Ma chi te crede? Dai! Ma te pensi che messo a fianco a un danese qualcuno di voi ha la minima speranza di non sembrare un pagliaccio?
Mo vado che Mel ha deciso di fa la conferenza stampa numero unmilionequattrocentomilasessanta. Non me la voglio proprio perdere!

diario dalle repubbliche centroamericane. golpiste e sandiniste.

ritorna Mel
ritorna Mel

Oggi sveglia alle 6 stile Kill Bill. La radio svizzera mi cerca perché hanno scoperto che sono tornato a Managua. Ciao sono Silvia, mi dice la signora radio, che ti pensavi che non ti trovavo? Non scappi sai? Ok ok ci ho provato, va bene. come volete voi. Faccio tutto quello che volete ma lasciate stare i miei figli vi prego!

Ero appena sveglio, stavo sognando di essere un uomolupo con 6 figli vampiri in fasce. Ste cazzo di banane fritte hanno effetti psicotropi sconosciuti.

No, allora guarda facci una copertura e raccontaci come sono gli spari dell’esercito che cercherà di uccidere Zelaya e tutti voi che gli andate appresso. Ok capa. sarà fatto, in nome del franco svizzero e dell’antica amicizia millenaria che lega i nostri popoli.

Poi mi ributto dentro il cuscino, cacciando formiche che mi camminano addosso e zanzare obese del mio sangue. Squilla di nuovo il telefono. Dice, senti ho dato il tuo numero a quelli di Radio Rai. Dice che ti chiamano.

A me? Radio Rai? Ma che non lo sanno che io lavoro solo per media stranieri e quelli italiani li schifo? Forse sono venuti a sapere che sono l’unico giornalista italiano che accompagnerà Zelaya a cavallo col sombrero nel suo ultimo viaggio suicida? E si svegliano ora? Cazzo ci deve essere qualcosa che non va se in italia si parla di questo golpe de estado militar. Noi non siamo mica come quegli sciocchi della ARD, la radio più grande del mondo, tedesca, per la quale faccio delle corrispondenze, che seguono tutto quello che succede in giro. Noi in Italia siamo furbi, scriviamo solo di cose serie. Cristo.

Per esempio oggi leggo su Repubblica che “Il sito Onebag.com è dedicato all’arte di viaggiare con poco peso e senza portarsi dietro cose inutili. Dal vestiario agli apparecchi elettrici”. Speravo anche in un bel reportage sui luoghi del risotto… queste sono le storie che vanno raccontate, altro che le vicende di repubbliche bananere golpiste.

Tra tre ore partiamo con un taxi sfonnato in direzione Estelí con la seguente formazione: Amalia, giornalista nicaraguense, Fabiano, giornalista brasiliano, e il sottoscritto. Ci siamo comprati baffi posticci, sombreros e stivali. Cerchiamo di immedesimarci nel ruolo di scudi umani per proteggere l’incolumità di Mel. Venceremos!

Per completezza dell’informazione 3 minuti dopo che mi ha chiamato la Rai è caduto per terra il mio cellulare e si è nebulizzato in frammenti infiniti. Che vorrà dì? Che m’hanno fatto un buono?

p.s. per pura casualità l’albergo in cui ho dormito stanotte a Managua si chiama Don Quijote. Sono sconcertato.


diario dalla repubblica Sandinista del Nicaragua/repubblica bananera dell’Honduras

piove su managua
piove su managua

Allora uno torna a casa a Città del Messico, dopo tre settimane tra Honduras e Nicaragua, mangiando banane fritte, pollo fritto, riso e fagioli.

Che bello, finalmente posso portare a lavare i quattro stracci che puzzano di cane fracico che c’ho addosso da settimane. Posso mangiare bene. Posso vedere i miei amici.

Poi visto che non valgo un cazzo come giornalista mi chiamano i miei amici brasiliani.

E mi dicono oh senti, che cazzo ci fai in Messico? Dico ce vivo. Dice no, dice domani te torni a Managua a spese nostre perché succede qualcosa. Io dico vabbè allora famo così, che io mi imbuco nella delegazione di giornalisti che accompagnano al vaquero Zelaya in Honduras e ve faccio la copertura. Va bene così? Dice si da paura. Anzi lo dice in brasiliano che però non si capisce bene, ma sicuro vuol dire da paura.

E quindi mo sto di nuovo qua. Me so sparato la conferenza stampa col cappellone presidente e domani se n’annamo tutti a fa sta gita. A fa gli scudi umani. A proteggere il presidente legittimo. Che culo. Però i brasiliani so contenti. E se so contenti loro va tutto alla grande. Poi te lo dice la voce aggraziata di una collega che non ho mai visto in faccia e che mi dà istruzioni e mi traduce i pezzi. Parla con l’accento brasiliano. Fa tanto Desafinado. È un piacere lavorare con te, cara.

Domani si parte a scrocco dai giornalisti dei media poderosi. Mi porto uno spuntino per il viaggio.

Ora piove su Managua. Mejo, come dice l’amico Mannarino. Così rinfresca. Così sta polvere piena di miseria se scola un po’ nel lago. E magari domani la città sembrerà un po’ più bella. Magari. O magari invece no.

diario dalla Repubblica Sandinista del Nicaragua

Sandino
Sandino

Il viaggio in autobus è lungo sulla Panamericana. Entrando in Nicaragua fa caldo. Piove. E c’è un grosso cartello che dice “Cumplirle al pueblo es cumplirle a Dios”. Meno male va. Allora va tutto per il meglio.

Infatti mi pare ancora più povero dell’Honduras sto paese. Strade sfonnate, vacche pascolando sulla strada migliore del paese (l’unica), la Panamericana. Due DUE corsie in tutto. Cioè una e una. E basta. E vacche. Cavalli. Regazzini che giocano a pallone in mezzo alla panamericana. Insisto su questo punto perché vorrei che si capisse che è come se sul brennero pascolassero le vacche altoatesine e i trentini ci giocassero a pallone o a hockey sopra.

Dice che il Nicaragua è il secondo paese più povero dell’America latina. E solo perché Haiti è imbattibile.

Ok. A Managua mi aspetta Amalia. Una collega periodista nicaraguense con cui abbiamo condiviso esperienze comicogrottesche nella barzelletta di Tegucigalpa.

Managua di notte. Una città senza centro. Non capisco bene com’è. Devo vedere.

Ma mi pare che pure qua di problemi non ne mancano.

Per strada vedo un pupazzo gigante che cammina. È inquietante. A fianco una specie di nano con una testa enorme. Tamburi. Ecco qua. So finito in un altro posto surreale. Si avvicinano. Che faccio?

Ah, quella è la gigantona e il suo enano cabezón!! dice Amalia.

Certo… la gigantona y el enano cabezón… come ho fatto a non riconoscerli? Sono proprio il più stronzo…

Sono un retaggio indigeno. Vanno in giro per le strade suonando il tamburo, parlando in versi e prendendo in giro tutti. C’è sempre la gigantona, che sembra una dama spagnola, un pupazzo alto due metri con dentro un ragazzino che regge l’impalcatura di legno (facendosi un mazzo non da poco), poi c’è quello che suona il tamburo e fa le rime. E poi el enano cabezón. Possono anche essere due i nani.

A me sta cosa dell’enano cabezón mi fa ammazzare da ridere. Non so perché.

Sto regazzino de 6 anni con un capoccione enorme di cartapesta unito al nome ha un effetto comico davvero notevole.

Insomma sono le pasquinate. I buffoni. Contro il potere. So compagni. Forti.

Con Amalia ci prendiamo la prima birra di sera dopo quasi due settimane di toque de queda, coprifuoco. Nella plaza della rotonda, dove svetta un albero di natale fatto di lucette alto 20 metri.

E questo che cazzo è? Un albero di natale acceso il 12 luglio? A Managua?

Eh, la first lady ha pensato che poteva rimanere qui da Natale. In cima ha un grosso numero 30 luminoso. E siccome quest’anno si festeggiano 30 anni della rivoluzione sandinista…

Certo allora lasci per sei mesi un albero di natale in mezzo alla strada. Mi sembra proprio appropriato. Considerato poi che è pieno di alberi di natale qui tra un banano e una pianta di caffè.

Altra cosa che c’è sempre qui nella rotonda sono i mariachi.

Allora circondato da lucine e mariachi assaporo la birra fresca e mi sento di nuovo a casa.

Domani comincerò a capire dove cazzo sono adesso. Ma già mi sento sollevato per non stare più in mezzo al popolo codardo dell’Honduras.

È qualcosa.

diario dalla Repubblica Bananera dell’Honduras

 

mural
mural

Doveva essere un’uscita di scena sobria, invece i pagliacci golpisti hanno dovuto per forza rendersi ridicoli un’ultima volta. Non sono riusciti a resistere, è più forte di loro.

Dunque si presenta all’hotel Clarion alle 3 di mattina una squadra di sbirri in passamontagna. Vengono a verificare i documenti dei pericolosi giornalisti venezuelani di Telesur. Vengono a mettergli paura. Entrano nelle loro stanze, controllano documenti, fanno domande, insomma, rompono i coglioni.

Tutto questo io non lo so perché nello stesso momento io sto dormendo nel mio lettuccio.

La mattina mi alzo presto e faccio per andare via, proprio come se stessi partendo per il Nicaragua.

E invece col cazzo.

Polizia all’ingresso. Non puoi uscire, dice sbirro uno. E perché mai, faccio io. Perché abbiamo questo ordine, dice lui. Sì ma quale ordine? Esattamente cosa vi hanno ordinato, dico io e già comincia a rodermi il culo.

L’ordine è “non far uscire nessuno straniero dall’hotel fino a nuovo ordine”, che equivale praticamente a non far uscire nessun giornalista dall’hotel fino a nuovo ordine.

E scusi, buon uomo, si potrebbe sapere come mai? Dovrà pur sapermi dire che cazzo abbiamo fatto per essere sequestrati da voi sbirri.

Esso nulla sa. Poiché trattasi di semplice agente, mi dice. E già un agente di polizia in italia sappiamo tutti che non brilla per autonomia e intelligenza. Ora immaginate un agente di polizia in Honduras, dove mediamente sono dei subnormali quelli della classe dirigente, figurarsi uno sbirro.

Palesemente stanno facendo questa pagliacciata per fare pressione sul Venezuela attraverso i giornalisti di Telesur. Ma questi ragazzini bananeros che fanno i duri solo perché hanno i soldi rubati ai poracci loro connazionali veramente cominciano a essere molesti.

Io intanto ho un bus che mi aspetta (mo, mi aspetta è un po’ grossa… diciamo che devo prendere un autobus che forse parte) con destinazione civiltà e democrazia. Con destinazione Managua! E questi fascistelli non hanno proprio nessuna intenzione di farmi uscire.

Allora mi attivo. Ambasciata italiana. Ah è chiusa. Già. Numero di emergenza. Parlo con una funzionaria molto gentile con un forte accento del sud. Mi dice ce penzo io. Dopo cinque minuti me richiama. Allora senti. C’è questo ufficiale della polizia speciale de staminchia che ora ti chiamerà. Ci fa un piacere. Dagli retta. Occhèi dico io.

Mi chiama l’ufficiale Staminchia poco dopo. Sèndi…(renderò l’accento poliziottesco dll’ufficiale Staminchia simile a un presunto accento del sud Italia a causa dell’argomento e lo stile da esso adottati) Sèèèndiiii mi ha chiamato la funzionaria C. dell’Ambasciata. Mi ha scpiegato la situaziòne. Allòra. Quello che si può fare è questo. Viscta l’amicizia e la simbatìa che ci lega all’ambasciata italiana ti posso mandare una macchina con dentro due scbirri miei. È combletamènde fuòri delle rregole. È condro la LèGGE. Però faggiamo volendieri uno sctrappo. Ti passano a prendere fra gingue minuti.

Va bene.

Però mi raccomando. Non dire niende agli altri giornaliscti che ci sctanno là. Perché se nopoi quelli vogliono uscire pure loro.

Certo capo. Come dice lei signore.

Attacco.

Tempo un minuto tutti i giornalisti di Reuters, Ap, Telesur presenti sanno come intendono farmi uscire.

Pacche sulle spalle. Daje. In bocca al lupo. Fai il bravo. Facce sapè (ovviamente anche loro non parlano romano, rendo qui in romano per far capire il clima di amicizia e solidarietà). Se beccamo in Messico.

Arriva la pantera coi coglioni dentro.

Salgo. Vengo scortato alla fermata dell’autobus. Fra due ore partirò per la civiltà. Partirò per la repubblica sandinista. Partirò per il Nicaragua!

Vaffanculo Honduras!

diario dalla Repubblica Bananera dell’Honduras

venceremos
venceremos

Ultima sera nell’Hotel Clarion di Tegucigalpa. Non ci sono rumori che provengono dalla strada perché c’è il coprifuoco. Domani mattina parto per il Nicaragua, a conoscere i reduci del sandinismo. A intervistare gente che trent’anni fa ha cambiato la storia del Centroamerica. 

Me ne vado da un paese senza speranza. Da un paese che oggettivamente comunque vada ce l’ha nel culo.

Il Cardinale Maradiaga, anche detto cardinale golpista, continua ad affermare il suo patriottismo alla faccia di tutti quanti. Quell’altro, Mel, da tutti i paesi del Centroamerica fa dichiarazioni e incita il popolo. 

L’idea che mi faccio io è che entrambe le fazioni giocano sporco sul filo della legge.

Il cardinale è un ipocrita, perché in nessun caso fai un golpe militare per un “gesto patriottico”, per difendere la democrazia. Come diceva Benigni, è come scopare per la verginità. Ma chi cazzo può dare credito a giustificazioni del genere?

Quello che mi porto a casa di questo paese è che tutta la classe politica e l’oligarchia, compresa l’elite della chiesa che ha sempre succhiato il sangue ai popoli latinoamericani, sono marci persi. Non c’è speranza di una soluzione democratica.

Né con Chávez, né con gli oligarchi. 

Entrambe le parti sono impresentabili. Ma chi ci crede a uno come Manuel Zelaya? Il “Comandante vaquero” lo chiama Chávez. Santoddio! È meglio che vi succhi il sangue il caudillo o l’impero dei Pizza Hut? È meglio prendere nel culo un bastone o un manganello? È meglio bere un bicchiere di merda o un bicchiere di vomito? Questa è la scelta che si presenta al popolo hondureño nella transizione democratica del 2009. 

L’unica cosa che mi è chiara dopo quasi due settimane di intensa attività giornalistica frilènz è che esiste un blocco sovranazionale e trasversale che si dedica alla spartizione di torte. Da questo blocco sono esclusi gli sfigati. Come alla festa delle medie. Ecco. Gli sfigati in questo caso sono la gran parte del popolo dell’Honduras. Che nella fattispecie prepara le torte con sudore e illusioni. Torte che comunque vada mangeranno altri.

E il popolo hondureño non ha la cultura né la forza per smettere di fare torte. Deve ringraziare dio, quello dei cardinali, che è lo stesso dei presidenti deposti e dei golpisti, che qualcuno lo consideri, non foss’altro che per sputargli in faccia. Non rompere i coglioni popolo bestia! Ormai è andata così. Ce potevi pensà prima. Prima de che? Prima de nasce sfigato. Sfigato!

Ma tra poco tutto sarà finito. Rimangono pochi osservatori. Poche telecamere straniere. Reuters. AP. Una manciata di spagnoli. Liberiamo il campo agli avvoltoi, che volteggiano sul cielo nuvoloso di Tegucigalpa.

Están jodidos en cualquier caso. Almeno qualcuno ha intravisto la vostra miseria.

Penso io.