diario da Chahuites. cavalcando la Bestia (parte seconda)

E dunque inizia lo show. Gente che si lancia dal treno in corsa, nel buio della sera. Ombre che saltano verso l’ombra. Le grida, da terra, si fanno più vicine, finché il treno si ferma del tutto. La prima cosa che facciamo è buttarci a pancia sotto sul tetto del treno, hai visto mai che parta qualche proiettile e decida di piantarsi in mezzo alla fronte dei valorosi giornalisti frilènz. Le voci degli uomini incappucciati dicono cose tipo “figli di puttana scendete da quel cazzo di treno o vi ammazziamo tutti” e amenità simili.

Non si vede un cazzo a parte i lampi di luce sparati dalle torce dei nostri nuovi amici. Il paese è un po’ distante. Sul treno non c’è quasi più nessuno, tranne noi e un povero migrante ubriaco rimasto tramortito dall’alcol ingurgitato nelle ore di attesa ad Arriaga e steso bocconi a pochi metri da noi.

Sul tetto del treno si arrampicano un paio di incappucciati. Ora da vicino si riconosce la divisa. Si tratta della Polizia Federale. Da vicino vuol dire che uno degli agenti mascherati è salito sul nostro vagone e ora mentre noi mostriamo alla luce della sua potente torcia le nostre identificazioni di giornalisti, lui ci punta in faccia un M16, quei fucili ad alto potenziale che vanno tanto di moda da queste parti. E daje de insulti e minacce di morte. Noi, solidi sulle nostre posizioni non cediamo di un passo, puntando tutto sul fatto che evidentemente deve trattarsi di un’arma giocattolo e presto l’agente ci dirà che è tutto uno scherzo.

Nel frattempo di sotto hanno fermato un centinaio di nostri compagni di viaggio. Li hanno stesi su quattro file faccia a terra. Per essere più convincenti i trenta federali spintonano, alzano la voce, le mani, schiacciano le facce della gente nella polvere del suolo con i loro anfibi ben lucidati. Noi ora decidiamo che abbiamo fatto capire le nostre ragioni e allora possiamo anche acconsentire e scendere da questo treno.

A terra non c’è nessun rappresentante dell’ufficio migrazione. Il che rende automaticamente illegale questa operazione dei federali. Altro elemento che la rende illegale è il fatto che questi amabili tutori dell’ordine sparano un po’ per aria, cosa proibita. Ah e altra cosa che forse rende illegale l’operazione è il fatto che si mettono a rubare soldi ai migranti. Tutto quello che hanno. Sistematicamente, per poi lasciarli andare nella notte, in balia dei violentatori e assassini che si nascondono nel buio.

I migranti che rimangono in arresto sono quelli che, sfigati, non avevano una lira addosso. Sono 47, e verranno trasferiti, un’ora e mezza dopo, negli uffici di migrazione, da dove verranno rimpatriati nelle loro case di fango in centroamerica.

Noi siamo testimoni di questa messa in scena. Ci provano a minacciarci, a intimidirci, ma noi con l’aplomb che ci contraddistingue e forti del fatto che siamo europei e giornalisti e soprattutto bellocci, non ci scomponiamo.

Loro lo capiscono e dopo una mezz’ora di minacce decidono che non possono nulla contro la libertà di stampa e desistono.

Quello che ti resta addosso, piantato nel petto è la sensazione chiara di impotenza di fronte a un abuso. La normalità della logica del più forte, tanto comune e tanto opprimente.

Qualcuno dei coraggiosi e folli viaggiatori arriverà a realizzare quel sogno, costruire le case dei ricchi in California, in Oregon, in Carolina del Nord. Dimenticherà le difficoltà o ne farà tesoro. Ma ne arriveranno altri, ognuno dei migranti porta con sé la vita di tutti quelli che lo hanno preceduto e che lo seguiranno. Ogni presente di ogni migrante è la ripetizione di una storia fatta di miseria, orrore e sogni, e di attraversamento di frontiere.

diario da Città del Messico. Vivete veramente in un paese di merda

Dall’esilio autoimposto nel Messico mi godo le giornate di sole, le giacarande in fiore e la vista dei vulcani dalla mia finestra. Seguo con disgusto le vicende elettorali del mio paese natale. La pseudo sinistra italiana becca l’ennesima sveglia alle regionali in regioni come il Lazio e il Piemonte, dove forse avrebbe potuto battere i neofascisti, i leghisti, i berluscones. Ma poi penso che no. Non aveva alcuna speranza. Pure troppo bene è andata.

Scrivo su feisbuc la mia opinione. Vivete in un paese veramente di merda. E vengo sommerso da commenti stizziti. Mi si dice che sono un irresponsabile cinico e che “è facile sparare sentenze da fuori”. Come se qui a me mi regalassero da mangiare. Come se partire da un paese di merda, che però è comunque il tuo, e ricominciare una vita fosse una situazione di lusso. Mi si dice che non sono rimasto a lottare. A lottare? Perché in Italia si lotta? E da quando? Quelli che nel 2001 hanno fatto spallucce di fronte alla sistematica distruzione di vere e originali alternative teoriche, avallando di fatto le violenze di stato, e il dilagare del berlusconismo adesso si radunano nelle piazze con bandiere e sciarpe viola, manco fossero ultrà della Fiorentina. Ora l’Italia è piena di eroi che lottano per la democrazia.

E chi se ne va è un vigliacco. E non ha più diritto di dire quello che pensa. Quello che ha sempre detto. Non ne ha diritto anche perché “ao, ma che cazzo voi? Manco vivessi in Svezia!” Come se il disgusto che provoca la vita politica e sociale dell’Italia potesse essere sviscerato soltanto vivendo in quello che viene considerato il paradiso delle democrazie. Anche il Messico è un paese di merda. Oggettivamente. Un paese di merda in cui sono vietati i crocifissi nelle scuole, in cui i gay si possono sposare, in cui se vuoi scrivere su un giornale perché ne hai le capacità lo fai e ti pagano, e bene. Un paese di merda che è pieno di merda, di narco, di corruzione, di violenza e omicidi, ma che non si pone con spocchia rispetto agli altri, non ha la velleità di insegnare nulla a nessuno. I messicani sanno dove vivono, e uniscono un ridicolo patriottismo a un realistico senso comune.

In questo blog non ho voglia di snocciolare le nefandezze che ogni giorno ci fanno vergognare di essere italiani, perché quelle si sanno, si scrivono, si urlano. E qui non c’è spazio per questo. In questo post voglio solo esprimere disprezzo e vergogna. E rivendicare il mio diritto e quello di tutti gli emigrati a farsi beffe del proprio paese. Di far rosicare chi è rimasto. Io ho scelto di vivere e di partecipare all’idea libertaria e solidale da qui. In Italia sarei stato un mendicante, un poveraccio, un fallito, e quale sarebbe stato il mio contributo al Mio Paese? E poi mi sono chiesto: ma cosa devo io al Mio Paese? Ma i miei ideali non sono forse sempre stati internazionalisti? E dunque il mio contributo lo do qui. Senza troppi rimorsi, senza paure, e senza vergogna.

L’Italia si merita esattamente ciò che ha. Ciò che abbiamo costruito o non abbiamo avuto i coglioni di demolire. Gli italiani si sono imborghesiti, si sono lasciati imborghesire dall’esterno. Mentalmente. E ora pagano il prezzo. Paghiamo. Ognuno a suo modo. Io, nel mio piccolo pago la distanza dalla mia famiglia, dai miei affetti, dai luoghi che amo, la distanza da quello che avrei voluto fare. E lo pago ogni giorno.

In cambio faccio quello che so fare per rimanere coerente coi miei valori, con le mie idee.

Vivete veramente in un paese di merda. È un fatto.

Rileggo queste righe prima di pubblicarle. Piene di amarezza e retorica. Le lascio così. C’è una luna piena che illumina il monstruo. Aria fresca della sera e la nenia del venditore di tamales. Non ho più un toro di cartapesta da tormentare, ma ora ho un gatto. Esso (anzi essa) è vivo. Reagisce ai miei dispetti e si incazza. La chiudo nell’armadio per sentire il suo languido miagolio. Eccellente. Stiamo migliorando.

diario da Città del Messico. l’anno della Tigre

anno della tigre

Buon duemilaieci. Buon anno. Benvenuti a tutti nell’anno della Tigre.

Di nuovo a casa. Dopo settimane a mangiarmi il fegato a Roma. Dopo settimane di freddo, di tosse e di moccio. Dopo settimane di pastasciutta di mamma. Dopo capodanno a Tulum. Ma questo succedeva nell’anno del Bufalo.

Per chi è uscito indenne, o riducendo i danni al minimo, o semplicemente vivo, dall’ingombrante anno del Bufalo, allora eccoci tutti nello sbrilluccicante anno della Tigre.

Nell’anno della Tigre invece si torna di nuovo nel Distrito Federal. Apro il giornale e leggo che a Los Mochis, Sinaloa, sono stati trovati dei resti umani, nello specifico una testa e un torace, dentro una hielera, un frigorifero, con appiccicato un cartello, un post it, che diceva “A Vicente Carrillo Chuy y J González, Geovany y Tito Lizárraga, a “Chapo” Isidro y a los policías que están con ellos… feliz año”.

Ecco, una bella maniera per cominciare l’anno, lasciare pezzi umani in un frigorifero, giusto per non dimenticarci di dove siamo. Evviva l’anno della Tigre!

Nell’anno della Tigre ci si aspettano grandi cose. In questo paese, che è il Messico, dove ci vivo dentro, l’anno della Tigre è anche quello della tanto attesa e famosa rivoluzione. Dice che qua devono fare una rivoluzione ogni 100 anni e mo è scattato proprio l’anno cento. E dunque mi preparo ad accogliere sta rivoluzione con il giusto spirito.

Mentre aspetto seduto che arrivi la rivoluzione leggo che l’anno della Tigre ci ha portato già un regalo: a Rosarno, nella Calabria che tanto amiamo, ci sono dei immigraticlandestinidelinquentinegrisottosviluppati, che protestano. Vengono menati. Essi si ribellano, come osano? essi sono dei negri e non devono ribellarsi mai alla mano del padrone (calabrese in questo caso) che li mena con saggezza e italianità manifesta.

E dunque leggo LA CALABRIA BRUCIA, e benché sappia che in realtà si stanno finalmente realizzando le conseguenze di anni di incitamento alla violenza razziale da parte di un po’ tutti, e quindi che non c’è nulla di divertente nel vedere le foto di copertoni e mobili bruciati in mezzo all’avenida principál di Rosarno, nonostante questo provo un brividino di piacere nell’immagine repentina che passa dietro la mia retina o dietro il mio cervelletto o dove cazzo passa, di una Calabria che finalmente brucia. Che finalmente viene purificata, si trasforma in cenere che potremo tutti spargerci sul capo.

La Calabria brucia. La Calabria brulica. La Calabria burqua. Nell’anno della Tigre.

Ho scoperto che Vittorio è nato nell’anno della Tigre. Non so in quale. Sicuramente non in questo. Esso spera che ciò lo metterà al riparo dalle mie angherie, e da quelle, molto più severe, che deciderà di affibbiargli la vita. La sua inutile vita.

Benvenuti nell’anno della Tigre. Mi ricorda molto i versi di una vecchia canzone dei Prophilax, storico gruppo porno rock romano. La canzone era il Giorno della Ceppa. E mi sembra che sia rappresentativa dei tempi che stiamo vivendo. E anche un po’ dell’anno della Tigre. diceva così. (i più sensibili alle volgarità possono fermarsi qui nella lettura del post. di seguito solo porcate cazzi e culi. p.s. Ceppa vuol dire tecnicamente glande. Cazzo, per estensione)

Caro culo te saluto,
oggi è il Giorno della Ceppa.
Ed è inutile che scappi
tanto prima o poi te becca.

Il Giorno della Ceppa
ormai è arrivato
non ti resta che pregare
perché il culo è ormai spacciato!

BUON ANNO DELLA TIGRE. E BUON GIORNO DELLA CEPPA

Diario da Città del Messico. Una breve parentesi.

Uno si alza e legge Repubblica. Alle volte. Così, per vedere un po’ che si dice. A pagina 40 una doppia dal titolo “Bollito: i nuovi tecno trucchi del vero slow food”, una imprescindibile disamina sul bollito in tutte le sue forme e varianti. Segue a pagina 42 una doppia decisamente di più alto profilo: “Piumini” le tendenze dell’inverno.
Questo accadeva ieri. Oggi invece si può apprezzare in prima pagina l’accorata lettera de Pier Luigi Celli, che manifesta il suo dolore e la sua amarezza verso il futuro dei giovani italiani, e consiglia suo figlio di andarsene dall’Italia, però a malincuore.

Pier Luigi Celli, ha proprio ragione, cazzo. Uno come lui, che è direttore generale della Luiss, lo è stato della Rai, consigli d’amministrazione vari, Eni, Enel, Unicredit, Wind, se uno così dice al figlio che se ne deve sfanculare, perché l’Italia è un paese dove il merito e i sani valori non sono premiati, bisogna crederci.

All’inizio ho reagito in maniera scomposta a questa lettera. E al fatto che un giornale come Repubblica avesse la faccia tosta di pubblicarla in prima pagina. Perché, mi dicevo, è offensivo, è ridicolo, è grottesco che uno così, che ha contribuito e contribuisce allo schifo di questo paese di merda, dove grazie a dio non vivo più, venga anche a dare lezioni e a piagnucolare, in faccia ai milioni di stronzi che non sono direttori della Luiss (dai calabresi che la frequentano anche conosciuta come Liuiss, perché pensano che sia inglese, come Lewis) e che non possono garantire al figlio di andare a studiare ad Harvard.

Poi però ho sinceramente apprezzato la preoccupazione di un padre, che vede un giovane figlio costretto a confrontarsi con un paese mafioso e marcio grazie anche a quelli come lui e preferisce farlo essere vincente all’estero. Prima sfascio tutto, cago sul tavolo, stupro, divento re, ammazzo e nascondo, e poi invece di pulire, dico a mio figlio, fai na cosa, vattene all’estero che qua è na monnezza, lasciamola agli stronzi. Perché la lettera è estremamente cinica. Non dice mi dispiace. Non è diretta ai figli degli italiani. No. è diretta proprio solo a suo figlio. E denigra gli altri. Dice, figlio, ti dico pubblicamente che qua è una merda grazie a papà tuo e ai colleghi e amici de papà tuo. Per cui TU alza il culo e vai a studiare alle università fighette americane, mica come la merda che dirigo io, che costa un pacco di soldi e ti assicura solo di socializzare coi calabresi.

È una lettera onesta. Realista.

Quindi tra un “percorso dei risotti” e uno “speciale scarpe” le pagine di Repubblica offrono esempi di grande giornalismo e analisi sociale. Sono proprio felice di essere incappato in questa lettera che mi ha chiarito, una volta di più e se ce ne dovesse ancora essere bisogno, i motivi del mio espatrio. Magari Mattia Celli, il giovane virgulto, verrà da ste parti, dije de venì qua, Pier Luigi, che lo accudisco io il tuo pupo.

Il toro già si liscia le corna.

diario da Città del Messico. Queremos arroz, frijoles y huevos. Muchos huevos!

revolucionDi ritorno dalle spiagge del Pacifico alla Città del Messico. Non è così traumatico in fondo. Pensavo peggio. Poi da ste parti mentre ero in spiaggia a grattarmi la pancia sono successe cose succulente.

Succede che il governo messicano un giorno si sveglia e decide che la parastatale Luz y Fuerza del Centro, che fornisce elettricità  Città del Messico e a  tutto il centro del paese, costa troppo e guadagna poco. Allora il presidente piglia e fa un decreto e la chiude. E manda a casa 66mila lavoratori. Così, perché dice che la bolletta era troppo cara. Una bolletta che per inciso il governo non paga perché molti uffici presidenziali sono “esenti”.

E dunque i lavoratori un po’ incazzati scendono in piazza e dicono oh, a brutto nano demmerda (chi vi ricorda questo appellativo?), te stai a marcà male, perché vabbè tutto, che semo poracci, un po’ sfigati e pigri, però stai esagerando (a roma si direbbe stai a cacà fori dar vaso).

E allora, siccome si avvicina il 2010 e siccome qua ogni 100 anni si deve PER FORZA fare una rivoluzione, diciamo che se stanno a scaldà le mano.

Nel tempo libero, subito prima di andare al bagno generalmente, leggo la Repubblica, giusto per vedere che livello di aberrazione si può raggiungere nella vita. Vedo su iutùb i deliri del pelato Minzolini, ma soprattutto leggo delle mobilitazioni radical chic dei giornalisti italiani.

Non lo faccio mai, ma vorrei sottoporvi un post di un compare mio, gemellato con questo blog, perché si approfondisca il livello della discussione sui media italiani, che tanto mi sta a cuore. Diciamo che mi riguarda da vicino, anche se per assenza.

Il post è il seguente e lo trovate qui . Il buon Giulioso mi sembra lucido come spesso accade. Probabilmente per la strana combinazione di incazzatura, ottimo ron e un buon sigaro cubano.

Ad ogni modo credo che faccia centro quando dice che “Questi giornalisti che dal palco oggi gridano il loro sdegno probabilmente non hanno fatto nulla durante la loro carriera per salvaguardare la libertà di stampa. Reportage cassati perché scomodi, linee editoriali ferree ed equidistanti, quello non puoi scriverlo, quello non puoi dirlo, non ci servono cose vere ma cose verosimili, mi raccomando non essere troppo duro, mi raccomando non criticare così apertamente la gestione societaria di quella persona. […] Giornalisti d’inchiesta come Travaglio e Saviano passano per eroi quando invece si limitano a fare il loro mestiere, in un contesto in cui tutti gli altri si rifiutano di farlo. Quello che oggi muove guerra a Berlusconi non è il popolo di una nazione esausta e snervata. È un establishment, un gruppo di potere che semplicemente è stato attaccato direttamente da un altro gruppo di potere. E quelle bandiere del PD rappresentano la fazione che per affinità culturale e condizioni politiche in questo momento favorevoli può schierarsi a favore di questa lobby, di questa corporazione offesa, di questi giornalisti attaccati duramente dal proprietario di un enorme gruppo editoriale.”

Ok lungo virgolettato, che riduce il mio lavoro e arricchisce l’articolo. Il punto a cui voglio arrivare citando il buon Somazzi è che i giornalisti, la politica, la società civile, deve smetterla di frignare. Deve piantarla di lamentarsi e cominciare a tirare fuori i coglioni.

Un commento che ho sentito da un giornalista messicano sui sindacalisti incazzati riguardava il fatto che la risposta dei lavoratori alle angherie del governo è mostrare i muscoli.

È esattamente quello di cui ha bisogno il nostro paese di merda. Non di piagnoni privilegiati che frignano quando gli si tolgono i privilegi. Ma di gente che faccia paura al potere, che faccia cacare addosso l’establishment.

Il PCI faceva paura. Il PCI tirava fuori le palle e i muscoli. Per questo tanti italiani lo appoggiavano. A chi cazzo si rivolge il PD (acronimo di nota bestemmia nazionale)? Quali muscoli sfoggia? Che cazzo di appeal può mai avere su una maggioranza a cui hanno rotto e continuano a rompere il culo da ogni lato?

Alla manifestazione lunedì Jesusa Rodriguez agitava il popolo gridando: “Queremos arroz, frijoles y huevos, muchos huevos!” che suona un po’ come “vogliamo riso, fagioli e uova/coglioni, molte uova!”

Ecco diciamo che in Italia c’è carenza di uova, e di galline che le cachino.

Tornando a Somazzi, che minimo mi citerà sul suo meraviglioso blogg, Berlusconi forse non è il male, ma il termometro. E i giornalisti forse dovrebbero smettere di farsi le pugnette e cominciare a lavorare.

Ma forse è come provare a tirar fuori succo d’arancia da una pietra.

Domani vediamo quanti muscoli e quanti coglioni tirano fuori sti messicani, magari faccio un pacchetto e ne mando un po’ nella terra natia.

diario da Città del Messico. nost-algia di ironia

KarolSabato pomeriggio a Città del Messico di fine agosto. Ieri era venerdì. Viernes de quincena. il venerdì in cui vengono pagati gli stipendi. Ogni quindici giorni è venerdì de quincena. E la città diventa l’incubo infernale. Diventa l’invivibile conglomerato di traffico, odio e follia di cui tanto si parla in giro.

Muoversi da un quartiere all’altro è un gesto di masochismo manifesto. Andare in banca è un azzardo sciocco. Rimanere bloccati per ore su qualsiasi arteria della città perché oggi milioni di persone ricevono soldi, e immediatamente corrono a spenderli. Si pagano bollette, debiti, affitti, si comprano regali, si fa la spesa, si esce a festeggiare. Tutti come un sol’uomo.

Rimango ore incastrato nel traffico parlando di politica col tassinaro di turno, che mi piglia pure per il culo, beh pure lei che si muove el viernes de quincena per attraversare la città non è proprio uno stratega. Un tassinaro mi dice che non sono proprio uno stratega. Il sottotesto dice sei un povero coglione.  Io abbozzo.

Volevo uscire perché a stare a casa in questi giorni mi sento un po’ in gabbia. Mi metto a leggere compulsivamente i giornali italiani e mi aumenta la gastrite. Mi sento mancare. Mi manco. Sento la mancanza dell’ironia. Dilagante.

Qualcuno leggendo il mio blog si è sentito offeso. Me lo ha manifestato. Io, basito, ho cercato di spiegare il taglio ironico delle mie parole. Ma è come cercare di piantare pomodori nel ghiaccio. O cercare di far uscire acqua da un pugno di sabbia.

C’è carenza di ironia. Qualcuno è disposto a donarla?

Leggo del gruppo di leghisti di Mirano (paese natale di mia madre!! such a shame!) che usando una vecchia elaborazione grafica satirica e ironica del GENIO Mauro Biani (vedasi link al suo sito sul lato destro di questo blog) hanno fondato un gruppo su feisbuc per incitare a torturare gli immigrati.

Leggo dell’inettitudine dei liders del piddì e della loro totale mancanza di ironia nell’elaborare una risposta a tale vicenda.

Mi mancano i miei fumetti di Andrea Pazienza. Ne ho bisogno. è quello che mi manca dell’Italia. O quello che manca all’Italia.  Che qualcuno me li mandi. Presto.

Mi metto a scrivere un altro romanzo, visto che il primo è andato a ruba.

p.s. Il sonno dell’ironia genera imbecilli

diario da Città del Messico

schutzstaffel
schutzstaffel

Apro gli occhi sul soffitto bianco rugoso. Notte brava ieri sera: karaoke!

Amo il karaoke. La gente si scatena su una pista tirando fuori il peggio di sé e cantando il peggio della musica mondiale, ovunque ci si trovi. Io sto in Messico, quindi si cantano i capolavori di Luís Miguel, Elvis Crespo, e altri autori di cui è vietato fare il nome su questo blog per la violenta censura che lo governa.

Prima di questo: un concerto su avenida Insurgentes in un locale che si chiama New York. Io e Cachorro a vedere i Plastilina Mosh. Un gruppo di Monterrey, che è la città più ricca del paese, la Milano messicana, comprensiva di stronzaggine milanese. Non ho capito se mi piacciono i Plastilina Mosh. Sicuramente sono un po’ delle scimmie che rifanno troppo il verso a troppa gente, tipo i CafeTacvba. Poi sono di Monterrey. L’ultimo contatto che ho avuto con gente di Monterrey è stato qualche settimana fa.

Sul piccolo velivolo di Aeroméxico che mi avrebbe portato dal DF a Managua mi siedo accanto a un omone con la faccia di cartapesta. Sembra il comandante Adamo di Battlestar Galactica (e se non sapete cos’è Battlestar Galactica, fuori dal mio blog!).

Comincia a attaccare bottone su temi insignificanti. È alto. Indossa vestiti molto costosi, gemelli ai polsini, orologio d’oro. Sarà sulla sessantina e legge il Washington Post.

Sto andando a Managua a parlare col ministro dei trasporti per concordare con lui la possibilità di costruire delle strade in tutto il paese, mi dice.

L’omone è un industriale. Che viaggia in centroamerica contrattato dai governi, per contribuire allo sviluppo di quei paesi. Lui mi parla dei suoi figli, che ha educato con rigore e rettitudine, coi sani valori tradizionali. Mi chiede dell’Honduras. Io rispondo che in democrazia certe cose non si dovrebbero proprio fare, tipo dei colpi di stato militari.

Il regiomontano (che sarebbe come si dice uno che è di Monterrey) mi fissa. Dietro di lui c’è l’oblo con la tendina aperta e un fascio di luce mi acceca. Tu sei molto giovane, mi dice, non sapendo quanto mi stanno sul cazzo quelli che per argomentare le cazzate immonde che stanno per sparare premettono una supposta superiorità dovuta a ragioni anagrafiche. Sei molto giovane e non capisci che non tutti sono pronti per la democrazia.

Ecco. Adesso sorprendimi. E lui lo fa.

Vedi, prosegue il saggio vegliardo miliardario, Adolf Hitler (!!!) diceva una cosa interessante. Magari a te non piace Hitler (ma che ne sai. io lo amo quel figliodiputtana. è il mio mito!) e nemmeno a me, però ha detto delle cose interessanti (probabilmente la maggior parte nel privato della sua cameretta). Diceva che le persone non sono tutte uguali (un modo per dirlo, in effetti), e i migliori sono una minoranza. E la democrazia è il governo della maggioranza, cioè dei peggiori. E quindi la democrazia è una grande ingiustizia perché i migliori, pochi, sono governati dai peggiori, molti.

Lo guardo ammirato senza riuscire a proferire parola. Lui prosegue il suo delirio vaticinando della disciplina nel football americano comparata con l’anarchia nel calcio, ma io ormai ho perso il filo e mi immagino di marciare per le strade di Managua vestito da ufficiale della Schutzstaffel spiegando che purtroppo loro non erano pronti per la democrazia, anzi, il loro prendersela costantemente in culo era un segno della giustizia di dio.

La versione messicana del comandante Adamo mi augura buon viaggio, mi da il suo biglietto da visita e mi offre anche un passaggio sulla sua auto ministeriale. Io declino con garbo e mi tuffo nel caldo orrido di Managua e dei suoi taxi collettivi (perché a Managua se sali su un taxi non è tutto per te. Se il tassinaro riesce a caricarlo di gente diventa tipo un microbus).

Il concerto dei Plastilina Mosh ci rompe il cazzo dopo mezz’ora. Sono autoindulgenti e non hanno nulla di nuovo. Per questo la nostra meta diventa il karaoke, dove scaricare la nostra frustrazione (ognuno c’ha la sua) e dare sfogo ai nostri istinti più bassi. Sempre meglio così che esportando il nazismo in centroamerica.

diario dalla repubblica sandinista del Nicaragua

bienvenidos a Honduras
bienvenidos a Honduras

Dalla frontiera ho scritto poco. È che la connessione già di per sé da ste parti è una ciofeca, come si diceva a Roma negli anni ’80, là su poi era a pedali. Ma ci sono diverse altre cose da dire su quell’eroe di Zelaya.

Una bella gag è la sua assistente, la sera di giovedì, quando siamo arrivati tutti in carovana a Estelí, a 150 km dalla frontiera.

Situazione: schiera di giornalisti, fotografi, cameramen stanchi morti ma pronti a scattare come un sol’uomo alla prossima avvisaglia di rueda de presna. Esce la povera Betty, con la faccia nel culo, come dicono i francesi, sfatta dalla schiera di panzoni che accompagnano grugnendo (letteralmente) il legittimo presidente. Fa la funzionaria dell’ambasciata e fa da segretaria al baffone, e prende i nostri nomi per le domande da fare al presidente.

Alla fine stremata afferma: “e vi prego, qualcuno di voi gli può chiedere cosa ha intenzione di fare domani per favore, che io non l’ho capito? vi dispiace?” Purtroppo nemmeno di fronte alla miseria umana della povera Betty siamo riusciti a mantenere un contegno. Un coro di risate de còre. Un attimo di consapevolezza che stamo tutti a giocà in fondo. Daje co le pacche sulle spalle.

Come giocava quell’altro pischello che hanno trovato crepato la mattina di sabato. Pedro. Misteriosamente ammazzato dalle parti di El Paraiso, a qualche chilometro dalla frontiera, lato Honduras. La bocca spalancata in un ghigno orrendo, gli occhi aperti e sorpresi. Buttato in mezzo all’erba. Anche lui un ragazzino, 22 anni aveva Pedro, mortacci sua. Ma tanto sticazzi. È una guerra o no? E Mel è il comandante baffuto che grida al suo popolo “Armiamoci e partite!”

Dice che però c’ha tanto carisma. A me me pare che l’ha lasciato da qualche parte sto carisma. Invece s’è portato appresso parecchia logorrea populista, oltre alla collezione di sombreri.

Ma comunque veramente basta parlare di questo genio militare. Ora sono di nuovo a Managua, pronto a spiccare il volo verso il Messico.

E qua a Managua, come dice il mio amico fricchettone che gira per il centroamerica “in viaggio” carico di amore per i popoli oppressi, me ne dormo in un hotel coll’aria condizionata.

E rido dei commenti de quelli militanti. I militanti co la bandiera sugli occhi. Di quelle bandiere che te porti da casa. E pure quando vedi l’evidenza ti dici, no cazzo non è vero. te dici, no la rivoluzione sandinista è da paura! Perché te caghi addosso a pensare che, porca troia, te sei sbagliato fino a mo. O semplicemente che avevi bisogno di credere in un’idea, ma in verità era solo un’idea e non era vero un cazzo nella vita dei poracci che quell’idea se la devono accollare tutti i giorni, e che quell’idea la pagano pure per te.

Ma non c’è niente di male in verità. Ho capito questo, che l’idea non muore nel fallimento della realtà. L’idea rimane bella e viva. Se uno crede nei valori sandinisti ci crede pure quando vede i vermi che mangiano questo paese e dicono di essere sandinisti.

Sto a diventà patetico e cattedratico, per cui mi ricaccio nel mio strato basso dove sto più a mio agio.

Accendo la tivvù e c’è una telenovelas messicana. La misura di quanto sto posto è finito la dà il fatto che qua il Messico è considerato tipo l’Italia per gli albanesi negli anni novanta. Cioè un Nica davvero pensa che il Messico è un posto fenomenale guardando alla tivvù messicana le saghe familiari dei vari FlorianoAlberto Saltapicchio Ortega. Poi lo stesso nica magari si lancia a attraversare mezzo centroamerica per finire sparato sul muro alla frontiera con gli Stati Uniti.

E l’Italia, come il Messico, so tutta scena pe l’albanesi. So postacci.

Sono finito nell’Albania degli anni novanta. Me pareva un ambiente familiare.

Pièsse. oggi ho ricevuto il commento più bello da quando ho aperto il blog. Lo riporto perché mi ha riempito il mio stupido cuore di riso e gioia. Dice così: “Ao’ !…
nun resisto, me fai taja’…
uno che scrive come te ( a sto livello de sincerita’ ) nun l’avevo ancora trovato in giro…”

Daje Bubu.

diario dalla Repubblica Bananera dell’Honduras

 

mural
mural

Doveva essere un’uscita di scena sobria, invece i pagliacci golpisti hanno dovuto per forza rendersi ridicoli un’ultima volta. Non sono riusciti a resistere, è più forte di loro.

Dunque si presenta all’hotel Clarion alle 3 di mattina una squadra di sbirri in passamontagna. Vengono a verificare i documenti dei pericolosi giornalisti venezuelani di Telesur. Vengono a mettergli paura. Entrano nelle loro stanze, controllano documenti, fanno domande, insomma, rompono i coglioni.

Tutto questo io non lo so perché nello stesso momento io sto dormendo nel mio lettuccio.

La mattina mi alzo presto e faccio per andare via, proprio come se stessi partendo per il Nicaragua.

E invece col cazzo.

Polizia all’ingresso. Non puoi uscire, dice sbirro uno. E perché mai, faccio io. Perché abbiamo questo ordine, dice lui. Sì ma quale ordine? Esattamente cosa vi hanno ordinato, dico io e già comincia a rodermi il culo.

L’ordine è “non far uscire nessuno straniero dall’hotel fino a nuovo ordine”, che equivale praticamente a non far uscire nessun giornalista dall’hotel fino a nuovo ordine.

E scusi, buon uomo, si potrebbe sapere come mai? Dovrà pur sapermi dire che cazzo abbiamo fatto per essere sequestrati da voi sbirri.

Esso nulla sa. Poiché trattasi di semplice agente, mi dice. E già un agente di polizia in italia sappiamo tutti che non brilla per autonomia e intelligenza. Ora immaginate un agente di polizia in Honduras, dove mediamente sono dei subnormali quelli della classe dirigente, figurarsi uno sbirro.

Palesemente stanno facendo questa pagliacciata per fare pressione sul Venezuela attraverso i giornalisti di Telesur. Ma questi ragazzini bananeros che fanno i duri solo perché hanno i soldi rubati ai poracci loro connazionali veramente cominciano a essere molesti.

Io intanto ho un bus che mi aspetta (mo, mi aspetta è un po’ grossa… diciamo che devo prendere un autobus che forse parte) con destinazione civiltà e democrazia. Con destinazione Managua! E questi fascistelli non hanno proprio nessuna intenzione di farmi uscire.

Allora mi attivo. Ambasciata italiana. Ah è chiusa. Già. Numero di emergenza. Parlo con una funzionaria molto gentile con un forte accento del sud. Mi dice ce penzo io. Dopo cinque minuti me richiama. Allora senti. C’è questo ufficiale della polizia speciale de staminchia che ora ti chiamerà. Ci fa un piacere. Dagli retta. Occhèi dico io.

Mi chiama l’ufficiale Staminchia poco dopo. Sèndi…(renderò l’accento poliziottesco dll’ufficiale Staminchia simile a un presunto accento del sud Italia a causa dell’argomento e lo stile da esso adottati) Sèèèndiiii mi ha chiamato la funzionaria C. dell’Ambasciata. Mi ha scpiegato la situaziòne. Allòra. Quello che si può fare è questo. Viscta l’amicizia e la simbatìa che ci lega all’ambasciata italiana ti posso mandare una macchina con dentro due scbirri miei. È combletamènde fuòri delle rregole. È condro la LèGGE. Però faggiamo volendieri uno sctrappo. Ti passano a prendere fra gingue minuti.

Va bene.

Però mi raccomando. Non dire niende agli altri giornaliscti che ci sctanno là. Perché se nopoi quelli vogliono uscire pure loro.

Certo capo. Come dice lei signore.

Attacco.

Tempo un minuto tutti i giornalisti di Reuters, Ap, Telesur presenti sanno come intendono farmi uscire.

Pacche sulle spalle. Daje. In bocca al lupo. Fai il bravo. Facce sapè (ovviamente anche loro non parlano romano, rendo qui in romano per far capire il clima di amicizia e solidarietà). Se beccamo in Messico.

Arriva la pantera coi coglioni dentro.

Salgo. Vengo scortato alla fermata dell’autobus. Fra due ore partirò per la civiltà. Partirò per la repubblica sandinista. Partirò per il Nicaragua!

Vaffanculo Honduras!

diario dalla Repubblica Bananera dell’Honduras

venceremos
venceremos

Ultima sera nell’Hotel Clarion di Tegucigalpa. Non ci sono rumori che provengono dalla strada perché c’è il coprifuoco. Domani mattina parto per il Nicaragua, a conoscere i reduci del sandinismo. A intervistare gente che trent’anni fa ha cambiato la storia del Centroamerica. 

Me ne vado da un paese senza speranza. Da un paese che oggettivamente comunque vada ce l’ha nel culo.

Il Cardinale Maradiaga, anche detto cardinale golpista, continua ad affermare il suo patriottismo alla faccia di tutti quanti. Quell’altro, Mel, da tutti i paesi del Centroamerica fa dichiarazioni e incita il popolo. 

L’idea che mi faccio io è che entrambe le fazioni giocano sporco sul filo della legge.

Il cardinale è un ipocrita, perché in nessun caso fai un golpe militare per un “gesto patriottico”, per difendere la democrazia. Come diceva Benigni, è come scopare per la verginità. Ma chi cazzo può dare credito a giustificazioni del genere?

Quello che mi porto a casa di questo paese è che tutta la classe politica e l’oligarchia, compresa l’elite della chiesa che ha sempre succhiato il sangue ai popoli latinoamericani, sono marci persi. Non c’è speranza di una soluzione democratica.

Né con Chávez, né con gli oligarchi. 

Entrambe le parti sono impresentabili. Ma chi ci crede a uno come Manuel Zelaya? Il “Comandante vaquero” lo chiama Chávez. Santoddio! È meglio che vi succhi il sangue il caudillo o l’impero dei Pizza Hut? È meglio prendere nel culo un bastone o un manganello? È meglio bere un bicchiere di merda o un bicchiere di vomito? Questa è la scelta che si presenta al popolo hondureño nella transizione democratica del 2009. 

L’unica cosa che mi è chiara dopo quasi due settimane di intensa attività giornalistica frilènz è che esiste un blocco sovranazionale e trasversale che si dedica alla spartizione di torte. Da questo blocco sono esclusi gli sfigati. Come alla festa delle medie. Ecco. Gli sfigati in questo caso sono la gran parte del popolo dell’Honduras. Che nella fattispecie prepara le torte con sudore e illusioni. Torte che comunque vada mangeranno altri.

E il popolo hondureño non ha la cultura né la forza per smettere di fare torte. Deve ringraziare dio, quello dei cardinali, che è lo stesso dei presidenti deposti e dei golpisti, che qualcuno lo consideri, non foss’altro che per sputargli in faccia. Non rompere i coglioni popolo bestia! Ormai è andata così. Ce potevi pensà prima. Prima de che? Prima de nasce sfigato. Sfigato!

Ma tra poco tutto sarà finito. Rimangono pochi osservatori. Poche telecamere straniere. Reuters. AP. Una manciata di spagnoli. Liberiamo il campo agli avvoltoi, che volteggiano sul cielo nuvoloso di Tegucigalpa.

Están jodidos en cualquier caso. Almeno qualcuno ha intravisto la vostra miseria.

Penso io.