diario da Port-au-Prince. forse comuni

E insomma prosegue la vacanza nella perla dei caraibi. Questa magnifica meta turistica che è Haiti. Non si sa più cosa inventarsi per attrarre vacanzieri e quindi hanno puntato sull’esotico necrofilo. Se non eravate soddisfatti dell’ondata di colera ci si può sbizzarrire con le visite guidate nelle fosse comuni, amene spianate in mezzo alle floride campagne haitiane, cosparse di bucolici contadini che usano l’aratro (senza buoi perché quelli costano) per coltivare quattro patate dolci e du pommidoro.

Inoltrandosi nelle soleggiate campagne haitiane, si viene raggiunti da repentine folate di morte, indizio che nei dintorni si apre una fantastica fossa comune, che oltre a ospitare vecchi cadaveri del terremoto oggi trabocca di cadaveri freschi senza nome, ammucchiati in discesa a difesa della loro celebrazione, verrebbe da dire, se non fosse più appropriato riferirsi con questa frase a carogne italiane che risiedono nel parlamento.

Dunque con la motoretta cinese si va a fare una scampagnata per vedere un po’ di bellezza naturale, visto che in città le strade sono nere di polvere, di cenere di copertoni bruciati negli scontri dei giorni scorsi. Nelle strade di Port-au-Prince ci sono state barricate, fumogeni, bastonate, incendi. Come a Roma, solo che questi c’hanno pure il colera, e con la differenza che se si ribellano e fanno le barricate l’opinione pubblica internazionale dice, beh, insomma, sono violenti però hanno ragione sono esasperati ti credo che si ribellano con lo schifo che fa la politica haitiana, con le porcherie che sono costretti a vivere sulla loro pelle, sulla loro carne martoriata.

Invece se lo fai a Roma, a Atene, a Londra, sei un facinoroso, antidemocratico, perché come dice robbertosaviano, la violenza è robba vecchia, sei out, sei un looser, sei un antico, stai delegittimandoti da solo, stai PASSANDODALLAPARTEDELTORTO. Stai passando dalla parte del torto. Questa frase si merita e si è sempre meritata un gigantesco vaffanculo. Che la dica robbertosaviano o Gianni Alemanno (che è vero, era diverso lui, perché invece di metterci la faccia andava a menare come un infame, come tutti i fascisti della sua specie) non fa molta differenza. Rimane una colossale stronzata.

Haiti è piena di black block. Forse perché sono negri e fanno le barricate.

Dunque Port-au-Prince si trasforma in un campo di battaglia, dove a gente esasperata e frustrata si riconosce il diritto di incazzarsi di fronte all’ennesima ingiustizia che subisce. E quindi uno decide di trasferirsi ad Haiti, perché, sí, ci sarà pure il colera, le strade sono una schifezza, le fogne sono a cielo aperto, c’è stato il terremoto, è pieno di negri incazzati, ma almeno non ti dicono che sei uno stronzo se rendi manifesta la tua rabbia.

Però oggi eravamo in moto, a fare scampagnate sull’isola tropicale. Che poi ti scordi facilmente che stai su un’isola. Ti scordi che c’è il mare. Come se il mare fosse troppo bello per andare d’accordo con lo schifo che dilaga ad Haiti.

Vedendo il cranio di uno sconosciuto esposto alle mosche, alle intemperie, sgusciando fuori da un sacco di plastica dove era stato avvolto per essere buttato insieme agli altri cadaveri nella fossa comune, mi viene in mente una cosa un po’ banale. In questi momenti non pensi a cose intelligenti. Pensi a cose banali.

Io penso che è disdicevole farsi vedere in questo stato. Anche se sei morto bisogna mantenere un certo contegno. Bisogna subire con dignità. Farsi gettare merda addosso va bene, anche per tutta la vita, ma non è accettabile una reazione scomposta.

“Silenzio! e arrispettate il presidente!”

diario da Port-au-Prince. internazionalismo, rivo-lu-zio-ne

Dopo una settimana a Port-au-Prince ho visto e sentito tante cose. Non me la sento ancora di buttare giù un buon diario, ma intanto voglio fissare alcune osservazioni.

Vorrei anticipare che oggi ho capito finalmente il significato profondo della parola internazionalismo. Oggi ho visto coi miei occhi cosa fanno i medici e gli operatori sanitari della Brigata medica internazionalista di Cuba.

E stride nella mia mente l’immediata comparazione che sorge naturale come un vibrione nell’acqua infetta. Comparo i medici cubani, che in mille stanno in questo paese devastato a soccorrere gli haitiani da un po’ tutte le sciagure che uno si possa immaginare, proveniendo da Cuba, che forse non tutti sanno che è un paese che non è nel G8, e che come affermano certi spagnoli è in crisi nera. I miei vicini di casa a Port-au-Prince invece lavorano in una sconosciuta ong tedesco canadese, che spende circa 10-15mila dollari al mese per mantenere un solo “cooperante” in una villa con piscina, giardino grande come un campo di calcio, guardie private, una schiera di cuoche, servi, maggiordomi, autisti, tricchettracche e bombe a mano. Loro aiutano i ciechi e gli handicappati.

Aiutano i ciechi loro. E vivono da nuovi coloni in un paese ridotto alla miseria più nera. E loro sono cooperanti. E si lamentano. E passano il tempo a spettegolare sulle altre ONG. Del resto è quello che fanno anche i cooperanti italiani, che devono spendere milioni di euro consegnati loro da milioni di italiani preoccupati per “i poveri negri colpiti dal terremoto” e in molti casi si trovano impreparati e pressoché inutili sul territorio haitiano. I soldi degli italiani, per come la vedo io, era meglio se se li mettevano al pizzo per comprare il panettone a natale.

Invece i cubani sono una macchina da guerra. Che con i soldi di questi stronzi tedesco canadesi ci manderebbero avanti un ospedale da campo in mezzo al campo. Ah, perché i cubani sono i soli, insieme agli altri “animali” di Medici Senza Frontiere, che raggiungono gli angoli più infognati e dimenticati da dio di questo paese coleroso e dimenticato da dio (chissà poi perché questo dio di Abramo ha deciso in maniera così arbitraria di accanirsi proprio su questo popolo e su questa terra non me lo so spiegare. io. non me lo so spiegare…).

Col loro zainetto, borraccia, sacco a pelo, tenda, sali e tabacchi i cubani sono pressoché inarrestabili, forti di una motivazione umanitaria e umanista che non ha pari.

Vengono educati a essere dei missionari laici dell’internazionalismo militante. E non è un modo di dire retorico. È esattamente quello che fanno. They mean it!! E bisogna vederli per capire come è commovente quello che fanno. E la cooperazione come business diventa una parodia. diventa una roba da fricchettoni o fighetti. Questi sono qui perché stanno costruendo il mondo migliore. Passano anni qua, senza tornare a casa, e senza avere un dio che li salva. È l’umanismo, il realismo, la passione politica. E ti fa commuovere davvero, circondati da cinismo e sufficienza.

Ecco. Volevo spendere due parole per Cuba e la sua idea umana e reale di rivoluzione. E so che molti storceranno il naso. Ma in finale sticazzi. Questo è il mio blog, e faccio come cazzo me pare.

¡Que viva la revolución!

diario da Città del Messico. spazio a una buona iniziativa

Un post per dare spazio all’amico e compagno Fabrizio Lorusso, che dalle pagine di Carmilla lancia una iniziativa che sottoscrivo e condivido.

http://www.carmillaonline.com/archives/2010/11/003693.html#003693

diario da Città del Messico. Colerosi

“Ad Haiti ci sta IL COLERA. ci stanno la gente che muoiono di colera!!” Questo gridano i giornali di mezzo mondo, leggendo le agenzie che vengono da quel buco del culo antillano dimenticato nel corso di questi nove mesi, in cui tutti abbiamo avuto ben altro a cui pensare. In Italia per esempio ci hanno messo due giorni in più del resto del mondo a riportare la notizia sui giornali. Erano tutti troppo impegnati a comprare i biglietti del pullman per Avetrana, per andare a vedere i “luoghi dell’orrore” della “povera Sarah S(ti)cazzi” crepata per mano di zio e cugina.

Allora mentre stavo onlain a prenotare un volo comitiva Città del Messico-Avetrana, nell’attesa del pagamento con carta di credito, ho sfogliato le pagine dei giornali e ho visto che ad Haiti si muore di colera. Dice che ci so stati tipo ducento morti. Lo dice il presidente (ah, perché ad Haiti c’hanno pure il presidente? ah non… non pensavo). Siccome il pagamento è un po’ lento (ao, c’ho pur sempre una connessione messicana) e non mi si aprono le foto di Sarah e Sabrina e Michele e Mariangela, allora vado un attimo su uichipedia a vedere che cazzo è sto colera. a un certo punto dice “Il batterio si trasmette per via oro-fecale, tramite l’ingestione di acqua o cibi contaminati da esso. I molluschi, a causa della loro azione filtrante, sono in grado di accumulare al loro interno un buon numero di vibrioni, costituendo, così, un buon mezzo d’infezione qualora siano consumati crudi o poco cotti.”

Orofecale. mi viene in mente la parodia della allora ministra Fumagalli Carulli “Simpson” in un programma della Dandini degli anni 90′. Lei spiegava che si chiamano rapporti OROGENITALI perché i rapporti con i genitori sono d’oro!

ecco. Orofecale vuol dire che mangiarsi la propria (o altrui) merda infetta è d’oro. fa bene. Poi in un ulteriore attacco di noia mi chiedo. Ma come? Ma chi è che si mangia la merda? Dai, seri, come fanno? Cioè, come? In che senso? dai, vabbè che so negri quelli a Taiti, ma che schifo, no?

Non mi riesco a capacitare che una cosa tipo sto famoso colera gli viene alla gente. Ancora oggi. Maddai, non l’avevamo debellato? Ma poi Haiti non era risolto tutto? so passati mille mesi, te pare che ancora questi rompono le palle?

Però sta cosa de colera me suona, già l’avevo sentita… non mi ricordo esattamente, ma già l’ho sentita. Soprattutto st’accoppiata negri-colera mi suona tantissimo… Mentre si carica la pagina del video girato dalla madre di Sarah mentre lo zio e il cane la stupravano e la cugina si masturbava guardandoli e brunovespa si masturbava guardando il cane vado a recuperare un vecchio post su Haiti. Questo. Un altro me all’epoca scriveva “Tra qualche giorno una dottoressa che viene dal Cile a riconoscere i cadaveri negli hotel mi dirà che la malaria e il colera si trasmettono bevendo acqua infetta con gli umori dei cadaveri lasciati per strada. Ma questo adesso ancora non lo so. E non ho ancora visto il sorriso stanco di questa donna mentre cerca di spiegarmi l’orrore. Per cui per me sono solo persone che si procurano l’acqua in questo primo pomeriggio torrido di Haiti. Sono passati poco meno di tre giorni dal terremoto e non si cammina per la strada.”

E allora va da sé che mi ricordo pure di questo. dove lo stesso stronzo di prima scriveva: “Parlando con un’amabile e bionda dottora americana della Florida che è venuta a amputare arti ad Haiti, la pratica più comune tra i suoi colleghi che si trovano davanti fratture esposte incancrenite come se piovesse e hanno a disposizione solo cartone e garza per ingessare o le seghe circolari di prima per amputare, discuto sul problema malattie, e lei sostiene che no, non c’è un vero pericolo epidemie. Certo, a meno che la gente non si metta a bere l’acqua infetta inquinata da monnezza e liquidi corporei fuoriusciti dai cadaveri. La guardo basito. Ma cosa cazzo credi che stia facendo la gente lì fuori? Ah, dice lei, magari gli haitiani lo fanno che c’entra? Ah, scusa infatti sono una minoranza gli haitiani che stanno terremotati ad Haiti. Scusa, so stronzo io!”

Ora, non è per fare il fico e dire “io l’avevo detto”, però l’avevo detto. E non solo io. Perché se l’avessi detto io non vorrebbe dire un cazzo. Il problema è che lo sapevano un po’ tutti, che si poteva prevedere, che magari invece di fare un’occupazione militare e poi scordarsi di questi poveracci si poteva fare qualcosa in più per migliorare le condizioni dell’acqua. Ah, perché dimenticavo di dire che non è che questi sono stronzi che si mangiano la loro (o altrui) merda. È che l’acqua che hanno a disposizione è infetta. È piena di merda, in senso letterale. E quindi alla lunga diventa quasi inevitabile che si piglino il colera. E se uno si legge uichipedia, essa ti dice pure che la malattia si manifesta nel 20% degli infetti. E che degli infetti il 40-50% crepa. Io mi aspetterei altri morti. Da ammucchiarsi sulle centinaia di migliaia che già ci sono stati.

Ora finalmente mi si è aperta la pagina dei fedeli di Padre Pio che insieme a un circolo di Forza Italia (so che non esiste più, ma io sono retrò) di Monza hanno organizzato 17 pullman per la “casa degli orrori” comprensivo di pranzo al sacco con Anna Maria Franzoni, quindi non ho più tempo per pensare a questi “colerosi terremotati”. Del resto diciamoci la verità. Ma a noi che cazzo ce ne frega?

Ah. Ho visto il video quello di vespa. Da paura!

diario da Port au Prince. il ritorno.

Giunge all’ultima puntata il racconto delle mirabolanti avventure haitiane dei quattro moschettieri freelance.

Mentre inviati speciali italiani di grandi testate nazionali vanno a scopare a Santo Domingo coi soldi del giornale, dichiarando al mondo di raccontare l’inferno di Haiti, i vostri reporter preferiti si smazzano per tirare su i soldi del biglietto aereo. Probabilmente abbiamo sbagliato noi. E del resto come si fa a resistere alle puttane ragazzine dominicane? Bisogna capirli questi anziani inviati speciali. È una vita dura, piena di stenti, sempre con la valigia pronta per partire nei luoghi più disgraziati della terra, è ovvio che uno cerchi il conforto e la tenerezza tra le cosce mercenarie di giovani minorenni di qualche paese sottosviluppato.

Ci tocca raccontare queste cose oltre alle vicende di un popolo dimenticato da dio. Anzi. Non è che dio l’abbia dimenticato, come sostiene un signore haitiano con cui mi faccio una chiacchierata. È che qui facciamo il vodoo, la magia nera, e allora dio è arrabbiato e ci punisce. Ma allora cristo, se lo sapete la volete piantare co sta cazzo di magia nera? Dico, che altro deve fare sto dio per dimostrarvi che vi odia?

Gli ultimi giorni è un accalcarsi di tende per l’arrivo di forze fresche delle varie agenzie ONU. Servono menti riposate per affrontare tutti quei briefing. Accorrono inviati speciali da tutto il mondo, dopo ormai una settimana dall’inizio della festa. Tutti in cerca di storie nuove, di angolature diverse, creative, che nessuno ha ancora raccontato.

È tempo di andarmene, di abbandonare la mia casa, il cartone sul pratino, e di tornare al Distrito Federal, con questo magone che comincia a salire, a prendere forma. Perché uno stando lì nel mezzo dell’azione non può permettersi di sentirsi male. C’è l’adrenalina, la tensione, le mille cose da fare, da scrivere. Si è lucidi, razionali, operativi. La merda arriva dopo. Arriva per esempio quando il Principe, ormai a casa, viene a sapere che sua zia è morta, e si rende conto che ognuna delle singole 200 mila vittime era una zia, una mamma, un figlio, per qualcuno. Ognuno di quei cadaveri scomposti e putrefatti era una persona. Ma quando sono così tanti, quando è così diffuso l’orrore non li vedi come cristiani. Li vedi quasi come pezzi del paesaggio.

Lascio questo paese con un nodo in gola. Con il desiderio di restare, per continuare a raccontare una terra senza speranza, vittima delle forze della natura, dell’ottusità di eserciti che cercano di spartirsela mettendosi addosso la bandiera degli aiuti. Non posso restare perché non me lo posso permettere. Perché non ho un giornale che mi paga le troie. Devo rientrare in Messico, scroccando il passaggio di un Cessna che fa avanti e indietro da santo domingo.

Lascio Cutie e il Principe a continuare a scattare foto. Immagini atroci e bellissime, se si può parlare di bellezza qui. La foto più inquietante è quella di una bambina, fatta dal Principe in un ospedale. Invece di essere frantumata, amputata e sofferente, la bambina piange, ma perché è appena nata. La foto di un parto, tra tutti questi morti, ha un effetto straniante. Senti che è bella, è potente, ma non puoi fare a meno di chiederti che cazzo c’entra la vita in questo posto.

E invece c’entra. Questo posto è pieno di vivi. Che forse si meriterebbero un po’ di attenzione pure loro.

Torno a casa e trovo Vittorio. il toro di cartapesta che ancora non ha capito un cazzo di come funziona il mondo. Lo metterò su un cargo per dar da mangiare a qualche haitiano.
Trovo gli amici, che mi chiedono com’è stato. Che mi dicono come si fa a adottare un haitiano. Io non riesco a non rispondere che, beh, è stato da paura, del resto il Caribe è pur sempre il Caribe, una favola.

Per quanto riguarda le adozioni. Ho deciso di adottare due bambine haitiane di vent’anni. Per solidarietà con il popolo fiero dell’isola e anche un po’ coi colleghi inviati speciali. Due piccioni con una fava.

diario da Port au Prince. occupazione (o le ali della libertà).

Dell’approccio creativo dei marines alle tragedie umanitarie si è già detto. Quello su cui vorrei tornare è l’immagine che si è data del popolo haitiano negli ultimi giorni. Gente che fa sommosse, che tira fuori i machete, che minaccia la sicurezza propria e altrui. Bestie di satana che si avventano sui poveri stranieri che cercano di aiutarli. Tanto da giustificare una presenza molto massiccia di militi prevalentemente della U.S. Army.

E dunque Haiti è occupata. Mentre le Nazioni Unite fanno briefing uno appresso all’altro, ti ritrovi soldati su mezzi blindati che girano per le strade di Port au Prince come se si trattasse di Saigon, fucili spianati e sguardo molto maschio e molto cattivo.

La gente da parte sua se li rimira come se fossero matti. Ma che cazzo andate in giro armati così?

Annosa questione. Ma ste famose sommosse popolari ci sono state? Dunque per rispondere facciamo un po’ di cucina. Prendiamo centinaia di migliaia di persone rimaste senza nulla (mi pare che il concetto, a questo punto, sia abbastanza chiaro) che stentano a trovare del cibo e dell’acqua. Aggiungiamo frustrazione e risentimento verso una comunità internazionale che non è in grado di organizzare la distribuzione dei viveri che quotidianamente atterrano all’aeroporto e rimangono stipati lì. A parte aggreghiamo i marines che come tutti sanno sono esperti di distribuzione di aiuti umanitari, che senza avvertire nessuno né coordinarsi ad esempio col World Food Programme decidono di lanciare a pioggia col paracadute a casaccio (tecnicamente a cazzo di cane) razioni k, cioè quei simpatici pacchettini con dentro sorprese alimentari, senza alcun criterio. Se io sono un capo banda armata e mi vedo piovere viveri dal cielo senza nessun controllo è ovvio che mi lancio a pesce ad arraffare, e se posso a rubare anche ai miei compatrioti. E dunque lo faccio. E minaccio gli altri di morte. E se non si tolgono dalle palle li faccio proprio fuori.

Ripetere l’operazione finché non si scatena una sommossa e servire a temperatura ambiente.

Viaggiando come i cani sulla fuoriserie di Vi non ci è capitato mai di vedere le violenze raccontate e gridate dai media di tutto il mondo. Parlando con gli operatori sul campo, con i volontari, con i gendarmi francesi, che pattugliano le strade con quei loro adorabili vestitini celesti, nessuno ha confermato l’efferatezza delle violenze. Non più di quanto ci si possa aspettare in una situazione del genere.

Ma se non c’è violenza sommossa, spargimento di sangue, come si giustificano le migliaia di soldati? Come si giustifica il colpo di mano dell’esercito?

Per capirlo io e Sciacallo cogliamo l’occasione al volo e ci facciamo invitare su un Seahawke, un elicottero della U.S. Navy, che tiene parcheggiate le portaerei al largo della città.

Dopo due ore a farsi esplodere le orecchie all’aeroporto tra elicotteri cargo militari, hercules, aerei civili della American Airlines, è il nostro turno di salire su questo attrezzo cafonissimo e molto maschio.

Il marine che si occupa del rapporto coi giornalisti è amabilissimo, sorride, fa battute. Cesare Lombroso lo avrebbe sicuramente tacciato di criminale a giudicare dai suoi tratti somatici leggermente “ottusi”, ma a noi ce fa tanto ride, che sagoma!

Dunque i due moschettieri si preparano a un pomeriggio da embedded. scattiamo foto ai robusti soldatini che davanti a telecamere, instancabili, caricano razioni k e bottigliette d’acqua sui mirabolanti seahawkes che vanno e vengono sul pratino dell’aeroporto. Ci tengono proprio a far vedere che sono indispensabili.

Arriva il nostro turno dopo un’attesa interminabile. Ci forniscono di due caschi con copriorecchie e saltiamo agilmente sui potenti mezzi dell’aviazione americana. Stipati in mezzo a decine di scatoloni di cibarie che, a quanto dicono i marines, devono servire a sfamare 10mila persone per 5 giorni. me cojoni!

si sorvolano i paesaggi haitiani per 15 minuti. Montagne semi deserte, fino ad arrivare a Jacmel, a sud di Port au Prince. Va detto che sti elicotteri dentro so tutti sgarrupati e mezzo sfonnati, non è che stiamo proprio viaggiando con la tecnologia di punta. Ma in ogni caso per dei giovani freelance italiani, temporaneamente embedded, che devono essere sedotti, fa comunque la sua porca figura.

Si atterra. Si scarica la merce. Foto ricordo. Poi risalite al volo se no vi lasciamo qua. E risaliamo… Di nuovo in volo su valli e colline. Finché non arriva l’imprevisto. Regà, scusate, dice il baldo soldato, c’è finita la benzina, tocca annà a fa rifornimento un attimo alla porteaerei. Come finita la benzina? E noi qua sopra a fa gli splendidi senza benzina? E annamo su sta portaerei, che te devo dì? Dopo il rifornimento, si riparte veloci come il fulmine verso Port au Prince. Ma prima a sorpresa sorvoliamo un quartiere che dà sul mare. E da qui su lo Sciacallo riesce a scattare delle foto di centinaia di poracci che si accalcano su cinque navi stile carrette del mare di Lampedusa. Più altre centinaia di persone ammucchiate a riva in attesa di salire a bordo. E dove cazzo vanno questi? Non mi dire che stanno cercando di scappare via mare? Ma siete pazzi? Gli americani hanno detto proprio specificamente, noi ve volemo tanto bene, aiuti, tricchettracche, cotillon, però nun dovete cacà er cazzo. Rimanete qua, no che venite tutti a Miami a fa come ve pare!

Invece quelli proprio se ne vanno. Ce provano. Perché se è vero che il presidente del Senegal ha offerto un pezzo del suo paese ai fratelli haitiani per farli tornare in Africa, gli Stati Uniti stanno lì appizzati per rimpatriarli tutti.

Finito il giro ringraziamo per la gentilezza e ci ributtiamo nel marasma, felici di aver visto all’opera i veri buoni, felici di aver provato l’ebbrezza di essere embedded, ma un po’ con la sensazione sgradevole di aver vissuto sulla nostra pelle il concetto di “media asserviti”. Mo perché noi siamo vagabondi e randagi e non ci comprano co du noccioline, e quindi racconteremo per bene che porcate fanno gli americani da ste parti, però sono certo che altri si sono fatti fregare co du gomme da masticare e no specchietto.

Haiti di notte direi che è buia e di bello c’è che si vede un oceano di stelle sulla testa. Sdraiato su un cartone sul prato della base ONU, cena scroccata, con una copertina aspetto che arrivi il sonno. Qua non si sogna.

diario da Port au Prince. acqua.

Mi piacerebbe ora soffermarmi sul concetto di acqua. mi pare uno dei temi centrali della situazione. Innanzi tutto va detto che apprezzo il modo dei centomilioni di marines, atterrati tra un hercules e l’altro all’aeroporto occupato militarmente di Port au Prince, di affrontare la questione. La gente ha bisogno di damangiare e dabere e te arrivi coi carrarmati e i fucili da guerra. Un po’ come se a uno che c’ha la dissenteria, per dargli una mano, gli dai una sega a nastro. che cazzo ce fa non si sa, però è una risposta creativa, questo tocca ammetterlo. Lungi da me voler fare polemica coi “corpi di peacekeeping” che sono i buoni e vengono a portare la pace. Lo dice la parola stessa. L’unica cosa è che mi sa che non si so accorti, nella loro immensa solidarietà, che ad Haiti non ci sta la guerra, ma una tragedia umanitaria, ma ovviamente non è nemmeno il caso di spaccare il capello in quattro.

Tornando all’acqua, diciamo che già di per sé qua in Haiti non è che abbondasse l’acqua potabile pulita, dato che è pratica abbastanza comune, sciocchi selvaggi, direte voi, bere un liquido grigiastro di dubbia provenienza, che non definirei proprio potabile a una prima occhiata.

Ecco, ora con quei 40 gradi belli umidi e un terremoto sul groppone che ti ha sbragato via tutto si pone abbastanza imperativo il problema di dove cazzo andare a prendere l’acqua.

Mi pongo la questione sorseggiando acqua potabile dei lavandini del centro operativo dell’ONU, che cià pure le docce, circondato da funzionari di tutte le possibili agenzie dell’ONU che bevono il tè e fanno importantissimi briefing su come fare la distribuzione, mentre intanto i giaigió americani gli scippano l’aeroporto e fanno sbarcare miliardi di militi per dare aiuti umanitari ai disgraziati.

Dopo sei briefing viene fuori che la gente ha bisogno di acqua. è proprio un fatto accertato. Tocca fare qualcosa. Ora si prepara un briefing per capire come affrontare l’emergenza. Ieri avevamo incrociato un’autobotte anarchica che è partita nottetempo da Santo Domingo. Oh, noi non abbiamo chiesto il permesso a nessuno, dice il trasportatore, siamo partiti perché qua se morono de sete, poi se quelli dell’ONU ce dicono qualcosa sticazzi, intanto j’amo portato l’acqua, o sbaglio?

Nono non sbagli per niente. Noi moschettieri con la nostra razione d’acqua da mezzo litro in borsa ci aggiriamo come cani per le strade affollate e imbattendoci nell’autobotte ci rendiamo conto che tra qualche giorno, se gli aiuti non si sbrigano, sarà una tragedia. Tanto per cambiare.

Parlando con un’amabile e bionda dottora americana della Florida che è venuta a amputare arti ad Haiti, la pratica più comune tra i suoi colleghi che si trovano davanti fratture esposte incancrenite come se piovesse e hanno a disposizione solo cartone e garza per ingessare o le seghe circolari di prima per amputare, discuto sul problema malattie, e lei sostiene che no, non c’è un vero pericolo epidemie. Certo, a meno che la gente non si metta a bere l’acqua infetta inquinata da monnezza e liquidi corporei fuoriusciti dai cadaveri. La guardo basito. Ma cosa cazzo credi che stia facendo la gente lì fuori? Ah, dice lei, magari gli haitiani lo fanno che c’entra? Ah, scusa infatti sono una minoranza gli haitiani che stanno terremotati ad Haiti. Scusa, so stronzo io!

Proseguiamo il nostro giro turistico accompagnati dall’instancabile Vi, che guida come un forsennato suonando il clacson e dicendo cose incomprensibili. Di ritorno alla base a casa di Fiammetta  ci fermiamo a salutare la numerosa famiglia di Vi, che sta accampata al buio pesto della sera su dei materassi fuori di casa, che non è venuta giù. Loro cantano stasera. E Roberto, un parente di Vi che ha vissuto a Santo Domingo e parla spagnolo, ci invita a cantare con loro. Tira fuori una chitarra e una tastiera a batteria coi tasti che si illuminano quando li suoni. Si esibisce nei pezzi che ha scritto. Inni pop a dio e a gesù, contro satana. Ha una bella voce e ricorda un po’ un Ben Harper haitiano. Noi cantiamo insieme a lui e alla sua famiglia.

Ci viene chiesto di suonare pure noi qualcosa per loro. Sguardo fuori campo. L’unico che sa suonare è il Principe, uomo pieno di risorse. Quindi je partimo col repertorio classico dell’italiano all’estero: Battisti, De Gregori, Paolo Conte e Rino Gaetano. Io e il Cuttica ci esibiamo come duo vocale degno di Amici di mariadefilippi. Unica pecca i testi delle canzoni, mai completi, quindi daje de nananananana, ma gli haitiani sembrano non accorgersene e apprezzano lo sforzo.

La notte torna a calare sulle calde giornate haitiane e noi ci buttiamo di nuovo sul pavimento duro ma antisisma del giardino di Fiammetta. Sognamo fiumi in piena e haitiani che fanno briefing su come salvare l’anima del personale ONU e dei marines.