Una gita a Michoacán. Tra comunitarios e Caballeros Templarios

IMG_0615Nella Tierra Caliente di Michoacán fa piuttosto caldo. Quasi sempre. Probabilmente da questo fatto deriva il nome della zona che sta tra Tepalcatepec e Apatzingan. Sulla strada ci sono gli autoservicios. Autoservizi. Sono come il lavaggio automatico delle macchine. Dei piccoli capannoni in cui tu passi con la macchina. Solo che non ci sono le spazzole. Dentro non c’è il lavaggio atuo. Né tanto meno ricambi o meccanici. Negli autoservicios di Michoacán ci sono degli enormi frigoriferi ripieni di ettolitri di birra e super alcolici. E delle fanciulle giunoniche con le unghie finte e lo sguardo ammiccante ti preparano bibitoni di michelada, una bevanda a base di limone, birra, sale, ghiaccio, chile, salse piccanti varie. Te la preparano in bicchieroni da un litro di plastica trasparente. Ci mettono un coperchio col buchino per mettere la cannucia. Con molta tranquillità dispongono su tutto il tappo delle fettine di cetriolo e di jícama cosparse di limone, sale, chile in polvere. Te lo passano dal finestrino. Tu paghi, esci e bevi. E guidi. E bevi. Fino all’autoservicio successivo. Ce ne sono a decine.

Nella stessa regione di Tierra Caliente c’è una guerra in corso tra caballeros templarios, un gruppo del crimine organizzato della zona, e le recenti polizie comunitarie, gruppi di cittadini che si sono rotti il cazzo di pagare il pizzo su tutto, di essere derubati, di vedersi violentare le figlie di 13 anni, di vedere gli amici ammazzati e decapitati in mezzo alla strada. Quindi si sono presi le armi e hanno detto basta. E ora vanno in giro e ripuliscono la loro terra.

Ah, va detto che da queste parti si produce parecchia marijuana e papavero da oppio. Tanto che per gentilezza qui ti può capitare che ti offrano un sacchetto d’erba come a Roma la nonna di un amico ti regala una sporta di fave colte in campagna.

Passare per di qua non è il massimo della serenità. Anche se c’è un paese che si chiama Nueva Italia, fondato da italiani finiti qui chissà come. Si sente l’aria pesante. Si sente che è meglio togliersi dai coglioni.

I bambini per strada giocano con delle miniature di AK-47. Invece di giocare a cowboy e indiani loro giocano a templarios e esercito. E tutti vogliono fare i templarios.

Poi a un certo punto cambiano le cose.

Un uomo nella comunità di Coalcomán era stato vessato per anni dai templarios. Gli avevano fatto di tutto, chiesto (e ottenuto) il pizzo sulle sue attività di venditore di vacche, derubato, violentato la moglie. Un giorno arrivano tre templarios a casa sua. Lui è abituato a subire la violenza di questa gente, che esercita il suo potere su gran parte dello stato di Michoacán. I tre uomini armati sanno che non reagirà. Lui chiede se hanno mangiato. Rispondono di no. Lui li invita ad accomodarsi, e offre loro un piatto di minestra. Loro accettano di buon grado, abituati a essere serviti e temuti. Gli dicono che sono venuti per la sua camioneta, cioè il suo pick up. Lui prende la cosa di buon grado. Dice che va a prendere le chiavi. Va nell’altra stanza. Esce con un fucile a pompa, le cartucce ficcate negli spazi tra le dita. Inizia a sparare, in casa, senza avviso. Uccide due dei tre mafiosi ricaricando rapidamente. Il terzo, ferito, riesce a scappare. L’uomo lo raggiunge. Ha finito le munizioni. Il templario è a terra. Lui prende una grossa pietra e gli fracassa il cranio.

Questo però non è un racconto. È come sono iniziate le piccole ribellioni che hanno portato alla rivolta. Una rivolta armata in un luogo in cui lo Stato è parte del nemico dei cittadini.

Lo stesso uomo amava coltivare piantine di marijuana nel suo giardino. Sua madre, che vive con lui, compró alcune galline. Una delle galline aveva preso a scavare intorno alle piante di marijuana, rovinandole tutte. Un giorno l’uomo torna a casa e ammazza la gallina.

La madre arriva, lo vede e gli grida: “Ma nooo!! cosa fai?? Mi ammazzi la gallina?!”
Lui risponde: “Mamma, la mafia non perdona”.

Radical Shock. Una storia sinistra. Capitolo undici. Sarà il canto delle balene

Undici. Sarà il canto delle balene.

L’incertezza tra l’adesione e la ribellione può provocare l’impasse e aprire una crisi esistenziale. Per evitarla, adottate due regole d’oro: concedetevi il tempo dell’attesa e “fissate” le nuove strategie d’attacco. Amore in gestazione. STRATEGICI.

«Ti meriteresti di rimanere qua a crepare in mezzo al tuo piscio.»
La voce viene da dietro. La conosco. Sono stordito e assetato. E impaurito e vaffanculo chiunque tu sia fatti vedere!
Entra in campo un vestito gessato. Entra in campo un paio di scarpe italiane. Entra in campo una testa di capelli ingelatinati e un viso con una lunga cicatrice.
Entra in campo Fernando.
«Shei shtato tu a faghmi queshto?»
«Vedi che sei un idiota?» Non ho ben chiaro a cosa faccia riferimento. «Non sono io il cattivo, italiano. Io sono quello che ti salva il culo.»
Silenzio. Proprio non capisco. Come fa Fernando a essere qui ora? E se non è stato lui chi è stato a ridurmi così?
Io continuo a essere legato alla sedia, pieno di sangue, vomito e orina. Tumefatto, assetato e spaventato a morte.
E Fernando non si muove. Rimane in piedi. Elegantissimo. Serio. Mi guarda.
«Ti avevo detto di non immischiarti in certe cose. Di fare attenzione. Di non fare troppe domande. Invece hai voluto fare di testa tua. Chi pensavi di essere? Batman?»
«Volevo faghe il mio lavogho… Shcusha non è che mi potreshti shlegaghe?»
Non riesco a parlare bene. Ho una pigna in bocca.
Fernando si avvicina piano. Attento a non sporcarsi il vestito. Tira fuori dalla tasca un coltello. Ha il manico di avorio. Mentre taglia la corda mi spiega.
«Mi dispiace Samuele, ma non hai proprio capito niente. Davvero non sai chi ti ha ridotto così?»
Faccio segno di no con la testa. Mi fa male anche il collo. balene

«E non ti chiedi come ho fatto a trovarti? Qua sperduto nel buco del culo di Ciudad Neza?»
Sono a Ciudad Nezahualcoyotl. Dove sono venuto a vedere la pelea de perros.
Faccio di nuovo no con la testa.
Si dice diniego.
Faccio un segno di diniego.
Libero le mani e i piedi dalla morsa delle corde che mi hanno scavato la carne per tutte queste ore. Mi massaggio i polsi e le caviglie. Ci sono croste di sangue rappreso un po’ dappertutto, ma sono integro. La mia gola arde.
«Era un po’ di tempo che il mio caro e fidato Tintan aveva degli affari paralleli. Per un po’ li ho tollerati. Ma qui si parla di omicidi su commissione. Di rapporti con le famiglie del narco. Ho provato ad avvertirti, ma tu ti sei cacciato proprio tra le sue braccia.»
Io muoio di sete.
L’espressione di Fernando è calma. Non manifesta emozioni particolari mentre mi spiega come il suo uomo più fidato lo ha tradito.
«Ti ho fatto seguire dopo che sei venuto a Tepito. Senza che Tintan lo sapesse. Ti ho messo sotto sorveglianza speciale. Quello che mi manca è il motivo per cui Tintan ti ha fatto fare questo dai tre fratelli Cabrera. Cosa hai fatto?»
I tre fratelli Cabrera. Che cazzo di nome è? Tre energumeni mascherati si chiamano “i tre fratelli Cabrera.” Un film messicano anni settanta, tipo El Santo contra los cazadores de cabezas.
Capolavoro del 1971. Che squallore.
Un nuovo segno di diniego da parte mia.
Fernando mi guarda paziente e annuisce.
Il dolore inizia dalla punta della testa e ricopre in maniera quasi uniforme tutta la superficie del mio corpo. Dove non sono stato picchiato ho degli stiramenti autoindotti. Dove non ho lividi ho escoriazioni o ferite o graffi o fratture. Credo che mi abbiano rotto una costola. E il naso. E uno zigomo mi fa lacrimare in continuazione.
Ma sono vivo. Respiro.
Fernando finalmente mi aiuta a tirarmi in piedi.
Entra un ometto piccolo e magro. La faccia da tagliagole. È in silenzio. Mi prende un braccio e mi sostiene. Sarà alto meno di un metro e sessanta ma ha una forza incredibile che si trasmette nei muscoli tesi e tonici.
Vengo portato fuori. L’aria è fresca. Ha piovuto da poco. L’ometto mi guida a una Mercedes Classe C nera coi vetri oscurati. Ovviamente. Mi apre lo sportello posteriore. Entro. Sale anche Fernando dietro. L’ometto si posiziona nel posto del navigatore. Alla guida uno degli scimmioni di Fernando.
In macchina bevo da una bottiglietta di acqua Electropura. La finisco in quattro secondi. Ho ancora sete e in pancia un gracidare di rane. E crampi.
Attraversiamo la città a velocità molto sostenuta. La pelle dei rivestimenti della Mercedes ha un buon odore.
«Ho visto qualcosa. Che non dovevo vedere. Credo.»
«Questo lo avevo intuito. Cosa hai visto esattamente?»
Non so se posso fidarmi di lui. Potrebbe benissimo essere una ennesima inculata. Ma ho bisogno di credere in qualcuno. Ho bisogno di una guida. Ho bisogno di affidarmi a qualcuno che prenda le decisioni al posto mio.
Fernando non mi fa più paura. O me ne fa meno.
«Ho visto un ragazzo. Della mia età. Con un tatuaggio sul braccio.» Fernando è in ascolto. «Il tatuaggio era il simbolo della Vera Via. E aveva un sacco nero in mano. Alla lotta dei cani. E dentro il sacco c’era una testa umana. E la faceva vedere a qualcuno. Non riuscivo a vedere a chi la mostrava.»
Silenzio.
«Speravo che non si fossero accorti di me.» Dico piano.
Fernando mi guarda pensieroso. E tace.
«Tintan da qualche tempo è in affari, in proprio, con i vertici del PEM. Facilita il loro ingresso e sviluppo nel mercato messicano. Trova spazi, finanziatori, elimina concorrenti e a volte si occupa del lavoro sporco. Lo fa utilizzando alcuni adepti. I più problematici. I più facili da controllare. I più fanatici. È il suo piccolo esercito di disadattati.»
Il ragazzo tatuato uguale a me. Sei parecchio problematico se vai in giro con una testa umana in un sacco.
Fisso Fernando negli occhi mentre fuori dal finestrino scorre la città con la sua vita.
Io penso. Penso. E piango. Senza poter fare nulla per impedirlo. Vorrei non piangere davanti a Fernando. Non posso.
È stato un avvertimento. Tintan non mi ha voluto ammazzare. Solo spaventare.
Passiamo per il Periferico.
Passiamo per il Viaducto.
Passiamo per la Colonia del Valle.
Fernando mi porta a casa.
Nella casa di Silvia alla Condesa.
«Riprenditi. E quando ti sei ripreso vienimi a trovare a Tepito.»
Annuisco. Scendo dalla macchina, che riparte. Citofono. Silvia mi apre. Entro nel palazzo. Mi chiudo il portone alle spalle e respiro.

***

Ho raccolto abbastanza materiale per un bell’articolo per Mondo Oggi. Sono ancora stordito, ma di roba da scrivere ce n’è.
Apro la posta elettronica dopo troppi giorni.
44 messaggi.
Antonella che mi comunica che aspetta un bambino e che ha deciso di emigrare anche lei. Con tutto il pupo in pancia. Pensa di andare in Tailandia.
Una mail di Giorgio. Giorgio non mi scrive mai le mail.
Giorgio mi comunica che ha fatto il possibile per mantenere aperto il canale con la redazione. Ma lo hanno mandato affanculo scocciati.
Cazzo. Non conti un cazzo, no, amico mio. Grazie lo stesso.
Il mio pezzo ora non serve a nessuno. L’unico buon contatto me lo sono bruciato.
Giorgio è rammaricato. Lo so, fratello.
Io pure. E non ho un cazzo di lavoro e ho finito i miei pochi risparmi.
Mi chiama Silvia.
«Hai saputo la notizia del giorno?»
«Cosa? che non mi pubblicheranno mai o che sono rimasto senza un soldo?»
«No. Questa non è la notizia del giorno. E non è nemmeno una notizia. Invece la news è che è morto Michael Jackson! Davvero non lo sapevi? Sei l’unico, Samuele.»
«Vuoi dire Michael Jackson il pedofilo? Michael Jackson l’ex negro che è diventato bianco? Quello che si è rifatto cento volte il naso? Quello che costruisce parchi di divertimento perché è un miliardario genero di Elvis con la sindrome di Peter Pan che molesta ragazzini e li fa giocare con il suo pisello? Quel Michael Jackson?»
«Dai sei di cattivo gusto.»
«Quello che è passato dal funk al pop? Quello che insieme a quella stronza di Madonna ha dettato legge durante gli anni ottanta, il periodo più buio degli ultimi secoli? Di che è morto?»
«Di infarto.»
«È crepato a 50 anni di infarto lasciando 500 milioni di dollari di debiti, leggo ora su repubblica onlain. E, credimi Silvia, penso che ci siano poche cose al mondo che mi possano fregare di meno. Comunque grazie per l’informazione. Ora che ci penso la prima musicassetta che ho avuto è stata Bad. È commovente.»
«Sei proprio un cazzone, Samuele. Ma che c’hai oggi? Vabbè, quando hai finito di fare lo stronzo fatti sentire.»

Le ferite non mi fanno più tanto male. Sono passate due settimane da quando il boss di Tepito è venuto a liberarmi sul suo cavallo bianco. Sulla sua Mercedes nera.
Per farmi riprendere Silvia mi porta al mare a Tulum.
Due settimane di mare.
Tulum è un posto bellissimo. Dicono che fino a un po’ di anni fa era ancora più bello.
È sulla costa caraibica del Messico, a due ore da Cancun. Verso sud. La famosa riviera maya.
Una costa di sabbia bianca, corallina. Mare turchese. Palme, cabañas sul mare. Il paradiso da cartolina.
Faccio il bagno nel cenote, con la maschera e le pinne.
A Tulum siamo alle cabañas Los Arrecifes. Sono gestite da un amico di Serapio, Xavier.
Xavier è un uomo sulla cinquantina. Indossa sempre occhiali da sole. Ha sempre in mano un bicchiere pieno di vino rosso, ghiaccio e succo di ananas. Nell’altra mano un purino di mota.
Lui mi ha consigliato i bagni nel cenote.
«Il cenote è dove i maya facevano il bagno. Sono dei grossi buchi molto profondi pieni di acqua dolce. Tutta la zona è piena. In mezzo alla selva ti ritrovi questi mini laghi profondissimi di acqua dolce. È un’acqua rigenerante. Purificatrice. Vedrai che ti sentirai meglio.»
E infatti sto tutti i giorni lì. A mollo. Silvia si è portata da leggere perché lei sta perennemente a fare il carpaccio umano sotto il sole.
Si prende cura di me.
La sera Xavier mi fa assaggiare tutte le prelibatezze del luogo. Avocado delle Barbados, ceviche di lumache di mare giganti, tartaruga.
«Ma non è illegale?»
«Sì, ma senti quanto è buona. Questa è solo per gli amici.»
La tartaruga è uno dei cibi più deliziosi che abbia mai mangiato.
Xavier mi racconta che Tulum era un vero paradiso. In uno stato, Quintana Roo, che fino a poco tempo fa non aveva vere e proprie istituzioni. Era un po’ il far west del Messico.
Ora tutta la costa se la sono comprata le multinazionali.
«Ci siamo venduti tutto il paese. Poi facciamo le vittime. Tutto quello che di buono avevamo lo abbiamo svenduto o regalato.»
Il principale acquirente è la compagnia multinazionale Barceló. E hanno costruito enormi resort sul mare. Uno dopo l’altro.
Ci sono più campi da golf qui che in tutta la penisola dello Yucatán.
E adesso ne costruiscono altri. E riempiono di cemento centinaia di cenotes. Per fare campi da golf. Abbattono la selva. Riempiono le “buche” di cemento. E fanno campi da golf. Lasciando crescere i margini della selva affinché da fuori non si veda nulla.
Decine di ettari quadrati.
Accendo il purino di mota. Qui cresce endemica. Mi lascio dondolare sull’amaca e i miei pensieri mariguani viaggiano su appezzamenti infiniti di campi da golf, su cui crescono mazze come alberi da cui pendono palline come frutti. E i laghetti sono cenotes. E nei cenotes molti alligatori che azzannano gringos e europei in vacanza nei resort Riviera Maya®.
Un’iguana passeggia serena sotto di me. E mangia zanzare. Brava.
Dopo due settimane a Tulum vuoi uccidere qualcuno dalla noia o scappare il più velocemente possibile.
Con tutta l’erba che mi sono fumato e la birra che ho bevuto sono riuscito a stordirmi e a distrarmi dalla noia. Ma porcaputtana che palle!
Torno nella pancia del Monstruo. Benché non abbia niente a cui tornare.
Io e Silvia.
Due italiani, amici da una vita emigrati in Messico. Silvia mi fa «Ma l’avresti mai detto dieci anni fa che ci saremmo ritrovati qua io e te su un pesero a Coyoacán?»
Siamo su un pesero a Coyoacán.
Quando sali su un pesero, una specie di piccolo autobus, devi dare i 3 pesos al conducente. Se c’è posto ti siedi. Se non c’è posto il conducente di fa sedere spiaccicato contro il parabrezza davanti. Seduto su un cassone a fianco alla porta. Io e Silvia siamo ammucchiati lì.
«No – le faccio io. – Proprio no. Siamo due surreali comunque.»
Passiamo per una scuola di ceramica. Un gineceo di ceramica. Dove Silvia imparava a fare dei vasi qualche mese fa con delle amabili signore di sinistra.
Silvia vive qui da due anni e tra le altre cose ha fatto un corso di ceramica a Coyoacán. E oggi passiamo a prendere un vaso che ha fatto quando era un po’ giù. Quando aveva il cuore come un alveare. E infatti il vaso sembra un nido di vespe. Ma dentro è laccato e bello.
Poi a Coyoacán una cosa che si fa è passeggiare. E allora passeggiamo per i giardini di Coyoacán dove c’è una fontana con i coyotes. Da cui prende il nome il quartiere. Dai coyotes, non dalla fontana.
Racconto a Silvia di quante cose surreali succedono in nella vita. Concorda. Prendiamo per Avenida Felipe Carrillo Puerto. E siamo un fiume di chiacchiere rumorose.
«E quindi in Colombia incontro questo tizio francese di età indefinita» le dico «che ha passato otto anni nei corpi speciali dell’esercito francese a fare il paracadutista e ammazzare africani in Africa. Poi a una certa sbrocca…»
Voce fuori campo: «Chi è che sbrocca??»
Gelo.
Io e la mia complice ci giriamo di scatto. Da dentro un negozio esce una voce. Una voce con uno spiccato accento romano. Maschile.
«Chi è che sbrocca allora??»
La voce ha una faccia. Una faccia di Roma.
Dietro a un bancone su cui sono esposte teglie di melanzane alla parmigiana. Su cui sono esposte lasagne. Su cui sono esposte torte rustiche.
La voce si chiama Emiliano.
«Come Emiliano Zapata?» chiedo.
«Sì. Sono nato qua – dice Emiliano – mia madre mi ha chiamato come un eroe messicano.»
«Beh, ti poteva andare peggio – dico – ti poteva chiamare Porfirio, come Porfirio Díaz. O ancora peggio, Benito, come Juárez.»
Risata.
La madre in questione è Alessandra. Oggi è il suo compleanno. Alessandra è della Balduina. Un quartiere di Roma, adiacente al mio. È andata a scuola alla Ludovico Ariosto. Dove sono andato io. Scuola demmerda. È qui dal ‘78 e oggi compie gli anni. Con il figlio Emiliano che ha una sciarpetta della Roma appesa a un vaso sopra al bancone.
Il Messico è surreale. Emiliano è surreale. E mi invita a vedere le partite della Maggica a casa sua.
«Noi ogni domenica ci vediamo alle otto di mattina a vedè la Roma. Se vuoi puoi venire appena ricomincia il campionato.»
La Roma a casa di Emiliano. Era tutto quello che potevo desiderare. Come la Roma a casa di Giorgio.

***

La giornata di ieri poteva sembrare un qualsiasi venerdì a Città del Messico. Un venerdì barzotto direbbe qualcuno. Per esempio io.
Poi all’improvviso si fanno le sette di sera e raggiungo Silvia e i suoi amici in una cantina del centro storico. Quattro chiacchiere e qualche tequila.
Continua ad essere venerdì.
Nove e mezza, Arena México per il rito della lucha libre nel suo tempio nazionalpopolare.
C’è un amico francese di Silvia, Roman, entusiasta degli energumeni mascherati che ogni settimana affascinano grandi e piccini con uno spettacolo che i più non riescono ad apprezzare.
C’è sempre qualche ottuso che commenta sì vabbè però si vede troppo che non fanno davvero a botte, cioè si capisce che è per finta.
In questi casi purtroppo è difficile avere un’interazione civile. Ma tant’è.
Dunque, finita la lucha, ci buttiamo tra le bancarelle che vendono maschere, magliette, pupazzi e tutto ciò che può avere impressa la faccia enmascarada dei nostri eroi.
Ovviamente non resisto e mi compro la maschera del Santo.
Ora. Per chi non lo sapesse, El Santo non è stato solo il più importante luchador, insieme a Blue Demon, della storia messicana. Esso è un eroe. Un’icona immortale. Un mito.
In questo paese che idolatra divinità ed eroi mascherati El Santo è più o meno come Maradona per i napoletani, o come Elvis per… per i fanatici di Elvis.
A partire dagli anni cinquanta El Santo, conosciuto anche come el enmascarado de plata, poiché la sua maschera è d’argento, comincia a diventare un eroe grazie a fumetti e film che lo hanno come protagonista.
In tutta la sua carriera nessuno è mai riuscito a togliergli la maschera in combattimento, nessuno lo ha mai visto in faccia. Da qui è nata la leggenda per cui il giorno in cui gli fosse stata tolta la maschera sarebbe morto. Nel 1984 el Enmascarado de plata partecipa a un programma televisivo e il presentatore riesce nell’impresa. Gli fa mostrare al pubblico un pezzetto della faccia. Dopo una settimana muore di infarto. E il mito prosegue e si ingrossa. Si dice che sia stato sepolto con la sua maschera d’argento.
Ieri sera mi presento con i miei amici in un locale della colonia Roma. Prima di entrare, per gioco, indosso la sacra maschera del Santo. Entro.
Da qui la serata cambia. Inaspettatamente tutto il locale esplode in grida e applausi. Dopo 30 secondi sono il re della serata. La follia. Gente che grida SantoooSantoooSantoooSantoooo. Mi fanno ballare in mezzo a cerchi vertiginosi. Mi offrono da bere. Tutte le ragazze del locale vogliono ballare con me. Anzi non con me. Con El Santo. I loro fidanzati mi chiedono se posso farmi delle foto con loro. All’improvviso vengo preso per le gambe e sollevato come la coppa dei campioni. Sono stravolto. Non riesco a credere a quello che mi succede. Duecento persone impazzite che coinvolgono uno sconosciuto in modo forsennato peché indossa la mascara de plata. Mi fanno salire su uno sgabello e mi costringono a ballare. Per tutto il tempo in cui rimango nel locale gran pacche sulle spalle, sorrisi, abbracci commossi.
Io ora non posso più togliermi la maschera. Non sono più io. Non riguarda più me. In questo momento io presto il mio corpo allo spirito del Santo. E ho il dovere di onorare la maschera che indosso di fronte a tutta questa gente che la rispetta e la venera. Per un momento ho capito come deve sentirsi Francesco Totti quando entra in una trattoria di Testaccio. Per poche ore ho sentito nel mio corpo la concretezza dell’amore di un popolo verso un suo eroe. Un eroe mascherato. Un giustiziere. Un’icona positiva. Popolare.
Uscito dal locale, solo dietro l’angolo tolgo la maschera per prendere aria e un taxi. Per qualche istante temo che anch’io possa morire facendo quel gesto. Ma non accade. Evidentemente.
Probabilmente questa è l’esperienza più surreale che mi sia successa a Città del Surrealismo.
Che lo spirito di Rodolfo Guzmán, conosciuto come El Santo, ci protegga tutti.
***

Scrivo e guardo la televisione.
Scrivo e vedo dei poliziotti che bloccano la strada.
Di fronte a loro dei poliziotti.
I poliziotti puntano dei fucili in faccia a dei poliziotti.
L’unica differenza è che alcuni sono vestiti di blu e altri di nero. Quelli vestiti di blu sono meno. Quelli di nero di più.
Un po’ guardo facebook e un po’ alzo lo sguardo su questa scena irreale. Sembra che questo paese voglia mettermi alla prova ogni giorno.
Motivo dello scontro: i federali decidono di fare una scampagnata a Monterrey, Nuevo León, per arrestare il capo della polizia di stato e altri otto ufficiali.
Allora la polizia dello stato di Nuevo León decide che col cazzo che l’Efbiai messicano si porta via il loro amato capo. E bloccano la strada. Per tre ore.
E ecco qua che tutto il paese si trova di fronte alla scena finale delle Iene con tutti che puntano pistole contro tutti.
Che poi c’hanno il volto coperto.
Cioè è come se uno accendesse Rai due e vedesse la seguente scena: sulla Salerno-Reggio Calabria, all’altezza di Vibo Valentia c’è un blocco della polizia.
I poliziotti, con il volto coperto, bloccano la strada e arrivano i carabinieri con le camionette blindate e gli dicono “vabbè ora toglietevi dai coglioni” e quelli, sempre a volto coperto “no, perché avete arrestato Ciccio Notraco, il nostro amato capo”.
E allora restano lì.
Ore.
A puntarsi in faccia i mitra e i fucili da guerra.
Tutti molto maschi e molto incazzati.
Ecco questo è più o meno quello che vedo. Solo che qui sono messicani e non sono in Calabria. Ma non c’è tutta sta differenza.
Sarà che sono tre giorni che non bevo un goccio di alcol? Sono allucinazioni?
È arrivato il momento di tornare a Tepito.

Prendo il pesero che mi porta fino in centro. Da lì attraversando un labirinto di stradine arrivo a Tepito.
Fernando mi ha dato appuntamento in un bar vicino a una piazza. Un posto pubblico.
Fernando mi accoglie con la solita espressione calma, posata.
«Abbronzato eh? Sei stato al mare?»
«Un po’ di riposo a Tulum.»
«Ah, un posto straordinario.»
«Sì.»
Silenzio.
«Fernando, volevi vedermi?»
«Sì. Volevo dirti alcune cose.» Parla facendo molte pause. Bevendo lentamente il cappuccino che ha ordinato.
Io bevo un caffè americano con latte. Molto latte e molto zucchero.
«Tintan non è più un problema. Né mio, né tuo.»
La notizia è come un tocco di campana sordo. Senza rimbombo. Non sento nulla.
Quando ho visto quel ragazzo tatuato con la testa in mano e sono corso al cesso, per un po’ ho creduto di avercela fatta. L’omone che è entrato dopo di me era un quarantenne ubriaco come una merda, che veniva a svuotare la vescica al cesso.
Ho vomitato tutto quello che avevo in corpo, ma nessuno mi ha toccato. Nessuna minaccia. Niente.
Uscito dal bagno un po’ sconvolto sono tornato nel patio a vedere dei cani ammazzarsi.
Tintan è ricomparso dopo qualche minuto con l’espressione imperturbabile sul volto.
Non ho pensato che potesse essere lui l’uomo nell’ombra.
Ha fatto finta di niente. Mi ha chiesto se avevo visto abbastanza. Gli ho risposto che sì, sarei tornato volentieri a casa. Avevo un altro conato.
Dopo venti minuti eravamo di nuovo seduti nel Chevrolet TrailBlazer di Tintan. La musica a palla. Reggaeton.
Tintan mi ha accompagnato fino a Tepito. E da lì ho proseguito da solo.
Nessun segnale. Nessuna preoccupazione.
E ora nessuna emozione nel sapere che il mio aguzzino è stato tolto di mezzo. Non sento nulla.
Ho solo voglia di smettere di decidere.
Ho solo voglia che qualcuno si prenda cura di me.
«Ho un lavoro per te Samuele. Sarai il mio aiutante. Non come Tintan. Lui era una guardia del corpo, il mio braccio destro, il mio assistente sotto tutti i punti di vista. No, per te sto pensando più a una specie di addetto stampa. Una specie di faccia pulita. Che ne pensi?»
È pazzo. Per forza. Cosa gli fa pensare che io possa accettare una proposta del genere?
Affiliarmi a un boss di Città del Messico è fuori discussione. Anche se no ho altro da fare. Anche se non ho da mangiare.
«Perché dovrei lavorare per te?»
«Perché non hai niente. Non hai niente da perdere. E perché sei stanco.»
Sono stanco. È vero. Ma questo non basta.
«In che consiste questo lavoro? Cosa vuoi esattamente da me?»
«Ho varie attività oltre alla gestione del mercato. E per alcune ho bisogno di avere una faccia pulita, credibile, che mi rappresenti. Voglio che quando vedono te vedano anche me. Voglio che si associ la tua faccia europea, i tuoi occhi sinceri, il tuo sorriso rassicurante, a me. Tu devi essere il volto pubblico di Fernando. Devi essere uno specchio per le allodole. Anzi. LO specchio per le allodole. Sai essere convincente. Sai trasmettere sicurezza. Sai far credere di avere le risposte. L’ho notato, sai?»
«E perché dovrei accettare?»
«Per esempio perché ti ho salvato la vita.»
Questa era banale.
«O perché non hai un cazzo. Non ti è rimasto niente.»
Ora cominci a dire cose pesanti.
«O più semplicemente perché tu LO VUOI.»

Questo paese non è esattamente come mi aspettavo. Pensavo che avrei trovato un modo per sfangare. Per fare quello che pensavo fosse il mio lavoro, scrivere.
Da fuori sembra solo un posto surreale dove succedono cose strane. Invece è proprio una giungla.
Per questo i messicani sono così cabrones.
Millenovecentonovantotto: durante i mondiali di calcio di Francia, un messicano con parecchio alcol in corpo, pensa bene di pisciare nel focolare del trionfo, che si trova sotto l’omonimo arco. Ci ha pisciato sopra!
Prima conseguenza: ha spento il sacro fuoco del tronfio trionfo francese.
Seconda conseguenza: unanime disgusto internazionale nei confronti del Messico.
Ti piscio sopra, Trionfo.
Ti piscio sopra, comunità internazionale, sono messicano e sono ubriaco. Non c’è nulla di più molesto e antisociale al mondo.
E io arrivo in questo paese. Sperando di trovare le armi necessarie a smantellare l’organizzazione di un paraculo che ha capito come soggiogare un fottìo di persone adoranti.
Sono arrivato qui pensando che avrei potuto lasciarmi alle spalle tutta la disperazione, la delusione, la frustrazione della mia vita.
Sono arrivato qui pensando di lasciare in Italia i miei fantasmi. Le donne che non mi hanno amato. Ginevra. Lauréda.
Pensando che avrei avuto un’altra possibilità.
Per essere luminoso. Vincente. Coerente con i miei sogni di giustizia e successo di bambino anni ottanta.
Ken il Guerriero. Che uccide i cattivi facendogli esplodere la testa. I cattivi.
Indiana Jones, che va alla ricerca della Verità. Del Graal. Che uccide i nazisti. I cattivi.
Smantellare la Vera Via. Ma la Vera Via è un polipo. L’ennesimo polipo. L’ennesimo oppio. L’ennesimo padrone a cui tutti prima o poi, stanchi, decidiamo di sottometterci.
Né più, né meno.
La Vera Via in fondo sono io.
Fernando aspetta una risposta da me. Ma già la conosce.

***

La mia casa si affaccia sul Mar di Cortés. Il rumore del mare mi accompagna durante la giornata.
Il lavoro non è difficile. Lo faccio tranquillamente da casa con una connessione veloce.
Lavoro per Fernando. Sono la sua faccia pulita. Quello che gestisce la comunicazione delle sue molte imprese.
Siamo in affari anche con il PEM. Ho conosciuto il Maestro. È un cialtrone. Ma Fernando dice che è affidabile per ripulire denaro sporco.
Mi ha sempre disgustato l’idea che chiunque si metta in ginocchio davanti a un dio, davanti a un uomo.
Mi disgusta l’idea che qualcuno scelga di mettersi in ginocchio.
Mi disgusta il gesto di mettersi in ginocchio.
Di pregare.
Di scegliere di dare la propria fiducia, la propria fede, a un’altra persona. Incondizionatamente.
Per anni è stata la mia battaglia. Il faro della mia vita.
Non riesco ad accettare che qualcuno possa rinunciare al proprio arbitrio e affidarsi a qualcun altro.
Non accetto l’idea di rinunciare al mio libero arbitrio e delegare qualcun altro che decida al posto mio.
Non accetto l’idea di rinunciare alle responsabilità per mettermi nelle mani di qualcun altro.
Oppure non accetto di farlo io?
Oppure non accetto che esista un dio se quel dio non sono io?
Ora c’è qualcuno che ripone la sua fede in me.
Ora c’è qualcuno che è disposto a inginocchiarsi di fronte a me.
Che crede ciecamente in me e che esegue i miei ordini come se questi fossero legge.
Questo è quello che mi ha dato Fernando.
«Tu non odi le sètte perché rappresentano il male. Perché anche tu sei oscuro. Tu odi il Maestro perché non sei stato ancora capace di sottomettere totalmente qualcuno. Io voglio darti questa possibilità. Voglio metterti di fronte al tuo lato oscuro. Perché so che lo abbraccerai.» Mi ha detto Fernando. Darth Vader.
Guerre stellari era una menzogna. Una menzogna anni ottanta. E io ci avevo creduto di essere il cavaliere Jedi. Di essere un Padawan. Di essere Luke Skywalker.
E invece no. Ognuno incontra il suo lato oscuro e lo abbraccia. Prima o poi.
E io l’ho abbracciato il mio lato oscuro.
Fernando si è limitato a tirare fuori quello che da tempo era già sul piatto.
Vaffanculo George Lucas.
«Chi non vuole vedere l’immagine nello specchio è un ingenuo o un ipocrita. E l’ingenuità tu dovresti averla persa durante l’adolescenza.» Mi ha detto Fernando/Darth Vader.
Ora sono diventato un uomo. Abbastanza uomo. E forse anche un po’ pitbull.
Ora accetto l’idea che si tratta solo di lavoro. Che c’è un mercato che ha bisogno di un prodotto. Un mercato di gente che vuole credere. Che vuole essere presa per mano. Che vuole essere presa in giro.
Accetto l’idea che o sono come loro o sono il loro spacciatore di menzogne.
Quel prodotto posso propinarlo senza grande sforzo.
Spacciatore di menzogne. Invece che uno scrittore, un truffatore. I miei sogni medio borghesi di sinistra. I miei sogni di giustizia. La mia vocazione. Raccontare storie.
Ma in fondo è poi tanto diverso raccontare panzane per un mafioso?
Dunque mi limito a fare il mio lavoro. E scrivo nel tempo libero. Perché ho molto tempo libero.
Così penso alla mia fuga. Alla fuga da quel mondo in cui ero nato e cresciuto. In quella Roma di sinistra patinata. La fuga da. Non la fuga verso.

A volte nel tempo libero aiuto Doña Tota a fare pacchetti nel suo negozio di dolciumi, vicino casa.
Vivo poco fuori La Paz, capitale della Baja California Sur.
Intorno a me: il deserto e il mare.
Che poi non è vero che è deserto. È pieno di piante cactacee, succulente. Qui poi fanno un ottimo formaggio di capra. È il posto che più di tutti mi dà un senso di vastità. Più di Città del Messico.
La mia casa è scarna. Pochi mobili. Tre amache appese al soffitto. Una cucina grande.
Il mio Mac. La macchina fotografica. Libri.
Ho portato con me anche Vittorio. Ma sembra non gradire il deserto.
Sono tre giorni che fa l’offeso e fa finta di essere una statua di sale.
Ho un bel giardino di cactus che dà sul mare.
Qui una volta all’anno arrivano le balene grigie che vengono a svernare e a partorire.
Succede a febbraio.
Di notte si sente il canto delle balene.
Respiro.

Radical Shock. Una storia sinistra. Capitolo dieci. Amores perros

Dieci. Amores perros.

L’intensità dei desideri smuove forze possenti spingendole verso obiettivi d’amore e di conquista. Attenzione: bruciando le polveri con avventatezza si creeranno tensionni, mentre usando l’intuizione troverete più facili vie per avvicinarvi al risultato. PASSIONALI.

La visita onirica di Lauréda mi lascia intontito. Perso. La gastrite mi ha svegliato.
Sono le 7:19. È il caso che mi dia una svegliata.
Vittorio mi guarda con quegli occhioni a palla grandi come tortillas. L’ottuso.
Alle due devo incontrare Tintan. Mi porta alla pelea de perros. Non posso permettermi di arrivarci rincoglionito. Quando mi ricapita un’occasione così?
Dalla finestra arriva la solita cumbia. Mi rompe il cazzo. Prendo il computer. Ci attacco la cassa Bose che Silvia nasconde nell’armadio. Silvia è al lavoro.
Faccio partire uno dei più grandi successi della musica rock/pop italiana. Vaffanculo di Marco Masini.
Questo vi meritate per svegliarmi tutti i giorni con la cumbia, maledetti mangiatacos. Vediamo un po’ chi vince oggi?
Mi caccio sotto la doccia sulle note del grande Masini. Mi devo ripigliare.
Loro: zitti.
Samuele 1 – mangiatacos 0.

La mia colazione: huevos rancheros. Uova all’occhio fritte su una tortilla di mais con salsa piccante di pomodoro. Il cagotto ormai mi accompagna da settimane come un amico sincero. Quindi mangio di tutto senza farmi troppi problemi.
Apro La Jornada, il quotidiano su cui scrive Serapio. Ieri un commando di ottanta paramilitari travestiti da poliziotti federali ha fatto irruzione in un carcere di Zacatecas.
Ottanta persone.
Quindici camionette blindate della con le insegne della polizia federale e un elicottero. Armati di AK-47 e fucili da guerra.
Si sono presentati alle quattro di mattina alle guardie dell’ingresso principale dicendo che dovevano fare un controllo urgente. Le guardie hanno aperto i cancelli dando loro il benvenuto.
I paramilitari, appartenenti al gruppo de Los Zetas, tutti ex militari disertori dei corpi speciali, addestrati dagli americani nella School of the Americas (quella di Fort Benning, Georgia, dove hanno studiato tutti i gruppi paramilitari dell’America latina e i vari dittatori sanguinari, a spese del contribuente statunitense), ora in forza al cartello di narcotrafficanti del Golfo, sono entrati. Senza sparare un solo colpo hanno liberato 53 carcerati legati al Cartello del Golfo e li hanno portati via. Ringraziando e offrendo a tutti i secondini la colazione.
Durata dell’operazione: 35 minuti.
Finisco di mangiare le mie uova.
Scendo in strada. Ho voglia di fare una passeggiata al parco. Per mandare giù le uova e la notizia.
Ho di nuovo voglia di menare.
Me la devo proprio portare appresso dappertutto. Questo paese mi fa incazzare. Siete peggio di noi. La differenza coi radical chic italiani è che i messicani sono più ricchi e più stronzi.
Avete preso il peggio dell’Europa, mischiato col peggio di quello che è rimasto dei vostri imperi aztechi o salcazzo e di nuovo mischiato col peggio dei vostri padroni del nord. Un’abbondante dose di cattolicesimo e via. Bel cocktail del cazzo! Complimenti!
Poi però si incazzano se gli dici che sono terzo mondo. Come i greci che si incazzano se gli dici che sono turchi. Il fatto è che siete terzo mondo. E i greci sono turchi.

***

«Allora? A che punto sei?»
«Sto avanzando. Un po’ a tentoni ma avanzo. Te? Che se dice? Come sta Miss Liceo? Ti porta ancora il rum?»
«Miss Liceo è superata frate. Adesso esco con una diciannovenne con delle tette commoventi.»
«Bene. Come sempre puntiamo sulla testa delle donne.»
«Sempre. Tra un po’ arriva. Devo trovare una scusa per cacciarla di casa prima di mezzanotte. Arrivano i mostri all’una e facciamo nottata di texana.»
«Dille che sta tornando la tua ragazza. Funziona sempre.»
«Già usato. Vabbè me inventerò qualcosa. Una bella diarrea magari.»
«Che stile!»
Il faccione di Giorgio campeggia nella finestra della videoconferenza di skype. Ogni tanto salta la linea. Sto rubando la connessione wireless dal negozio di gelati qui sotto.
«Che ore so da te?»
«L’una.»
«Qua ce stanno i miei vicini filippini che è tutto il pomeriggio che friggono. Dall’odore che arriva a zaffate sono sicuro che stiano friggendo una tonnellata di merda. C’è una puzza orrenda, mortacci loro.»
«Ma come cazzo fai a vivere costantemente con quell’odore?»
«Lascia perde va. C’ho la pazienza di Budda. Me so beccato pure una cazziata da una stronza su facebook oggi pe sto motivo. Secondo lei non posso dire “filippini”. Devo dire “i miei vicini” senza specificarne l’etnia.»
«E perché mai?»
«Perché se no è razzista dire che i miei vicini filippini friggono la merda o i copertoni. E invece non è razzista per niente. È ipocrita non dirlo. Ci sarà un legame tra il fatto che sono filippini e il fatto che la loro cucina puzza.»
«Da antropologo ti posso confermare che la scelta di friggere merda è strettamente legata ad una questione etnica in effetti. È una scelta dirimente, legata alla provenienza, quella di friggere copertoni o merda piuttosto che cucinare un buon minestrone.»
«Appunto! È quello che ho detto a lei. Solo che devo sentirmi rispondere che sono razzista e che dipende dai gusti. Dipende dai gusti!!»
«Il relativismo da autobus dei fricchettoni col senso di colpa occidentale. A proposito di filippini. Lo sapevi qual è il massimo della libidine la prima notte di nozze dei neosposi filippini?»
«Friggere merda?»
«No. Sesso ascellare. Lui si fa fare una pippa con l’ascella di lei.»
«Ma che cazzo dici? Non ha alcun senso sta cosa…»
«Me l’ha detto un’amica di Manila. Poi pare che le donne filippine più so pelose e più so bòne. Vedi come i tratti culturali influiscono in maniera dirimente nella vita e nelle abitudini sessuali e culinarie? Vabbè com’è finita sta storia?»
«È finita che stavolta non glie l’ho fatta passare a quella stronza. Ho calato l’asso. Le ho detto sì, esistono i gusti. A molti piace praticare il felching per esempio.
FELCHING: pratica sessuale (il lemma inglese, coniato -a quanto sembra- negli Stati Uniti negli anni ’70- non trova corrispettivo nella lingua italiana), che consiste nel succhiare il liquido seminale fuoriuscente dall’ano o dalla vagina in seguito all’eiaculazione al loro interno. Solitamente si tratta del liquido seminale della stessa persona che succhia. Sono gusti. gusti demmerda!»
«Hahahahahahahahahahahah. Brutta stronza.»
«L’ho stesa.»
«Maledetta.»
«Parlando di cose futili. Ce l’hai il pezzo? Dalla redazione mi stanno tartassando. Se non glie lo mandi entro domani sei fuori fratello. Ho fatto quello che potevo, ma lo sai che non conto un cazzo.»
«Lo so Giorgio. Non hai mai contato un cazzo. Ci sto provando. Spero di mandarti tutto entro domani.» Tutto cosa? Non ho niente in mano. Posso scrivere un bel pezzo sulle porte in faccia, come sempre. «Tu, piuttosto. La tua storia su Scientology?»
«Avanza. Sto facendo delle scoperte interessanti. Credo che verrà bene. Senti Samuele, dimmi la verità. Non hai un cazzo, vero?»
«Ma la smetti? Invece ho quasi fatto. Vabbè mo te saluto che devo uscire. Vado a una pelea de perros.»
«Ci sentiamo fratè.»
«Salutami la diciannovenne e le sue tette imperiose.»

***

Mentre cammino per arrivare al mio appuntamento si ammucchiano emozioni contrastanti.
Non sta succedendo quello che mi aspettavo. Non è sparito proprio niente “per magia”. Invece nei miei piani arrivando qua sarei stato travolto dall’avventura, dagli eventi, sarei riuscito a entrare dalla finestra del mondo che mi aveva sbattuto la porta in faccia in Italia.
Semplicemente non succede. E io ricomincio a odiare.
Queste strade sfondate, i marciapiedi sfondati, i palazzi sfondati. E quel coglione vestito da pagliaccio che cerca di far ridere i passanti.
Un naso rosso. Un cilindro schiacciato in testa. Baffi arricciati. Pizzetto puntuto. Pantaloni troppo corti tenuti su da tiracche nere. Camicia bianca. Scarpe nere e calze rosse. È decisamente un pagliaccio.
E cammina verso di me. Come un pagliaccio. Deve essere attirato dall’espressione ingrugnita che sicuramente ho sulla faccia in questo momento. Guarda è meglio se te ne stai alla larga amico buffone, che oggi proprio non è giornata.
Invece mi punta.
Che cazzo vuoi, idiota di un pagliaccio?
Lui sorride.
Che cazzo sorridi? Non vedi dove cazzo sei? Dovresti piagne.
Senza rendermene conto lo dico.
«Che cazzo sorridi? Non vedi dove cazzo sei? Dovresti piangere.» Vomito la rabbia. Sono una maschera di rabbia.
La sua risposta è un sorriso ancora più ampio.
Il pagliaccio mi fissa dritto negli occhi.
Sorride e mi fissa.
Dice che il Messico ha bisogno di pagliacci.
Dice che il mondo ha bisogno di pagliacci.
Dice, sai, quando ti succede qualcosa di brutto o di difficile hai due opzioni. O piangi o ridi di te. E piangere rende solo le cose più difficili.
Ma di che cazzo vai farneticando? Ma ti vedi come vai in giro?
Questa città è una giungla, dice il pagliaccio, ma se ti vesti come me, se quando succede qualcosa invece di arrabbiarti regali una risata, nessuno ti aggredisce, nessuno ti fa del male. Quando sei un pagliaccio la tua lotta è dal basso.
Nessuno si sente minacciato.
Nessuno si sente in competizione.
Perché tu ti presenti come il perdente.
La gente ride di te. Tu la fai ridere.
E ride perché vedendo te vede qualcuno che è palesemente uno sconfitto. E le sventure degli altri fanno tanto bene alle nostre.
Invece di farmi stare meglio, idiota a tempo pieno, le tue parole mi lacerano come lame. Chi ti ha chiesto qualcosa?
Ma tu me lo chiedi, dice il pagliaccio.
I tuoi occhi me lo chiedono, dice il pagliaccio.
Far ridere gli altri prendendosi gioco di se stessi è un’arma potentissima.
Il pagliaccio mi svela il suo segreto.
Il suo potere.
La sua gloria.
Io vinco, dice il pagliaccio, perché regalo sorrisi. Perché regalo allegria. Ed è un’allegria che nasce dalla cenere della mia sofferenza.
Io vinco perché sconfiggo la sofferenza e la trasformo in sorrisi. Grazie al mio dolore qualcun altro ride. E le risate degli altri alimentano il mio cuore. E il cuore di un pagliaccio è il nostro naso rosso.
Ci mettiamo il cuore in faccia.
E indica la palla rossa che campeggia su un viso imbiancato.
Sto parlando con uno specchio. Uno specchio con un naso rosso.
Poi il pagliaccio mi abbraccia. Lo lascio fare. Intontito.
È un abbraccio gratis, dice.
Mi fissa di nuovo. Sorride. E se ne va.
Rimango impalato in mezzo alla strada.

***

Tintan è puntuale. Molto insolito per un messicano. Mi passa a prendere alla metro Tepalcates. Sono le 14:06. Siamo ai margini della città, e alle porte di una delle tante urbanizzazioni periferiche del Monstruo, Ciudad Nezahualcóyotl, o più semplicemente Ciudad Neza.
Salgo sul suo suv Chevrolet TrailBlazer LS nero coi vetri oscurati. Spara una luce blu da sotto, che illumina il pezzo di strada sotto la macchina. Anche di giorno. Antonella direbbe che questa macchina denota una necessità di apparire maschio e dominante. A me sembra solo tamarra da morire.
Sono agitato. Non so cosa mi aspetta e il mio amico qui a fianco oggi è silenzioso. Non vedo nessun cane né sul sedile posteriore, né nel portabagagli con la rete di acciaio per dividere i vani dell’auto.
Tintan non ha portato il suo gladiatore.
Percorriamo le arterie della Ciudad Neza a un’andatura sostenuta.
Avenida Lopez Mateos, poi a destra Avenida Pantitlán, fino alla nostra destinazione. Una casa privata. Senza numero civico. La facciata è verde e non ha assolutamente nulla di particolare o degno di nota.
Sono in mezzo alla Colonia Metropolitana Tercera Sección. La calle si chiama Villa Obregon. Ma potrebbe chiamarsi in qualsiasi modo.
Questa zona è fuori dal mondo. E se dovessi rimanere qui senza la mia guida sarebbero davvero cazzi amari.
Tintan parcheggia lungo la strada. Scendiamo in silenzio. Ci sono molte altre macchine sul marciapiede. Mercury degli anni ’80, Chevy, Vochos, Jeep, Mustang. Di ogni tipo.
Il mio accompagnatore suona alla porta verde. Ci apre un ciccione con la maglietta nera. Porta i capelli a spazzola e ha la carnagione molto scura, da indio. Accoglie Tintan con una stretta di mano. Poi mi guarda. Guarda Tintan interrogativo.
«Tutto a posto, Carlitos, il guero è con me.»
«Se lo dici tu. Avanti.»
C’è puzza di cane.
E di sangue.
E di piscio.
E, come sempre in questa città, di olio rancido e mais.
Questa è una casa. Vuota. Ma piena di gente. Ci saranno quaranta persone.
Vedo ragazzi. Vedo uomini di mezza età. Vedo adolescenti. Vedo facce molto brutte. Facce normali. Tutti uomini. Alcuni hanno un coltello. Tutti bevono. Tutti scommettono. Molto denaro.
C’è fumo nell’aria.
Ci sono bottiglie di birra nelle mani.
E sigarette.
In sottofondo: reggaeton.
In primo piano: vociare indistinto e molesto.
Tintan mi precede.
Pensavo che la mia presenza suscitasse un po’ di scalpore. Invece sono tutti concentrati nelle scommesse.
Ci sono soldi nelle mani. Passano di mano in mano.
In fondo al corridoio che sto percorrendo c’è la gran parte della gente. In un patio.
Nel patio c’è un’arena. La vedo tra le schiene degli uomini che ci sono attorno.
Nell’arena c’è sangue.
Ci sono pezzi di cane.
Nell’arena c’è un cane morto.
Sgozzato. In una pozza di sangue suo e dell’avversario. Che ora il suo padrone sta ricucendo. Letteralmente lo cuce.
Le lesioni del vincitore sono brutte da vedere ma a quanto pare non è ridotto così male. Scodinzola. Scodinzola col mozzicone di coda che gli resta.
Due pittbull. Il pitbull è il cane più usato nella pelea.
Ho letto in un articolo che i pitbull terrier sono i cani preferiti per questa attività ludica. Sono forti. Sono veloci. Sono agili. E sopportano bene il dolore.
Sono dei gladiatori.
In questo caso il pitbull morto ha la gola squarciata.
Non è stato abbastanza rapido e agile.
Non è stato abbastanza forte.
Non è stato abbastanza incazzato e alienato.
Non ha odiato abbastanza il suo avversario.
«Samuele, non sei stato abbastanza uomo.»
Il pitbull morto è schiodato perché non è stato abbastanza pitbull. Si vede che l’altro invece sì.
Sempre nell’articolo sulla pelea de perros ho letto che i cani vengono addestrati in modo feroce. Torturati.
Tra le tecniche più comuni c’è quella di far correre i cani attaccandogli addosso grossi copertoni con delle corde, per rinforzarli e aumentare la loro resistenza.
Si insegna al cane a mordere in qualsiasi posizione, gli si fanno mordere copertoni e contemporaneamente lo si colpisce con bastoni chiodati sulle zampe, così attraverso il dolore imparano a stare attenti alle proprie estremità mentre combattono.
I cani vengono addestrati fin da piccoli al combattimento. Si fa aumentare la loro aggressività tenendoli la gran parte del tempo legati e quando li si porta fuori vengono legati a grosse catene che li strozzano, così gli animali si abituano alla fatica e a essere sotto stress.
Lo stress è un elemento fondamentale durante il combattimento. Serve a fargli venire la cazzimma.
L’allenamento è una fortificazione fisica e una debilitazione emotiva.
I cani sono costretti a vivere situazioni di stress e sconfitta per poi essere rinforzati “positivamente” attraverso lo scontro con altri cani più piccoli, che quindi vengono uccisi compulsivamente, o più grandi, con i quali imparano a soffrire.
Mi viene di colpo in mente Gaspare Fradeani.
Gaspare è il cane di una coppia di amici di Ginevra. È un bastardino con problemi di iperattività. E di disciplina. Prima pisciava dappertutto.
Problemi per i quali i suoi padroni, una coppia sana, mi sembrava, hanno deciso di portarlo dallo psichiatra. Lo psichiatra dei cani.
Vedo davanti a me il cadavere di un cane ucciso dai morsi feroci di un suo simile.
Torturati per forgiare il loro carattere.
Vedo Gaspare che si lecca il cazzo tutto il giorno perché lo psichiatra gli ha dato il prozac o non so che altro psicofarmaco, per farlo essere più mansueto e non farlo pisciare in casa.
Ora ha erezioni continue e passa le ore a ciucciarsi l’uccello rosa.
Il pitbull che ho davanti viene bastonato quotidianamente. E costretto a combattimenti che si chiamano matar o morir, uccidere o morire.
Un cane di questi non dura più di 4/5 combattimenti. E se sopravvive viene buttato in strada perché ormai ridotto troppo male.
Gaspare prende psicofarmaci e si lecca il pene in modo compulsivo.
I suoi padroni sono sani.
I padroni di questi cani sono sani.
Oltre ai pitbull le altre razze predilette per i combattimenti sono staffordshire bull terrier, american staffordshire, dogo argentino, fila brasiliano, tosa inu, akita inu, e rottweiler.
Continuo a osservare rapito mentre la gente intorno a me scommette, beve, fuma e parla a voce alta.
Tintan mi raggiunge vicino all’arena. Mi passa una bottiglia di birra. Bevo. È fresca.
«Sembri molto serio Samuele. È come te lo aspettavi?»
«Insomma. È molto cruento. Stavo pensando a un cane di un amico. Sarebbe divertente vederlo fare una pelea.»
«Senti, ti lascio a divertirti per una mezz’ora. Ho un po’ di persone con cui devo parlare. Ti ritrovo qui.»
«Vai tranquillo. Grazie. Non mi muovo.»
Sta per cominciare un’altra pelea. Io finisco la mia birra e ne comincio subito una seconda. L’ambiente comincia a essere nauseante. Deve essere tutto questo sangue. O questo odore di morte.
Sono un po’ confuso. Dove cazzo sono? Chi è questa gente? Sono dei pazzi?
E perché in fondo questo posto mi piace?
Alcuni esperti affermano che il profilo psicologico dei padroni di cani da combattimento è quello di persone psicopatiche, con un forte complesso di inferiorità, cosa che li fa proiettare nel loro cane. Come se loro stessi diventassero forti e temibili.
Lo scontro del cane con un altro cane altrettanto forte dà la misura a entrambi i maschi del coraggio e della competitività.
Questo è Tintan.
Invece le persone che assistono a questi combattimenti sono nella gran parte uomini, adolescenti e adulti, il cui gusto per il sangue denoterebbe diversi disturbi della personalità, generalmente psicopatie più o meno gravi. Assistono a questi eventi per rinforzare la loro virilità e mascolinità, diminuita per qualche motivo nella loro vita.
E questo sono io.
Devo andare a pisciare.

diario da Città del Messico. benvenuto!

Accompagnato da sogni di disastri e morti ammonticchiati faccio ritorno pimpante nella Città. Il DF comparato con Haiti pare la Svizzera. e questo già è straniante.

La città respira. Accoglie le notizie disastrose della vicina Haiti come un’anziana signora. E prosegue lenta e mastodontica la sua vita. È martedì sera e devo vedere un’amica a Coyoacan. Sono le dieci. Acchiappo un taxi al volo. Il tassinaro si lamenta della ruota anteriore. Io lo ignoro. State sempre a lamentarvi di qualcosa, possibile che ce n’è sempre una?

Su avenida Coyoacan la macchina rallenta, senti guardo un attimo sta gomma. Si ferma. Non faccio in tempo a bestemmiare per la mia idiozia e loro sono dentro. Uno davanti e uno dietro. Quello dietro mi rovina addosso coi suoi cento chili abbondanti strizzati nella giacca di pelle. Odore di gel e dopobarba. Eccomi qua in compagnia di due rateros. Me mancava una bella rapina.

Chiudi gli occhi e metti le mani in vista e stai zitto testa di cazzo se no ti piantiamo un balazo in mezzo alla fronte. Esagerato. Avevo intuito che era una rapina. so sempre stato uno sveglio.

Chiudere gli occhi. Mettere le mani in vista. stare zitto e cercare di non farli incazzare. Facilitare il loro lavoro. questi i compiti della serata. Vediamo se ce la faccio.

Il ciccione a fianco a me piazza una gamba sulla mia e mi mette un braccio intorno alle spalle. Siamo affettuosi. In un primo scambio di effusioni mi dice di tirare fuori tutti i soldi. Allora, amico, come te lo spiego che sto più scannato di te? Che tutti quelli che me dovevano pagà fanno i vaghi? Vabbè. Caccio sti 200 pesos (euri 10). Silenzio. Tutto qua? Oh, che devo fa? questi ho. Come? Eh, così. T’ha detto male amico mio. Ok tira fuori il telefono. Quasi mi vergogno. L’ho comprato a Managua per 10 dollari, mi piacerebbe l’aifon, ma purtroppo è andata così. lo voi? E questo che cazzo è? è il telefono mio. porta rispetto, me ce so fatto un colpo di stato e un terremoto. Il ciccio lo passa a quello davanti, che si mette a ridere.

Preso per il culo dai rapinatori a Città del Messico. E dovrei essere l’europeo impaccato di soldi che va a conquistare il nuovo mondo?

Regà, sto colle pezze ar culo. Mi spiace proprio, avrei voluto venirvi incontro. Eh scusa, ci siamo sbagliati. Ti abbiamo visto con la faccia da straniero, pensavamo fossi gonfio. Eh, lo so. So straniero ma anche senza una lira.

Ok, adesso tira fuori il portafogli. Ah, mo sì! Il ciccio lo passa a quello davanti. Che ride. È vuoto, cazzo! Oh, ma che cazzo parlo al vento?

Il ciccio cerca di rassicurarmi. Se non fai cazzate ne esci bene da questa cosa. Devi stare calmo. Fai quello che ti dico io e stai zitto. Dovete imparare a obbedire voi. Ma voi chi? Ma di chi cazzo parli? di quelli che prendono il taxi? degli italiani? dei romanisti? dei trentenni?

Lo penso ma imparo a obbedire, e taccio.

Va bene allora facciamo così. Intanto ripigliati stammerda di portafogli. Grazie. E la sim. Come la sim? che fai me ridai la sim? Capace che ce stanno più soldi dentro di quanti ne fai te co sto citofono se te lo vendi a Tepito. Però taccio.

Dove stavi andando? Alla metro Coyoacan. Ah e devi vedere una ragazza? Ma che cazzo te frega? che sei il mio analista? No, un’amica. Senti, adesso se fai il bravo ti lasciamo da qualche parte. Non lontano da lì. Va bene? Ma no, me piaceva sto giro al buio in compagnia di simpaticoni come voi. Rimango.

Sono passati 15 minuti a fare giri nelle stradine di chissà dove. La macchina rallenta alle indicazioni del ciccione amico mio. Si ferma. Allora ora scendi, cammini normale. Non gridi. Non corri. Non parli con nessuno e te ne vai, se no ti veniamo dietro e ti spariamo, hai capito stronzo? Ho capito. Sicuro? Sicuro.

Sto per scendere. Ma prima l’omino davanti mi passa una cosa. Mi mette tra le mani un biglietto. Questi sono 50 pesos, dice il ciccio. Così ci torni a casa. Siamo rateros però caballeros.

Mi ha ridato i soldi. Il ladro mi ha appena zincato 200 pesos e me ne ridà 50 perché gli faccio pena. Perché non vuole che si abbia un’idea sbagliata dei ladri in Messico. Perché in fondo è un lavoro come un altro, con la sua dignità e le sue regole. Io sono basito. Mi viene da ridere, ma mi ricordo che sono minacciato di morte e quindi non è il caso di lasciarsi andare.

Scendo. Cammino. Non grido. Il suv dei ladri che ci ha seguito per tutto il tempo carica i due compari e sparisce nella notte, insieme al figlio di puttana del tassinaro.

Io vago fino a trovare la strada conosciuta. Fino al mio appuntamento. La mia amica è in ritardo e l’aspetto fumando alla fermata della metro.

Poi non venitemi a dire che questo paese non è surreale, che vi pianto una pallottola tra gli occhi.