Sparatoria a Palazzo Chigi: le responsabilità degli invertebrati

Governo+Letta+giuramento+-+NonleggerloUn uomo disperato. Non un “pazzo”, come si affrettano a definirlo, denigrandolo, i giornali asserviti. Un uomo disperato come tanti italiani, che non sanno più cosa fare, all’interno delle regole e delle leggi democratiche, per manifestare la disperazione e l’impotenza e la frustrazione di fronte a una classe dirigente sprezzante delle necessità e delle istanze di milioni di cittadini esasperati.

Un uomo disperato come tanti, che si dirige verso il palazzo del potere, con una pistola in mano, cercando di arrivare a qualcuno di quei “politici”, di quegli uomini responsabili, secondo lui e secondo molti milioni di italiani, della rovina di questo Paese.

Prendo a prestito il lucido ragionamento dell’amico Fausto. Il concetto è semplice: l’assunzione di responsabilità e l’assunzione del rischio derivante dalle proprie azioni, dal proprio lavoro, dalla propria impresa.

Qui c’è un uomo che decide, assumendosi le proprie responsabilità e un grande rischio di andare a sparare ai componenti di quello Stato che secondo lui sono alla portata della sua mano armata. Ricorda il personaggio del concept album di Fabrizio De Andrè, “Storia di un impiegato”. Si arma e va a sparare “ai politici”. Sa che è un reato. Si assume la responsabilità di farlo. Come il personaggio del disco di De Andrè, non riesce nel suo intento, ma invece di far esplodere un chiosco di giornali ferisce due carabinieri,  parte inconsapevole e non responsabile di quello Stato che toglie tutti i giorni da decenni ai comuni cittadini tutto quello che è necessario per vivere dignitosamente.

Quest’uomo ha voluto colpire lo Stato e le istituzioni in una giornata particolarmente carica di significato. I carabinieri feriti non sono vittime sacrificali né eroi. Anche loro, scegliendo il loro mestiere hanno messo in conto la possibilità di prendersi una pallottola per difendere lo Stato, hanno deciso di assumersi il rischio del proprio lavoro, a difesa di uno Stato che ultimamente è drammaticamente contro i cittadini. In una sordità da parte di chi quei palazzi li abita, che non somiglia all’inconsapevolezza, ma piuttosto all’arroganza, all’incoscienza.

Come un qualunque cittadino  che si assume tutti i giorni il rischio delle proprie azioni quotidiane, del proprio ruolo, quest’uomo ha deciso.  
Gli unici che continuano a non assumersi le loro responsabilità sono quegli invertebrati, quelle “donne” e quegli “uomini” che siedono all’interno di quei palazzi così irraggiungibili e distanti dai cittadini e che non rispondono mai delle loro azioni. Ora dovranno aumentare le scorte, l’unica reazione a questo segnale, “ammucchiati in discesa, a difesa della loro celebrazione”.

Sono solo loro i veri responsabili di tanta disperazione e forse, prima o poi, pagheranno anche loro per le loro azioni. Forse un giorno anche loro decideranno di assumersi le proprie responsabilità di fronte ai cittadini che dovrebbero rappresentare. Sono loro che hanno sulla coscienza (se hanno una coscienza) le vite e le ferite dei due carabinieri colpiti. Che difendevano questi invertebrati.

Il gesto violento di un uomo disperato non è giustificato. Lui è il primo che si è assunto le responsabilità dei suoi atti. E pagherà. E sa che pagherà.

Invece i suoi obiettivi si arroccano, si difendono, e sfuggono, come sempre, le loro responsabilità.

De Andrè cantava così:

“Imputato ascolta,

noi ti abbiamo ascoltato.
Tu non sapevi di avere una coscienza al fosforo
piantata tra l’aorta e l’intenzione,
noi ti abbiamo osservato
dal primo battere del cuore
fino ai ritmi più brevi
dell’ultima emozione
quando uccidevi,
favorendo il potere
i soci vitalizi del potere
ammucchiati in discesa
a difesa
della loro celebrazione.

E se tu la credevi vendetta
il fosforo di guardia
segnalava la tua urgenza di potere
mentre ti emozionavi nel ruolo più eccitante della legge
quello che non protegge
la parte del boia.

Imputato,
il dito più lungo della tua mano
è il medio
quello della mia
è l’indice,
eppure anche tu hai giudicato.

Hai assolto e hai condannato
al di sopra di me,
ma al di sopra di me,
per quello che hai fatto,
per come lo hai rinnovato
il potere ti è grato.

Ascolta
una volta un giudice come me
giudicò chi gli aveva dettato la legge:
prima cambiarono il giudice
e subito dopo
la legge.

Oggi, un giudice come me,
lo chiede al potere se può giudicare.
Tu sei il potere.
Vuoi essere giudicato?
Vuoi essere assolto o condannato?”

diario da Città del Messico. di nuovo in sella alla Bestia [parte due]

Dov’eravamo rimasti? Ah, che stavamo cavalcando la Bestia insieme a quel gruppo di centroamericani che hanno deciso di andare a essere felici negli USA. Nel frattempo però dall’ultimo post è successa una cosa che mi piacerebbe proprio raccontare. Una di quelle cose raccapriccianti che ormai il Messico ci ha abituato a sentire e a considerare normali. E giusto per aggiungere un pizzico di hardcore (come se ve ne fosse necessità) alla già cruenta storia che stiamo raccontando.
Insomma il fatto è che l’altro giorno apro il giornale e leggo che sono state fatte fuori nove persone ad Acapulco. E fin qui nulla di nuovo. La gag è che di queste nove persone, in particolare uno ha avuto la sorte dalla sua. Lo hanno preso e lo hanno fatto a pezzi. Con il busto e la testa hanno decorato una narcomanta, cioè quello che da noi si chiama uno striscione. Un’altra narcomanta è stata stesa con le gambe e i piedi, mentre una terza veniva accompagnata da braccia e mani. Ognuna posizionata in una zona diversa della Perla del Pacifico, a deliziare il soggiorno di bagnanti e vacanzieri.
L’effetto voluto, pienamente raggiunto dagli autori dell’opera d’arte, era quello di attirare l’attenzione sui messaggi che portavano su di sé i macabri striscioni, e recitava più o meno così: Governatore dello stato di Guerrero, funzionari e sbirri, fatela finita di pigliare soldi dal Cartel Independiente de Acapulco, perché questa è la piazza del Chapo Guzmán. Qui comanda lui. Ecco come finisce chi non ubbidisce.
Ora. Noi abbiamo una storia di un viaggio, di peripezie, di avventure, da raccontare su queste pagine, e non è bene distrarsi troppo, però ho creduto opportuno accennare a questo evento, per dare una pennellata di com’è l’aria da queste parti, per far respirare quest’arietta di mare, friccicarella, perché concentrati sempre sull’italico ombelico, su nani e buffoni, si perde la visione d’insieme.

Ma torniamo di gran carriera sulla Bestia,  che mica ci aspetta a noi e alle nostre cazzate sulla gente squartata, la Bestia. Qua uno ci si squaja al sole anche per ore, ma se ha da partì e te sei sceso un attimo a comprarti una birra o una coca cola, ti attacchi al cazzo. Come è successo a quello che veniva dall’Honduras, che era simpatico, anche se era migrante, e che faceva alla perfezione il verso del cane, cioè abbaiava, e insomma tutti gli dicevano “il cane” e lui scendeva ogni volta che il treno faceva una pisciata, e la faceva pure lui. Ma in una di queste, è rimasto a terra, e noi a ripartire fischiando e sbuffando, e lui abbaiando da sotto. Da solo.

Dunque accomodati sulla cima, ci si fa beffe del caldo orrido che attanaglia la gola. Respirare aria calda di fòn, per ore. La pelle fracica di sudore appiccicosa di grumi di polvere e zella. E stare attenti ai rami. Ecco. I rami. Uno pensa che è il meno, perché a fronte di una possibile aggressione a mano armata (di pistola, di fucile, di machete) un ramo che sarà mai? Purtroppo i rami sono MILIONI, sono solo rami rami rami rami e ancora rami, che sfrecciano contro la tua faccia, le tue spalle, le tue gambe, in qualunque modo tu ti sia accomodato loro ti raggiungono e ti sferzano, ti bastonano, ti sconocchiano. A volte, se sei molto fortunato, ti buttano giù dal treno. Mentre dormi, schiacciato come meglio puoi sulla lamiera, tra corpi sudati, puzzolenti, ammucchiati e doloranti, ti arriva una bastonata in faccia a 40 all’ora. Ti svegli di soprassalto, e se non stai attento te ne arriva un’altra, già pronta a colpire. Questo dura giorni.

Il tempo lo percepisci in modo confuso da qui su. Le ore passano rapide e lente, calde e umide, bagnate, infinite. Dipende dal treno. Il tuo sentire si fa treno. In base a ciò che fa, decide, sente lui, tu percepisci il mondo. Non hai autonomia. E lo senti quando all’improvviso, senza una ragione che tu possa conoscere che non sia il puro arbitrio, il treno rallenta, in mezzo alla sterminata e florida vegetazione, stridono i freni, il caldo aumenta, le zanzare ti assalgono, e ti fermi. Il ritmo lento del pulsare del motore, lo sbuffo di fumo, il fischio pesante dell’arresto della Bestia. E rimani lì. Sospeso. Fuori dal tempo e dalla ragione. In attesa di ciò che segue. Ed è lì che sale piano piano la paura, che prende vigore, che si fa solida. È in questa attesa senza tempo che il panico si fa strada nella tranquillità posticcia che pensavi di aver costruito nelle ore di viaggio, che si apre una breccia nel tuo petto e ti invade come l’acqua nei campi irrigati.

Può succedere di tutto. Il meglio che può capitare è che dopo qualche minuto o qualche ora, la Bestia ricominci pigramente a camminare. Ma questa è una speranza su cui non puoi contare. Potrebbe essersi fermato per far salire qualcuno, perché un albero è caduto sui binari, perché un altro treno deve passare, o di permettere alla polizia federale di fare un’operazione illegale, di rubare tutti i soldi ai migranti. O peggio potrebbe essere che gli Zetas abbiano fermato il treno e che ora stiano per salire, fucili spianati, per sequestrare i migranti.

È questa incertezza che ti ammazza. E il sole ti squaglia il cervello e ti mischia le idee, la percezione, e ti sbatte nel mondo della paura.

Fin qui arriva questa parte del racconto. Perché è faticoso e doloroso.

[つづく…]

diario da Città del Messico. benvenuti a sti frocioni

– Pronto buongiorno, chiamo dal Messico, dovrei fare l’esame all’ordine, mi hanno detto luglio, vorrei sapere una data precisa, devo fare il biglietto apposta.

– Ah però no, guardi una data precisa nun glie la posso dare.

– Come? Non ho capito. Scusi, ho fatto domanda sei mesi fa, è l’8 giugno.

– Eh, vabbè però noi gli esami li facciamo settimanalmente. A seconda degli impegni del presidente.

– Non ha capito, io devo comprare il biglietto dell’aereo apposta. Sono 10mila chilometri.

– Ho capito. Senta guardi lei faccia ‘na cosa. Fa sto bijetto, ariva a Roma e quanno ariva a Roma me fa na telefonata e vediamo si se po’ fissà st’appuntamento.

– Che però non è sicuro.

– Ennò. Si magari viene a settembre capace che è più facile. Dica un po’ come se chiama?

– Eulalio. Eulalio Caroddi.

– Eh Eulalio. Bravo. Sta qua.

– Lo so…

– SìSì. Ha fatto domanda a febbraio. È venuto su padre a portare tutti i documenti. Me ricordo. Ecco Guarda Eulà, fai ‘na cosa. Te vieni a Roma, tanto ce dovrai passà ogni tanto da Roma no? Ecco te quando arivi fai ‘na telefonta e vedemo si se po’ fa o no l’esame.

 

Dov’è che volevamo annà noi? dice il futuro dell’Italia… ecco.

Radical Shock. Una storia sinistra. Titoli di coda

Titoli di coda.

È il momento di pensare in termini quantitativi e di chiedere “la giusta mercede” per il ruolo che ricoprite. Gli avversari in agguato non riusciranno a organizzare una reazione: avete la fiducia dei superiori, l’amore degli amici e l’intimo convincimento. PROMOSSI.

Giorgio.
Circondato da diciannovenni vogliose e dalle tette inusitate continua a combattere con i suoi vicini filippini per il controllo del territorio. Le donne amano il suo cinismo, il suo odio nei loro confronti e i suoi tatuaggi. Continuano a dirgli che è un pischello perché ha solo ventisette anni.
Ha pubblicato un reportage su Scientology che gli è valso grandi lodi e riconoscimenti da parte di molti intellettuali di sinistra.
Non ha ancora un contratto a Mondo Oggi. Tifa Roma.
PISCHELLO.

Ginevra.
Va a cavallo. Fa serie televisive di successo. Qualche film. Ama le feste, il rumore, i giochi. Parla del suo cavallo, dei suoi sogni da adolescente trentenne. Piange ancora quando si parla di suo padre e non ha mai risposto alla lettera di Samuele. Forse non l’ha mai letta. Ancora nessuno è risultato abbastanza uomo. Né abbastanza pitbull.
CONTENTA LEI…

Serapio.
Scrive su la Jornada feroci articoli contro il presidente, continua a frequentare i peggiori locali di Città del Messico, litigando con gli uomini e facendo la corte alle donne. Le ama tutte. Scrive un romanzo da diciotto anni. È un capolavoro.
INNAMORATO.

Antonella.
Si è trasferita in Thailandia, dove insegna all’università di Bangkok. Tiene corsi di antropologia visuale attraverso l’autorappresentazione. Continua a fare il grillo parlante. Ora però ha una bimba che si chiama in tailandese e il suo nome vuol dire Luce.
FELICE.

Veronica.
Ha aperto una scuola di danze etniche e cura un programma televisivo. Continua ad avere una pazienza infinita e un corpo da urlo. Sorride spesso.
BUDDICA.

Paolo.
È diventato un tassello importante dell’organizzazione. Si è sposato. Ha abbandonato molti dei suoi ideali. Ha più soldi di prima. Uno è quando non pensa.
SOLDATINO.

Akira.
Esercita la professione di architetto con discreto successo. Si cura con i fiori di Bach e sogna di arredare una catena di ristoranti giapponesi in Messico.
RASSERENATO.

Massimiliano.
Ha inciso il suo secondo disco. Ogni giorno aumenta il suo successo. Anche grazie ad alcuni film a cui ha preso parte. Fa ancora un’ottima pasta coi broccoletti romani.
POETA.

Margherita.
È riuscita a diventare regista. Pensa, scrive e realizza spot pubblicitari per una tv satellitare. Non si è ancora mai fatta pisciare addosso da nessuno. Non ha mai scopato con Samuele.
ROSCIA.

Filippo Rossi.
In quanto uno dei migliori autori satirici in Italia è stato scelto per guidare youdem.tv. Ha rifiutato. Vende castagne insieme agli indiani a piazza Navona.
GENIO.

Fernando.
Ha ampliato la sua attività. Indossa solo abiti e scarpe italiani. Forse entrerà in politica, appena riuscirà a mettersi d’accordo coi narcotrafficanti. Vuole diventare presidente.
DETERMINATO.

Tintan.
Da qualche mese non se ne hanno più notizie. Né di lui, né del suo suv.
DESAPARECIDO.

Groucho.
È stato avvistato dalle parti del Bosque di Chapultepec. Con un freesbie in bocca.
CANE.

Giancarlo.
Dopo che hanno abbattuto il ponte in cui aveva occupato una casa è emigrato con la famiglia in Australia. Lì fa il postino. Ha un giardino.
EMIGRATO.

Sottopanza. (A due a due come i carabinieri).
Hanno scalato rapidamente le tappe verso il successo nel partito. Ora guidano una corrente di giòvani. Hanno cravatte di seta e completi su misura. Continuano a molestare le donne ma con epiteti più grevi. Vanno a trans sulla Cristoforo Colombo.
DEGENERATI.

Xavier.
Ha venduto metà de Los Arrecifes per dieci milioni di dollari. Beve, fuma e abborda donne meravigliose nell’altra metà. Indossa sempre occhiali da sole. Ogni mattina nuota per mezz’ora nel mar dei Caraibi.
CHI LO AMMAZZA.

Silvia.
Continua a vivere a Città del Messico. Nessuno sa molto di lei. È taciturna, sexy e la sua casa è sempre aperta per Samuele. Importa scarpe di lusso dall’Italia.
SURREALE.

Luchadores. (aka i fratelli Cabrera).
Partecipano a lotte amatoriali per bambini il sabato pomeriggio all’Ajusco. Nessuno li ha mai visti in faccia.
MASCHERATI.

Shirin.
Fa composizioni floreali dalla mattina alla sera. Non ha più fatto ammucchiate. Crea felicità attraverso i fiori. Ha capito che la differenza è nei dettagli. Nel suo lavoro è più evidente perché non “serve” a nulla. Crea solo bellezza.
LEGGIADRA.

Pagliaccio.
Porta allegria nel cuore della gente del Messico e del mondo attraverso il cuore rosso che porta sul naso.
ALLEGRO.

Vittorio.
Esso fissa il vuoto e tace.
TORO.

Lauréda.
Ha trovato lavoro all’Alliance Francaise come insegnante di francese. Nella sede di La Paz, Baja California Sur. Ama il canto delle balene.
Notalo.
Radical Shock è un’opera di finzione, quindi ogni riferimento a fatti, persone, cose, animali, situazioni, è esclusivamente frutto della fantasia malata dell’autore.
Se qualcuno avesse riscontrato qualche somiglianza con la realtà è puramente casuale.
Per la realizzazione di questo romanzo non è stato maltrattato alcun cane né alcun toro di cartapesta.

Radical Shock. Una storia sinistra. Capitolo undici. Sarà il canto delle balene

Undici. Sarà il canto delle balene.

L’incertezza tra l’adesione e la ribellione può provocare l’impasse e aprire una crisi esistenziale. Per evitarla, adottate due regole d’oro: concedetevi il tempo dell’attesa e “fissate” le nuove strategie d’attacco. Amore in gestazione. STRATEGICI.

«Ti meriteresti di rimanere qua a crepare in mezzo al tuo piscio.»
La voce viene da dietro. La conosco. Sono stordito e assetato. E impaurito e vaffanculo chiunque tu sia fatti vedere!
Entra in campo un vestito gessato. Entra in campo un paio di scarpe italiane. Entra in campo una testa di capelli ingelatinati e un viso con una lunga cicatrice.
Entra in campo Fernando.
«Shei shtato tu a faghmi queshto?»
«Vedi che sei un idiota?» Non ho ben chiaro a cosa faccia riferimento. «Non sono io il cattivo, italiano. Io sono quello che ti salva il culo.»
Silenzio. Proprio non capisco. Come fa Fernando a essere qui ora? E se non è stato lui chi è stato a ridurmi così?
Io continuo a essere legato alla sedia, pieno di sangue, vomito e orina. Tumefatto, assetato e spaventato a morte.
E Fernando non si muove. Rimane in piedi. Elegantissimo. Serio. Mi guarda.
«Ti avevo detto di non immischiarti in certe cose. Di fare attenzione. Di non fare troppe domande. Invece hai voluto fare di testa tua. Chi pensavi di essere? Batman?»
«Volevo faghe il mio lavogho… Shcusha non è che mi potreshti shlegaghe?»
Non riesco a parlare bene. Ho una pigna in bocca.
Fernando si avvicina piano. Attento a non sporcarsi il vestito. Tira fuori dalla tasca un coltello. Ha il manico di avorio. Mentre taglia la corda mi spiega.
«Mi dispiace Samuele, ma non hai proprio capito niente. Davvero non sai chi ti ha ridotto così?»
Faccio segno di no con la testa. Mi fa male anche il collo. balene

«E non ti chiedi come ho fatto a trovarti? Qua sperduto nel buco del culo di Ciudad Neza?»
Sono a Ciudad Nezahualcoyotl. Dove sono venuto a vedere la pelea de perros.
Faccio di nuovo no con la testa.
Si dice diniego.
Faccio un segno di diniego.
Libero le mani e i piedi dalla morsa delle corde che mi hanno scavato la carne per tutte queste ore. Mi massaggio i polsi e le caviglie. Ci sono croste di sangue rappreso un po’ dappertutto, ma sono integro. La mia gola arde.
«Era un po’ di tempo che il mio caro e fidato Tintan aveva degli affari paralleli. Per un po’ li ho tollerati. Ma qui si parla di omicidi su commissione. Di rapporti con le famiglie del narco. Ho provato ad avvertirti, ma tu ti sei cacciato proprio tra le sue braccia.»
Io muoio di sete.
L’espressione di Fernando è calma. Non manifesta emozioni particolari mentre mi spiega come il suo uomo più fidato lo ha tradito.
«Ti ho fatto seguire dopo che sei venuto a Tepito. Senza che Tintan lo sapesse. Ti ho messo sotto sorveglianza speciale. Quello che mi manca è il motivo per cui Tintan ti ha fatto fare questo dai tre fratelli Cabrera. Cosa hai fatto?»
I tre fratelli Cabrera. Che cazzo di nome è? Tre energumeni mascherati si chiamano “i tre fratelli Cabrera.” Un film messicano anni settanta, tipo El Santo contra los cazadores de cabezas.
Capolavoro del 1971. Che squallore.
Un nuovo segno di diniego da parte mia.
Fernando mi guarda paziente e annuisce.
Il dolore inizia dalla punta della testa e ricopre in maniera quasi uniforme tutta la superficie del mio corpo. Dove non sono stato picchiato ho degli stiramenti autoindotti. Dove non ho lividi ho escoriazioni o ferite o graffi o fratture. Credo che mi abbiano rotto una costola. E il naso. E uno zigomo mi fa lacrimare in continuazione.
Ma sono vivo. Respiro.
Fernando finalmente mi aiuta a tirarmi in piedi.
Entra un ometto piccolo e magro. La faccia da tagliagole. È in silenzio. Mi prende un braccio e mi sostiene. Sarà alto meno di un metro e sessanta ma ha una forza incredibile che si trasmette nei muscoli tesi e tonici.
Vengo portato fuori. L’aria è fresca. Ha piovuto da poco. L’ometto mi guida a una Mercedes Classe C nera coi vetri oscurati. Ovviamente. Mi apre lo sportello posteriore. Entro. Sale anche Fernando dietro. L’ometto si posiziona nel posto del navigatore. Alla guida uno degli scimmioni di Fernando.
In macchina bevo da una bottiglietta di acqua Electropura. La finisco in quattro secondi. Ho ancora sete e in pancia un gracidare di rane. E crampi.
Attraversiamo la città a velocità molto sostenuta. La pelle dei rivestimenti della Mercedes ha un buon odore.
«Ho visto qualcosa. Che non dovevo vedere. Credo.»
«Questo lo avevo intuito. Cosa hai visto esattamente?»
Non so se posso fidarmi di lui. Potrebbe benissimo essere una ennesima inculata. Ma ho bisogno di credere in qualcuno. Ho bisogno di una guida. Ho bisogno di affidarmi a qualcuno che prenda le decisioni al posto mio.
Fernando non mi fa più paura. O me ne fa meno.
«Ho visto un ragazzo. Della mia età. Con un tatuaggio sul braccio.» Fernando è in ascolto. «Il tatuaggio era il simbolo della Vera Via. E aveva un sacco nero in mano. Alla lotta dei cani. E dentro il sacco c’era una testa umana. E la faceva vedere a qualcuno. Non riuscivo a vedere a chi la mostrava.»
Silenzio.
«Speravo che non si fossero accorti di me.» Dico piano.
Fernando mi guarda pensieroso. E tace.
«Tintan da qualche tempo è in affari, in proprio, con i vertici del PEM. Facilita il loro ingresso e sviluppo nel mercato messicano. Trova spazi, finanziatori, elimina concorrenti e a volte si occupa del lavoro sporco. Lo fa utilizzando alcuni adepti. I più problematici. I più facili da controllare. I più fanatici. È il suo piccolo esercito di disadattati.»
Il ragazzo tatuato uguale a me. Sei parecchio problematico se vai in giro con una testa umana in un sacco.
Fisso Fernando negli occhi mentre fuori dal finestrino scorre la città con la sua vita.
Io penso. Penso. E piango. Senza poter fare nulla per impedirlo. Vorrei non piangere davanti a Fernando. Non posso.
È stato un avvertimento. Tintan non mi ha voluto ammazzare. Solo spaventare.
Passiamo per il Periferico.
Passiamo per il Viaducto.
Passiamo per la Colonia del Valle.
Fernando mi porta a casa.
Nella casa di Silvia alla Condesa.
«Riprenditi. E quando ti sei ripreso vienimi a trovare a Tepito.»
Annuisco. Scendo dalla macchina, che riparte. Citofono. Silvia mi apre. Entro nel palazzo. Mi chiudo il portone alle spalle e respiro.

***

Ho raccolto abbastanza materiale per un bell’articolo per Mondo Oggi. Sono ancora stordito, ma di roba da scrivere ce n’è.
Apro la posta elettronica dopo troppi giorni.
44 messaggi.
Antonella che mi comunica che aspetta un bambino e che ha deciso di emigrare anche lei. Con tutto il pupo in pancia. Pensa di andare in Tailandia.
Una mail di Giorgio. Giorgio non mi scrive mai le mail.
Giorgio mi comunica che ha fatto il possibile per mantenere aperto il canale con la redazione. Ma lo hanno mandato affanculo scocciati.
Cazzo. Non conti un cazzo, no, amico mio. Grazie lo stesso.
Il mio pezzo ora non serve a nessuno. L’unico buon contatto me lo sono bruciato.
Giorgio è rammaricato. Lo so, fratello.
Io pure. E non ho un cazzo di lavoro e ho finito i miei pochi risparmi.
Mi chiama Silvia.
«Hai saputo la notizia del giorno?»
«Cosa? che non mi pubblicheranno mai o che sono rimasto senza un soldo?»
«No. Questa non è la notizia del giorno. E non è nemmeno una notizia. Invece la news è che è morto Michael Jackson! Davvero non lo sapevi? Sei l’unico, Samuele.»
«Vuoi dire Michael Jackson il pedofilo? Michael Jackson l’ex negro che è diventato bianco? Quello che si è rifatto cento volte il naso? Quello che costruisce parchi di divertimento perché è un miliardario genero di Elvis con la sindrome di Peter Pan che molesta ragazzini e li fa giocare con il suo pisello? Quel Michael Jackson?»
«Dai sei di cattivo gusto.»
«Quello che è passato dal funk al pop? Quello che insieme a quella stronza di Madonna ha dettato legge durante gli anni ottanta, il periodo più buio degli ultimi secoli? Di che è morto?»
«Di infarto.»
«È crepato a 50 anni di infarto lasciando 500 milioni di dollari di debiti, leggo ora su repubblica onlain. E, credimi Silvia, penso che ci siano poche cose al mondo che mi possano fregare di meno. Comunque grazie per l’informazione. Ora che ci penso la prima musicassetta che ho avuto è stata Bad. È commovente.»
«Sei proprio un cazzone, Samuele. Ma che c’hai oggi? Vabbè, quando hai finito di fare lo stronzo fatti sentire.»

Le ferite non mi fanno più tanto male. Sono passate due settimane da quando il boss di Tepito è venuto a liberarmi sul suo cavallo bianco. Sulla sua Mercedes nera.
Per farmi riprendere Silvia mi porta al mare a Tulum.
Due settimane di mare.
Tulum è un posto bellissimo. Dicono che fino a un po’ di anni fa era ancora più bello.
È sulla costa caraibica del Messico, a due ore da Cancun. Verso sud. La famosa riviera maya.
Una costa di sabbia bianca, corallina. Mare turchese. Palme, cabañas sul mare. Il paradiso da cartolina.
Faccio il bagno nel cenote, con la maschera e le pinne.
A Tulum siamo alle cabañas Los Arrecifes. Sono gestite da un amico di Serapio, Xavier.
Xavier è un uomo sulla cinquantina. Indossa sempre occhiali da sole. Ha sempre in mano un bicchiere pieno di vino rosso, ghiaccio e succo di ananas. Nell’altra mano un purino di mota.
Lui mi ha consigliato i bagni nel cenote.
«Il cenote è dove i maya facevano il bagno. Sono dei grossi buchi molto profondi pieni di acqua dolce. Tutta la zona è piena. In mezzo alla selva ti ritrovi questi mini laghi profondissimi di acqua dolce. È un’acqua rigenerante. Purificatrice. Vedrai che ti sentirai meglio.»
E infatti sto tutti i giorni lì. A mollo. Silvia si è portata da leggere perché lei sta perennemente a fare il carpaccio umano sotto il sole.
Si prende cura di me.
La sera Xavier mi fa assaggiare tutte le prelibatezze del luogo. Avocado delle Barbados, ceviche di lumache di mare giganti, tartaruga.
«Ma non è illegale?»
«Sì, ma senti quanto è buona. Questa è solo per gli amici.»
La tartaruga è uno dei cibi più deliziosi che abbia mai mangiato.
Xavier mi racconta che Tulum era un vero paradiso. In uno stato, Quintana Roo, che fino a poco tempo fa non aveva vere e proprie istituzioni. Era un po’ il far west del Messico.
Ora tutta la costa se la sono comprata le multinazionali.
«Ci siamo venduti tutto il paese. Poi facciamo le vittime. Tutto quello che di buono avevamo lo abbiamo svenduto o regalato.»
Il principale acquirente è la compagnia multinazionale Barceló. E hanno costruito enormi resort sul mare. Uno dopo l’altro.
Ci sono più campi da golf qui che in tutta la penisola dello Yucatán.
E adesso ne costruiscono altri. E riempiono di cemento centinaia di cenotes. Per fare campi da golf. Abbattono la selva. Riempiono le “buche” di cemento. E fanno campi da golf. Lasciando crescere i margini della selva affinché da fuori non si veda nulla.
Decine di ettari quadrati.
Accendo il purino di mota. Qui cresce endemica. Mi lascio dondolare sull’amaca e i miei pensieri mariguani viaggiano su appezzamenti infiniti di campi da golf, su cui crescono mazze come alberi da cui pendono palline come frutti. E i laghetti sono cenotes. E nei cenotes molti alligatori che azzannano gringos e europei in vacanza nei resort Riviera Maya®.
Un’iguana passeggia serena sotto di me. E mangia zanzare. Brava.
Dopo due settimane a Tulum vuoi uccidere qualcuno dalla noia o scappare il più velocemente possibile.
Con tutta l’erba che mi sono fumato e la birra che ho bevuto sono riuscito a stordirmi e a distrarmi dalla noia. Ma porcaputtana che palle!
Torno nella pancia del Monstruo. Benché non abbia niente a cui tornare.
Io e Silvia.
Due italiani, amici da una vita emigrati in Messico. Silvia mi fa «Ma l’avresti mai detto dieci anni fa che ci saremmo ritrovati qua io e te su un pesero a Coyoacán?»
Siamo su un pesero a Coyoacán.
Quando sali su un pesero, una specie di piccolo autobus, devi dare i 3 pesos al conducente. Se c’è posto ti siedi. Se non c’è posto il conducente di fa sedere spiaccicato contro il parabrezza davanti. Seduto su un cassone a fianco alla porta. Io e Silvia siamo ammucchiati lì.
«No – le faccio io. – Proprio no. Siamo due surreali comunque.»
Passiamo per una scuola di ceramica. Un gineceo di ceramica. Dove Silvia imparava a fare dei vasi qualche mese fa con delle amabili signore di sinistra.
Silvia vive qui da due anni e tra le altre cose ha fatto un corso di ceramica a Coyoacán. E oggi passiamo a prendere un vaso che ha fatto quando era un po’ giù. Quando aveva il cuore come un alveare. E infatti il vaso sembra un nido di vespe. Ma dentro è laccato e bello.
Poi a Coyoacán una cosa che si fa è passeggiare. E allora passeggiamo per i giardini di Coyoacán dove c’è una fontana con i coyotes. Da cui prende il nome il quartiere. Dai coyotes, non dalla fontana.
Racconto a Silvia di quante cose surreali succedono in nella vita. Concorda. Prendiamo per Avenida Felipe Carrillo Puerto. E siamo un fiume di chiacchiere rumorose.
«E quindi in Colombia incontro questo tizio francese di età indefinita» le dico «che ha passato otto anni nei corpi speciali dell’esercito francese a fare il paracadutista e ammazzare africani in Africa. Poi a una certa sbrocca…»
Voce fuori campo: «Chi è che sbrocca??»
Gelo.
Io e la mia complice ci giriamo di scatto. Da dentro un negozio esce una voce. Una voce con uno spiccato accento romano. Maschile.
«Chi è che sbrocca allora??»
La voce ha una faccia. Una faccia di Roma.
Dietro a un bancone su cui sono esposte teglie di melanzane alla parmigiana. Su cui sono esposte lasagne. Su cui sono esposte torte rustiche.
La voce si chiama Emiliano.
«Come Emiliano Zapata?» chiedo.
«Sì. Sono nato qua – dice Emiliano – mia madre mi ha chiamato come un eroe messicano.»
«Beh, ti poteva andare peggio – dico – ti poteva chiamare Porfirio, come Porfirio Díaz. O ancora peggio, Benito, come Juárez.»
Risata.
La madre in questione è Alessandra. Oggi è il suo compleanno. Alessandra è della Balduina. Un quartiere di Roma, adiacente al mio. È andata a scuola alla Ludovico Ariosto. Dove sono andato io. Scuola demmerda. È qui dal ‘78 e oggi compie gli anni. Con il figlio Emiliano che ha una sciarpetta della Roma appesa a un vaso sopra al bancone.
Il Messico è surreale. Emiliano è surreale. E mi invita a vedere le partite della Maggica a casa sua.
«Noi ogni domenica ci vediamo alle otto di mattina a vedè la Roma. Se vuoi puoi venire appena ricomincia il campionato.»
La Roma a casa di Emiliano. Era tutto quello che potevo desiderare. Come la Roma a casa di Giorgio.

***

La giornata di ieri poteva sembrare un qualsiasi venerdì a Città del Messico. Un venerdì barzotto direbbe qualcuno. Per esempio io.
Poi all’improvviso si fanno le sette di sera e raggiungo Silvia e i suoi amici in una cantina del centro storico. Quattro chiacchiere e qualche tequila.
Continua ad essere venerdì.
Nove e mezza, Arena México per il rito della lucha libre nel suo tempio nazionalpopolare.
C’è un amico francese di Silvia, Roman, entusiasta degli energumeni mascherati che ogni settimana affascinano grandi e piccini con uno spettacolo che i più non riescono ad apprezzare.
C’è sempre qualche ottuso che commenta sì vabbè però si vede troppo che non fanno davvero a botte, cioè si capisce che è per finta.
In questi casi purtroppo è difficile avere un’interazione civile. Ma tant’è.
Dunque, finita la lucha, ci buttiamo tra le bancarelle che vendono maschere, magliette, pupazzi e tutto ciò che può avere impressa la faccia enmascarada dei nostri eroi.
Ovviamente non resisto e mi compro la maschera del Santo.
Ora. Per chi non lo sapesse, El Santo non è stato solo il più importante luchador, insieme a Blue Demon, della storia messicana. Esso è un eroe. Un’icona immortale. Un mito.
In questo paese che idolatra divinità ed eroi mascherati El Santo è più o meno come Maradona per i napoletani, o come Elvis per… per i fanatici di Elvis.
A partire dagli anni cinquanta El Santo, conosciuto anche come el enmascarado de plata, poiché la sua maschera è d’argento, comincia a diventare un eroe grazie a fumetti e film che lo hanno come protagonista.
In tutta la sua carriera nessuno è mai riuscito a togliergli la maschera in combattimento, nessuno lo ha mai visto in faccia. Da qui è nata la leggenda per cui il giorno in cui gli fosse stata tolta la maschera sarebbe morto. Nel 1984 el Enmascarado de plata partecipa a un programma televisivo e il presentatore riesce nell’impresa. Gli fa mostrare al pubblico un pezzetto della faccia. Dopo una settimana muore di infarto. E il mito prosegue e si ingrossa. Si dice che sia stato sepolto con la sua maschera d’argento.
Ieri sera mi presento con i miei amici in un locale della colonia Roma. Prima di entrare, per gioco, indosso la sacra maschera del Santo. Entro.
Da qui la serata cambia. Inaspettatamente tutto il locale esplode in grida e applausi. Dopo 30 secondi sono il re della serata. La follia. Gente che grida SantoooSantoooSantoooSantoooo. Mi fanno ballare in mezzo a cerchi vertiginosi. Mi offrono da bere. Tutte le ragazze del locale vogliono ballare con me. Anzi non con me. Con El Santo. I loro fidanzati mi chiedono se posso farmi delle foto con loro. All’improvviso vengo preso per le gambe e sollevato come la coppa dei campioni. Sono stravolto. Non riesco a credere a quello che mi succede. Duecento persone impazzite che coinvolgono uno sconosciuto in modo forsennato peché indossa la mascara de plata. Mi fanno salire su uno sgabello e mi costringono a ballare. Per tutto il tempo in cui rimango nel locale gran pacche sulle spalle, sorrisi, abbracci commossi.
Io ora non posso più togliermi la maschera. Non sono più io. Non riguarda più me. In questo momento io presto il mio corpo allo spirito del Santo. E ho il dovere di onorare la maschera che indosso di fronte a tutta questa gente che la rispetta e la venera. Per un momento ho capito come deve sentirsi Francesco Totti quando entra in una trattoria di Testaccio. Per poche ore ho sentito nel mio corpo la concretezza dell’amore di un popolo verso un suo eroe. Un eroe mascherato. Un giustiziere. Un’icona positiva. Popolare.
Uscito dal locale, solo dietro l’angolo tolgo la maschera per prendere aria e un taxi. Per qualche istante temo che anch’io possa morire facendo quel gesto. Ma non accade. Evidentemente.
Probabilmente questa è l’esperienza più surreale che mi sia successa a Città del Surrealismo.
Che lo spirito di Rodolfo Guzmán, conosciuto come El Santo, ci protegga tutti.
***

Scrivo e guardo la televisione.
Scrivo e vedo dei poliziotti che bloccano la strada.
Di fronte a loro dei poliziotti.
I poliziotti puntano dei fucili in faccia a dei poliziotti.
L’unica differenza è che alcuni sono vestiti di blu e altri di nero. Quelli vestiti di blu sono meno. Quelli di nero di più.
Un po’ guardo facebook e un po’ alzo lo sguardo su questa scena irreale. Sembra che questo paese voglia mettermi alla prova ogni giorno.
Motivo dello scontro: i federali decidono di fare una scampagnata a Monterrey, Nuevo León, per arrestare il capo della polizia di stato e altri otto ufficiali.
Allora la polizia dello stato di Nuevo León decide che col cazzo che l’Efbiai messicano si porta via il loro amato capo. E bloccano la strada. Per tre ore.
E ecco qua che tutto il paese si trova di fronte alla scena finale delle Iene con tutti che puntano pistole contro tutti.
Che poi c’hanno il volto coperto.
Cioè è come se uno accendesse Rai due e vedesse la seguente scena: sulla Salerno-Reggio Calabria, all’altezza di Vibo Valentia c’è un blocco della polizia.
I poliziotti, con il volto coperto, bloccano la strada e arrivano i carabinieri con le camionette blindate e gli dicono “vabbè ora toglietevi dai coglioni” e quelli, sempre a volto coperto “no, perché avete arrestato Ciccio Notraco, il nostro amato capo”.
E allora restano lì.
Ore.
A puntarsi in faccia i mitra e i fucili da guerra.
Tutti molto maschi e molto incazzati.
Ecco questo è più o meno quello che vedo. Solo che qui sono messicani e non sono in Calabria. Ma non c’è tutta sta differenza.
Sarà che sono tre giorni che non bevo un goccio di alcol? Sono allucinazioni?
È arrivato il momento di tornare a Tepito.

Prendo il pesero che mi porta fino in centro. Da lì attraversando un labirinto di stradine arrivo a Tepito.
Fernando mi ha dato appuntamento in un bar vicino a una piazza. Un posto pubblico.
Fernando mi accoglie con la solita espressione calma, posata.
«Abbronzato eh? Sei stato al mare?»
«Un po’ di riposo a Tulum.»
«Ah, un posto straordinario.»
«Sì.»
Silenzio.
«Fernando, volevi vedermi?»
«Sì. Volevo dirti alcune cose.» Parla facendo molte pause. Bevendo lentamente il cappuccino che ha ordinato.
Io bevo un caffè americano con latte. Molto latte e molto zucchero.
«Tintan non è più un problema. Né mio, né tuo.»
La notizia è come un tocco di campana sordo. Senza rimbombo. Non sento nulla.
Quando ho visto quel ragazzo tatuato con la testa in mano e sono corso al cesso, per un po’ ho creduto di avercela fatta. L’omone che è entrato dopo di me era un quarantenne ubriaco come una merda, che veniva a svuotare la vescica al cesso.
Ho vomitato tutto quello che avevo in corpo, ma nessuno mi ha toccato. Nessuna minaccia. Niente.
Uscito dal bagno un po’ sconvolto sono tornato nel patio a vedere dei cani ammazzarsi.
Tintan è ricomparso dopo qualche minuto con l’espressione imperturbabile sul volto.
Non ho pensato che potesse essere lui l’uomo nell’ombra.
Ha fatto finta di niente. Mi ha chiesto se avevo visto abbastanza. Gli ho risposto che sì, sarei tornato volentieri a casa. Avevo un altro conato.
Dopo venti minuti eravamo di nuovo seduti nel Chevrolet TrailBlazer di Tintan. La musica a palla. Reggaeton.
Tintan mi ha accompagnato fino a Tepito. E da lì ho proseguito da solo.
Nessun segnale. Nessuna preoccupazione.
E ora nessuna emozione nel sapere che il mio aguzzino è stato tolto di mezzo. Non sento nulla.
Ho solo voglia di smettere di decidere.
Ho solo voglia che qualcuno si prenda cura di me.
«Ho un lavoro per te Samuele. Sarai il mio aiutante. Non come Tintan. Lui era una guardia del corpo, il mio braccio destro, il mio assistente sotto tutti i punti di vista. No, per te sto pensando più a una specie di addetto stampa. Una specie di faccia pulita. Che ne pensi?»
È pazzo. Per forza. Cosa gli fa pensare che io possa accettare una proposta del genere?
Affiliarmi a un boss di Città del Messico è fuori discussione. Anche se no ho altro da fare. Anche se non ho da mangiare.
«Perché dovrei lavorare per te?»
«Perché non hai niente. Non hai niente da perdere. E perché sei stanco.»
Sono stanco. È vero. Ma questo non basta.
«In che consiste questo lavoro? Cosa vuoi esattamente da me?»
«Ho varie attività oltre alla gestione del mercato. E per alcune ho bisogno di avere una faccia pulita, credibile, che mi rappresenti. Voglio che quando vedono te vedano anche me. Voglio che si associ la tua faccia europea, i tuoi occhi sinceri, il tuo sorriso rassicurante, a me. Tu devi essere il volto pubblico di Fernando. Devi essere uno specchio per le allodole. Anzi. LO specchio per le allodole. Sai essere convincente. Sai trasmettere sicurezza. Sai far credere di avere le risposte. L’ho notato, sai?»
«E perché dovrei accettare?»
«Per esempio perché ti ho salvato la vita.»
Questa era banale.
«O perché non hai un cazzo. Non ti è rimasto niente.»
Ora cominci a dire cose pesanti.
«O più semplicemente perché tu LO VUOI.»

Questo paese non è esattamente come mi aspettavo. Pensavo che avrei trovato un modo per sfangare. Per fare quello che pensavo fosse il mio lavoro, scrivere.
Da fuori sembra solo un posto surreale dove succedono cose strane. Invece è proprio una giungla.
Per questo i messicani sono così cabrones.
Millenovecentonovantotto: durante i mondiali di calcio di Francia, un messicano con parecchio alcol in corpo, pensa bene di pisciare nel focolare del trionfo, che si trova sotto l’omonimo arco. Ci ha pisciato sopra!
Prima conseguenza: ha spento il sacro fuoco del tronfio trionfo francese.
Seconda conseguenza: unanime disgusto internazionale nei confronti del Messico.
Ti piscio sopra, Trionfo.
Ti piscio sopra, comunità internazionale, sono messicano e sono ubriaco. Non c’è nulla di più molesto e antisociale al mondo.
E io arrivo in questo paese. Sperando di trovare le armi necessarie a smantellare l’organizzazione di un paraculo che ha capito come soggiogare un fottìo di persone adoranti.
Sono arrivato qui pensando che avrei potuto lasciarmi alle spalle tutta la disperazione, la delusione, la frustrazione della mia vita.
Sono arrivato qui pensando di lasciare in Italia i miei fantasmi. Le donne che non mi hanno amato. Ginevra. Lauréda.
Pensando che avrei avuto un’altra possibilità.
Per essere luminoso. Vincente. Coerente con i miei sogni di giustizia e successo di bambino anni ottanta.
Ken il Guerriero. Che uccide i cattivi facendogli esplodere la testa. I cattivi.
Indiana Jones, che va alla ricerca della Verità. Del Graal. Che uccide i nazisti. I cattivi.
Smantellare la Vera Via. Ma la Vera Via è un polipo. L’ennesimo polipo. L’ennesimo oppio. L’ennesimo padrone a cui tutti prima o poi, stanchi, decidiamo di sottometterci.
Né più, né meno.
La Vera Via in fondo sono io.
Fernando aspetta una risposta da me. Ma già la conosce.

***

La mia casa si affaccia sul Mar di Cortés. Il rumore del mare mi accompagna durante la giornata.
Il lavoro non è difficile. Lo faccio tranquillamente da casa con una connessione veloce.
Lavoro per Fernando. Sono la sua faccia pulita. Quello che gestisce la comunicazione delle sue molte imprese.
Siamo in affari anche con il PEM. Ho conosciuto il Maestro. È un cialtrone. Ma Fernando dice che è affidabile per ripulire denaro sporco.
Mi ha sempre disgustato l’idea che chiunque si metta in ginocchio davanti a un dio, davanti a un uomo.
Mi disgusta l’idea che qualcuno scelga di mettersi in ginocchio.
Mi disgusta il gesto di mettersi in ginocchio.
Di pregare.
Di scegliere di dare la propria fiducia, la propria fede, a un’altra persona. Incondizionatamente.
Per anni è stata la mia battaglia. Il faro della mia vita.
Non riesco ad accettare che qualcuno possa rinunciare al proprio arbitrio e affidarsi a qualcun altro.
Non accetto l’idea di rinunciare al mio libero arbitrio e delegare qualcun altro che decida al posto mio.
Non accetto l’idea di rinunciare alle responsabilità per mettermi nelle mani di qualcun altro.
Oppure non accetto di farlo io?
Oppure non accetto che esista un dio se quel dio non sono io?
Ora c’è qualcuno che ripone la sua fede in me.
Ora c’è qualcuno che è disposto a inginocchiarsi di fronte a me.
Che crede ciecamente in me e che esegue i miei ordini come se questi fossero legge.
Questo è quello che mi ha dato Fernando.
«Tu non odi le sètte perché rappresentano il male. Perché anche tu sei oscuro. Tu odi il Maestro perché non sei stato ancora capace di sottomettere totalmente qualcuno. Io voglio darti questa possibilità. Voglio metterti di fronte al tuo lato oscuro. Perché so che lo abbraccerai.» Mi ha detto Fernando. Darth Vader.
Guerre stellari era una menzogna. Una menzogna anni ottanta. E io ci avevo creduto di essere il cavaliere Jedi. Di essere un Padawan. Di essere Luke Skywalker.
E invece no. Ognuno incontra il suo lato oscuro e lo abbraccia. Prima o poi.
E io l’ho abbracciato il mio lato oscuro.
Fernando si è limitato a tirare fuori quello che da tempo era già sul piatto.
Vaffanculo George Lucas.
«Chi non vuole vedere l’immagine nello specchio è un ingenuo o un ipocrita. E l’ingenuità tu dovresti averla persa durante l’adolescenza.» Mi ha detto Fernando/Darth Vader.
Ora sono diventato un uomo. Abbastanza uomo. E forse anche un po’ pitbull.
Ora accetto l’idea che si tratta solo di lavoro. Che c’è un mercato che ha bisogno di un prodotto. Un mercato di gente che vuole credere. Che vuole essere presa per mano. Che vuole essere presa in giro.
Accetto l’idea che o sono come loro o sono il loro spacciatore di menzogne.
Quel prodotto posso propinarlo senza grande sforzo.
Spacciatore di menzogne. Invece che uno scrittore, un truffatore. I miei sogni medio borghesi di sinistra. I miei sogni di giustizia. La mia vocazione. Raccontare storie.
Ma in fondo è poi tanto diverso raccontare panzane per un mafioso?
Dunque mi limito a fare il mio lavoro. E scrivo nel tempo libero. Perché ho molto tempo libero.
Così penso alla mia fuga. Alla fuga da quel mondo in cui ero nato e cresciuto. In quella Roma di sinistra patinata. La fuga da. Non la fuga verso.

A volte nel tempo libero aiuto Doña Tota a fare pacchetti nel suo negozio di dolciumi, vicino casa.
Vivo poco fuori La Paz, capitale della Baja California Sur.
Intorno a me: il deserto e il mare.
Che poi non è vero che è deserto. È pieno di piante cactacee, succulente. Qui poi fanno un ottimo formaggio di capra. È il posto che più di tutti mi dà un senso di vastità. Più di Città del Messico.
La mia casa è scarna. Pochi mobili. Tre amache appese al soffitto. Una cucina grande.
Il mio Mac. La macchina fotografica. Libri.
Ho portato con me anche Vittorio. Ma sembra non gradire il deserto.
Sono tre giorni che fa l’offeso e fa finta di essere una statua di sale.
Ho un bel giardino di cactus che dà sul mare.
Qui una volta all’anno arrivano le balene grigie che vengono a svernare e a partorire.
Succede a febbraio.
Di notte si sente il canto delle balene.
Respiro.

Radical Shock. Una storia sinistra. Capitolo dieci. Amores perros

Dieci. Amores perros.

L’intensità dei desideri smuove forze possenti spingendole verso obiettivi d’amore e di conquista. Attenzione: bruciando le polveri con avventatezza si creeranno tensionni, mentre usando l’intuizione troverete più facili vie per avvicinarvi al risultato. PASSIONALI.

La visita onirica di Lauréda mi lascia intontito. Perso. La gastrite mi ha svegliato.
Sono le 7:19. È il caso che mi dia una svegliata.
Vittorio mi guarda con quegli occhioni a palla grandi come tortillas. L’ottuso.
Alle due devo incontrare Tintan. Mi porta alla pelea de perros. Non posso permettermi di arrivarci rincoglionito. Quando mi ricapita un’occasione così?
Dalla finestra arriva la solita cumbia. Mi rompe il cazzo. Prendo il computer. Ci attacco la cassa Bose che Silvia nasconde nell’armadio. Silvia è al lavoro.
Faccio partire uno dei più grandi successi della musica rock/pop italiana. Vaffanculo di Marco Masini.
Questo vi meritate per svegliarmi tutti i giorni con la cumbia, maledetti mangiatacos. Vediamo un po’ chi vince oggi?
Mi caccio sotto la doccia sulle note del grande Masini. Mi devo ripigliare.
Loro: zitti.
Samuele 1 – mangiatacos 0.

La mia colazione: huevos rancheros. Uova all’occhio fritte su una tortilla di mais con salsa piccante di pomodoro. Il cagotto ormai mi accompagna da settimane come un amico sincero. Quindi mangio di tutto senza farmi troppi problemi.
Apro La Jornada, il quotidiano su cui scrive Serapio. Ieri un commando di ottanta paramilitari travestiti da poliziotti federali ha fatto irruzione in un carcere di Zacatecas.
Ottanta persone.
Quindici camionette blindate della con le insegne della polizia federale e un elicottero. Armati di AK-47 e fucili da guerra.
Si sono presentati alle quattro di mattina alle guardie dell’ingresso principale dicendo che dovevano fare un controllo urgente. Le guardie hanno aperto i cancelli dando loro il benvenuto.
I paramilitari, appartenenti al gruppo de Los Zetas, tutti ex militari disertori dei corpi speciali, addestrati dagli americani nella School of the Americas (quella di Fort Benning, Georgia, dove hanno studiato tutti i gruppi paramilitari dell’America latina e i vari dittatori sanguinari, a spese del contribuente statunitense), ora in forza al cartello di narcotrafficanti del Golfo, sono entrati. Senza sparare un solo colpo hanno liberato 53 carcerati legati al Cartello del Golfo e li hanno portati via. Ringraziando e offrendo a tutti i secondini la colazione.
Durata dell’operazione: 35 minuti.
Finisco di mangiare le mie uova.
Scendo in strada. Ho voglia di fare una passeggiata al parco. Per mandare giù le uova e la notizia.
Ho di nuovo voglia di menare.
Me la devo proprio portare appresso dappertutto. Questo paese mi fa incazzare. Siete peggio di noi. La differenza coi radical chic italiani è che i messicani sono più ricchi e più stronzi.
Avete preso il peggio dell’Europa, mischiato col peggio di quello che è rimasto dei vostri imperi aztechi o salcazzo e di nuovo mischiato col peggio dei vostri padroni del nord. Un’abbondante dose di cattolicesimo e via. Bel cocktail del cazzo! Complimenti!
Poi però si incazzano se gli dici che sono terzo mondo. Come i greci che si incazzano se gli dici che sono turchi. Il fatto è che siete terzo mondo. E i greci sono turchi.

***

«Allora? A che punto sei?»
«Sto avanzando. Un po’ a tentoni ma avanzo. Te? Che se dice? Come sta Miss Liceo? Ti porta ancora il rum?»
«Miss Liceo è superata frate. Adesso esco con una diciannovenne con delle tette commoventi.»
«Bene. Come sempre puntiamo sulla testa delle donne.»
«Sempre. Tra un po’ arriva. Devo trovare una scusa per cacciarla di casa prima di mezzanotte. Arrivano i mostri all’una e facciamo nottata di texana.»
«Dille che sta tornando la tua ragazza. Funziona sempre.»
«Già usato. Vabbè me inventerò qualcosa. Una bella diarrea magari.»
«Che stile!»
Il faccione di Giorgio campeggia nella finestra della videoconferenza di skype. Ogni tanto salta la linea. Sto rubando la connessione wireless dal negozio di gelati qui sotto.
«Che ore so da te?»
«L’una.»
«Qua ce stanno i miei vicini filippini che è tutto il pomeriggio che friggono. Dall’odore che arriva a zaffate sono sicuro che stiano friggendo una tonnellata di merda. C’è una puzza orrenda, mortacci loro.»
«Ma come cazzo fai a vivere costantemente con quell’odore?»
«Lascia perde va. C’ho la pazienza di Budda. Me so beccato pure una cazziata da una stronza su facebook oggi pe sto motivo. Secondo lei non posso dire “filippini”. Devo dire “i miei vicini” senza specificarne l’etnia.»
«E perché mai?»
«Perché se no è razzista dire che i miei vicini filippini friggono la merda o i copertoni. E invece non è razzista per niente. È ipocrita non dirlo. Ci sarà un legame tra il fatto che sono filippini e il fatto che la loro cucina puzza.»
«Da antropologo ti posso confermare che la scelta di friggere merda è strettamente legata ad una questione etnica in effetti. È una scelta dirimente, legata alla provenienza, quella di friggere copertoni o merda piuttosto che cucinare un buon minestrone.»
«Appunto! È quello che ho detto a lei. Solo che devo sentirmi rispondere che sono razzista e che dipende dai gusti. Dipende dai gusti!!»
«Il relativismo da autobus dei fricchettoni col senso di colpa occidentale. A proposito di filippini. Lo sapevi qual è il massimo della libidine la prima notte di nozze dei neosposi filippini?»
«Friggere merda?»
«No. Sesso ascellare. Lui si fa fare una pippa con l’ascella di lei.»
«Ma che cazzo dici? Non ha alcun senso sta cosa…»
«Me l’ha detto un’amica di Manila. Poi pare che le donne filippine più so pelose e più so bòne. Vedi come i tratti culturali influiscono in maniera dirimente nella vita e nelle abitudini sessuali e culinarie? Vabbè com’è finita sta storia?»
«È finita che stavolta non glie l’ho fatta passare a quella stronza. Ho calato l’asso. Le ho detto sì, esistono i gusti. A molti piace praticare il felching per esempio.
FELCHING: pratica sessuale (il lemma inglese, coniato -a quanto sembra- negli Stati Uniti negli anni ’70- non trova corrispettivo nella lingua italiana), che consiste nel succhiare il liquido seminale fuoriuscente dall’ano o dalla vagina in seguito all’eiaculazione al loro interno. Solitamente si tratta del liquido seminale della stessa persona che succhia. Sono gusti. gusti demmerda!»
«Hahahahahahahahahahahah. Brutta stronza.»
«L’ho stesa.»
«Maledetta.»
«Parlando di cose futili. Ce l’hai il pezzo? Dalla redazione mi stanno tartassando. Se non glie lo mandi entro domani sei fuori fratello. Ho fatto quello che potevo, ma lo sai che non conto un cazzo.»
«Lo so Giorgio. Non hai mai contato un cazzo. Ci sto provando. Spero di mandarti tutto entro domani.» Tutto cosa? Non ho niente in mano. Posso scrivere un bel pezzo sulle porte in faccia, come sempre. «Tu, piuttosto. La tua storia su Scientology?»
«Avanza. Sto facendo delle scoperte interessanti. Credo che verrà bene. Senti Samuele, dimmi la verità. Non hai un cazzo, vero?»
«Ma la smetti? Invece ho quasi fatto. Vabbè mo te saluto che devo uscire. Vado a una pelea de perros.»
«Ci sentiamo fratè.»
«Salutami la diciannovenne e le sue tette imperiose.»

***

Mentre cammino per arrivare al mio appuntamento si ammucchiano emozioni contrastanti.
Non sta succedendo quello che mi aspettavo. Non è sparito proprio niente “per magia”. Invece nei miei piani arrivando qua sarei stato travolto dall’avventura, dagli eventi, sarei riuscito a entrare dalla finestra del mondo che mi aveva sbattuto la porta in faccia in Italia.
Semplicemente non succede. E io ricomincio a odiare.
Queste strade sfondate, i marciapiedi sfondati, i palazzi sfondati. E quel coglione vestito da pagliaccio che cerca di far ridere i passanti.
Un naso rosso. Un cilindro schiacciato in testa. Baffi arricciati. Pizzetto puntuto. Pantaloni troppo corti tenuti su da tiracche nere. Camicia bianca. Scarpe nere e calze rosse. È decisamente un pagliaccio.
E cammina verso di me. Come un pagliaccio. Deve essere attirato dall’espressione ingrugnita che sicuramente ho sulla faccia in questo momento. Guarda è meglio se te ne stai alla larga amico buffone, che oggi proprio non è giornata.
Invece mi punta.
Che cazzo vuoi, idiota di un pagliaccio?
Lui sorride.
Che cazzo sorridi? Non vedi dove cazzo sei? Dovresti piagne.
Senza rendermene conto lo dico.
«Che cazzo sorridi? Non vedi dove cazzo sei? Dovresti piangere.» Vomito la rabbia. Sono una maschera di rabbia.
La sua risposta è un sorriso ancora più ampio.
Il pagliaccio mi fissa dritto negli occhi.
Sorride e mi fissa.
Dice che il Messico ha bisogno di pagliacci.
Dice che il mondo ha bisogno di pagliacci.
Dice, sai, quando ti succede qualcosa di brutto o di difficile hai due opzioni. O piangi o ridi di te. E piangere rende solo le cose più difficili.
Ma di che cazzo vai farneticando? Ma ti vedi come vai in giro?
Questa città è una giungla, dice il pagliaccio, ma se ti vesti come me, se quando succede qualcosa invece di arrabbiarti regali una risata, nessuno ti aggredisce, nessuno ti fa del male. Quando sei un pagliaccio la tua lotta è dal basso.
Nessuno si sente minacciato.
Nessuno si sente in competizione.
Perché tu ti presenti come il perdente.
La gente ride di te. Tu la fai ridere.
E ride perché vedendo te vede qualcuno che è palesemente uno sconfitto. E le sventure degli altri fanno tanto bene alle nostre.
Invece di farmi stare meglio, idiota a tempo pieno, le tue parole mi lacerano come lame. Chi ti ha chiesto qualcosa?
Ma tu me lo chiedi, dice il pagliaccio.
I tuoi occhi me lo chiedono, dice il pagliaccio.
Far ridere gli altri prendendosi gioco di se stessi è un’arma potentissima.
Il pagliaccio mi svela il suo segreto.
Il suo potere.
La sua gloria.
Io vinco, dice il pagliaccio, perché regalo sorrisi. Perché regalo allegria. Ed è un’allegria che nasce dalla cenere della mia sofferenza.
Io vinco perché sconfiggo la sofferenza e la trasformo in sorrisi. Grazie al mio dolore qualcun altro ride. E le risate degli altri alimentano il mio cuore. E il cuore di un pagliaccio è il nostro naso rosso.
Ci mettiamo il cuore in faccia.
E indica la palla rossa che campeggia su un viso imbiancato.
Sto parlando con uno specchio. Uno specchio con un naso rosso.
Poi il pagliaccio mi abbraccia. Lo lascio fare. Intontito.
È un abbraccio gratis, dice.
Mi fissa di nuovo. Sorride. E se ne va.
Rimango impalato in mezzo alla strada.

***

Tintan è puntuale. Molto insolito per un messicano. Mi passa a prendere alla metro Tepalcates. Sono le 14:06. Siamo ai margini della città, e alle porte di una delle tante urbanizzazioni periferiche del Monstruo, Ciudad Nezahualcóyotl, o più semplicemente Ciudad Neza.
Salgo sul suo suv Chevrolet TrailBlazer LS nero coi vetri oscurati. Spara una luce blu da sotto, che illumina il pezzo di strada sotto la macchina. Anche di giorno. Antonella direbbe che questa macchina denota una necessità di apparire maschio e dominante. A me sembra solo tamarra da morire.
Sono agitato. Non so cosa mi aspetta e il mio amico qui a fianco oggi è silenzioso. Non vedo nessun cane né sul sedile posteriore, né nel portabagagli con la rete di acciaio per dividere i vani dell’auto.
Tintan non ha portato il suo gladiatore.
Percorriamo le arterie della Ciudad Neza a un’andatura sostenuta.
Avenida Lopez Mateos, poi a destra Avenida Pantitlán, fino alla nostra destinazione. Una casa privata. Senza numero civico. La facciata è verde e non ha assolutamente nulla di particolare o degno di nota.
Sono in mezzo alla Colonia Metropolitana Tercera Sección. La calle si chiama Villa Obregon. Ma potrebbe chiamarsi in qualsiasi modo.
Questa zona è fuori dal mondo. E se dovessi rimanere qui senza la mia guida sarebbero davvero cazzi amari.
Tintan parcheggia lungo la strada. Scendiamo in silenzio. Ci sono molte altre macchine sul marciapiede. Mercury degli anni ’80, Chevy, Vochos, Jeep, Mustang. Di ogni tipo.
Il mio accompagnatore suona alla porta verde. Ci apre un ciccione con la maglietta nera. Porta i capelli a spazzola e ha la carnagione molto scura, da indio. Accoglie Tintan con una stretta di mano. Poi mi guarda. Guarda Tintan interrogativo.
«Tutto a posto, Carlitos, il guero è con me.»
«Se lo dici tu. Avanti.»
C’è puzza di cane.
E di sangue.
E di piscio.
E, come sempre in questa città, di olio rancido e mais.
Questa è una casa. Vuota. Ma piena di gente. Ci saranno quaranta persone.
Vedo ragazzi. Vedo uomini di mezza età. Vedo adolescenti. Vedo facce molto brutte. Facce normali. Tutti uomini. Alcuni hanno un coltello. Tutti bevono. Tutti scommettono. Molto denaro.
C’è fumo nell’aria.
Ci sono bottiglie di birra nelle mani.
E sigarette.
In sottofondo: reggaeton.
In primo piano: vociare indistinto e molesto.
Tintan mi precede.
Pensavo che la mia presenza suscitasse un po’ di scalpore. Invece sono tutti concentrati nelle scommesse.
Ci sono soldi nelle mani. Passano di mano in mano.
In fondo al corridoio che sto percorrendo c’è la gran parte della gente. In un patio.
Nel patio c’è un’arena. La vedo tra le schiene degli uomini che ci sono attorno.
Nell’arena c’è sangue.
Ci sono pezzi di cane.
Nell’arena c’è un cane morto.
Sgozzato. In una pozza di sangue suo e dell’avversario. Che ora il suo padrone sta ricucendo. Letteralmente lo cuce.
Le lesioni del vincitore sono brutte da vedere ma a quanto pare non è ridotto così male. Scodinzola. Scodinzola col mozzicone di coda che gli resta.
Due pittbull. Il pitbull è il cane più usato nella pelea.
Ho letto in un articolo che i pitbull terrier sono i cani preferiti per questa attività ludica. Sono forti. Sono veloci. Sono agili. E sopportano bene il dolore.
Sono dei gladiatori.
In questo caso il pitbull morto ha la gola squarciata.
Non è stato abbastanza rapido e agile.
Non è stato abbastanza forte.
Non è stato abbastanza incazzato e alienato.
Non ha odiato abbastanza il suo avversario.
«Samuele, non sei stato abbastanza uomo.»
Il pitbull morto è schiodato perché non è stato abbastanza pitbull. Si vede che l’altro invece sì.
Sempre nell’articolo sulla pelea de perros ho letto che i cani vengono addestrati in modo feroce. Torturati.
Tra le tecniche più comuni c’è quella di far correre i cani attaccandogli addosso grossi copertoni con delle corde, per rinforzarli e aumentare la loro resistenza.
Si insegna al cane a mordere in qualsiasi posizione, gli si fanno mordere copertoni e contemporaneamente lo si colpisce con bastoni chiodati sulle zampe, così attraverso il dolore imparano a stare attenti alle proprie estremità mentre combattono.
I cani vengono addestrati fin da piccoli al combattimento. Si fa aumentare la loro aggressività tenendoli la gran parte del tempo legati e quando li si porta fuori vengono legati a grosse catene che li strozzano, così gli animali si abituano alla fatica e a essere sotto stress.
Lo stress è un elemento fondamentale durante il combattimento. Serve a fargli venire la cazzimma.
L’allenamento è una fortificazione fisica e una debilitazione emotiva.
I cani sono costretti a vivere situazioni di stress e sconfitta per poi essere rinforzati “positivamente” attraverso lo scontro con altri cani più piccoli, che quindi vengono uccisi compulsivamente, o più grandi, con i quali imparano a soffrire.
Mi viene di colpo in mente Gaspare Fradeani.
Gaspare è il cane di una coppia di amici di Ginevra. È un bastardino con problemi di iperattività. E di disciplina. Prima pisciava dappertutto.
Problemi per i quali i suoi padroni, una coppia sana, mi sembrava, hanno deciso di portarlo dallo psichiatra. Lo psichiatra dei cani.
Vedo davanti a me il cadavere di un cane ucciso dai morsi feroci di un suo simile.
Torturati per forgiare il loro carattere.
Vedo Gaspare che si lecca il cazzo tutto il giorno perché lo psichiatra gli ha dato il prozac o non so che altro psicofarmaco, per farlo essere più mansueto e non farlo pisciare in casa.
Ora ha erezioni continue e passa le ore a ciucciarsi l’uccello rosa.
Il pitbull che ho davanti viene bastonato quotidianamente. E costretto a combattimenti che si chiamano matar o morir, uccidere o morire.
Un cane di questi non dura più di 4/5 combattimenti. E se sopravvive viene buttato in strada perché ormai ridotto troppo male.
Gaspare prende psicofarmaci e si lecca il pene in modo compulsivo.
I suoi padroni sono sani.
I padroni di questi cani sono sani.
Oltre ai pitbull le altre razze predilette per i combattimenti sono staffordshire bull terrier, american staffordshire, dogo argentino, fila brasiliano, tosa inu, akita inu, e rottweiler.
Continuo a osservare rapito mentre la gente intorno a me scommette, beve, fuma e parla a voce alta.
Tintan mi raggiunge vicino all’arena. Mi passa una bottiglia di birra. Bevo. È fresca.
«Sembri molto serio Samuele. È come te lo aspettavi?»
«Insomma. È molto cruento. Stavo pensando a un cane di un amico. Sarebbe divertente vederlo fare una pelea.»
«Senti, ti lascio a divertirti per una mezz’ora. Ho un po’ di persone con cui devo parlare. Ti ritrovo qui.»
«Vai tranquillo. Grazie. Non mi muovo.»
Sta per cominciare un’altra pelea. Io finisco la mia birra e ne comincio subito una seconda. L’ambiente comincia a essere nauseante. Deve essere tutto questo sangue. O questo odore di morte.
Sono un po’ confuso. Dove cazzo sono? Chi è questa gente? Sono dei pazzi?
E perché in fondo questo posto mi piace?
Alcuni esperti affermano che il profilo psicologico dei padroni di cani da combattimento è quello di persone psicopatiche, con un forte complesso di inferiorità, cosa che li fa proiettare nel loro cane. Come se loro stessi diventassero forti e temibili.
Lo scontro del cane con un altro cane altrettanto forte dà la misura a entrambi i maschi del coraggio e della competitività.
Questo è Tintan.
Invece le persone che assistono a questi combattimenti sono nella gran parte uomini, adolescenti e adulti, il cui gusto per il sangue denoterebbe diversi disturbi della personalità, generalmente psicopatie più o meno gravi. Assistono a questi eventi per rinforzare la loro virilità e mascolinità, diminuita per qualche motivo nella loro vita.
E questo sono io.
Devo andare a pisciare.

Radical Shock. Una storia sinistra. Nove. Occorre essere attenti per essere padroni di se stessi

Nove. Occorre essere attenti per essere padroni di se stessi.

Se la sfera lavorativa tende a limitare l’interiorità, dovreste cercare di recuperarla attraverso la riflessione, con momenti di pausa ritagliati ad hoc. Affioreranno anche alcune verità del passato, e un amore soffocato dall’effimero riemergerà. MALINCONICI.

«Non ti vedi che sei? A terra a leccarmi i piedi! Non hai un minimo di dignità, cazzo! Tirati su. Smettila per dio! Più mi lecchi e meno ti stimo. Mi fai schifo Groucho!»
Groucho è un cane. Per l’esattezza un cane da più di un quintale. E ha solo due anni. Credo che la sua razza sia il boxer.
Sto parlando con lui da un po’. Da un po’ troppo. Ho abbondantemente superato il limite massimo in cui è accettabile che un umano parli da solo con un cane senza essere considerato un subnormale.
«Ti rendi conto che io ti odio??»
Lo odio. Mi sta simpatico. Ma odio il fatto che mi lecchi. E che mi ami in maniera incondizionata SENZA ALCUN MOTIVO.
«È una cosa inaccettabile Groucho!»
Groucho ha un padrone, che evidentemente non sono io.
Il suo padrone è Tintan. Che ora è uscito a comprare un settimanale sulla lucha libre. Groucho lo odio perché senza alcuna ragione mi ama e mi lecca i piedi. Si butta per terra, si rotola. Vuole le coccole da me!

«Non solo sei senza dignità. Ma affidi il tuo amore a una persona che possibilmente ti userebbe per fare i combattimenti tra cani.»
La sua è fedeltà totale. Incondizionata e senza motivo. È fede in un essere superiore. Che non è superiore. Lui potrebbe farmi a pezzi diciamo in tre mosse. Eppure mi lecca i piedi, cazzo!
Oggi sono passato a fare un giro per il mercato di Tepito, per comprare qualche vestito e qualche cd.
Tintan mi ha accolto con un sorriso strano. Non un sorriso. Un ghigno. Un ghigno sinistro.
E mi ha fatto conoscere Groucho. Poi è uscito a comprare il suo giornale e a chiamare Fernando.
Tintan dice che se continua così Groucho sarà un campione della lotta tra cani.
Dice che gli mangia la faccia, agli altri cani.
A me pare un bambacione. E mi lecca i piedi pelosi che tengo in un paio di Birkenstock infradito. Sono un regalo di Ginevra. Quelle classiche da frate non le piacevano. Ora lei non c’è più e mi sono rimaste queste ciavatte infradito.
Groucho non ha l’aria di essere gran ché aggressivo, ma io di cani da combattimento va detto che ci capisco poco.
Aspetto Fernando. Mentre dormivo mi è venuto in mente che forse lui potrebbe sapere qualcosa sugli affari sporchi delle sette esoteriche. Qualcuno lo dovrà pur sapere qualcosa.
Entra il boss. È scuro in volto. Deve essere una giornata storta. E con questa faccia fa davvero paura. È un incrocio tra Joker di Batman, nella versione di Heath Ledger, e Toto Cutugno (per il doppiopetto che porta oggi e il capello impomatato).

«Hola Fernando.»
«Hola Samuele. Come va? Cosa ti porta di nuovo a Tepito?»
«Tutto bene, grazie. Sono venuto perché volevo parlare con te di una cosa. Magari mi puoi aiutare.»
Le sicurezze che mi hanno portato qui cedono come le torri gemelle di fronte allo sguardo scettico di Fernando.
Capisco perché bisogna avere paura di uno come lui. Il suo sguardo trasmette potere e violenza. E carisma. Bestiale.
La storia di Akira ha aperto una serie infinita di caselle. Di possibilità. Ho la testa zeppa di informazioni, di dubbi e di idee. E ho una sensazione che non riesco a definire. È un tipo di gastrite che non riconosco. Che mi porta ad essere qui da Fernando. Lui deve sapere qualcosa.
Il denaro che muovono gli adepti del PEM è tanto. E gira intorno ad attività commerciali. Questa città enorme funziona come tutte le città. I criminali si conoscono tra loro, quanto meno di fama.
Fernando aspetta quello che ho da dirgli. Non è per nulla impaziente. Solo che si capisce che dietro la maschera di calma non ha tempo da perdere.
«Sai di qualche affare poco chiaro legato a una setta che si chiama Percorso per un’Esistenza Migliore a Città del Messico?» domando diretto.
«Che cazzo ti frega di Percorso per un’Esistenza Migliore?»
Ecco una risposta a sorpresa. Mi spaventa.
«No, è che sto facendo un’inchiesta…»
«Dovresti stare attento a quello che chiedi in giro. È un consiglio, il mio. E un altro consiglio è quello di lasciar perdere questa faccenda. Non so cosa stai cercando ma a naso non sono cose che ti riguardano. Ora vattene che ho da fare.»
Cerco di ribattere qualcosa ma la mano di Tintan già stringe il mio gomito in una morsa. Tintan è un sordomuto fatto di muscoli in presenza del capo. Esso si limita a eseguire.
«Pensavo che tu potessi aiutarmi… non volevo offendere.»
«Non mi hai offeso. Io però non aiuto i ficcanaso. Queste sono cose che non ti riguardano. Stai alla larga da me e da questa setta.»
«Per favore, Fernando. Almeno dimmi a chi posso rivolgermi. È la mia unica speranza per il mio lavoro. Ti prego.»
«Non è una mia responsabilità il tuo successo nel lavoro. Sono affari tuoi. Non vengo certo da te quando ho bisogno di aiuto, mi pare.»
Non fa una piega il suo ragionamento. Ovviamente. Ho solo cercato di fargli pietà. Ma non attacca.

Esco dall’incontro con Fernando piuttosto demoralizzato. E spaventato.
Tintan mi accompagna per il mercato, seguito a ruota da quel bestione di Groucho. Fanno una bella coppia. Provo a attaccare bottone anche con lui. Ci devo provare. Altrimenti IO MUOIO. Vediamo.
«Ma con questa bestia ce li fai i combattimenti? Sicuramente sarebbe un campione. Ho visto quel film, Amores perros. Il tuo cane sembra proprio perfetto per cose così.»
Anche un maiale può arrampicarsi su un albero quando viene adulato. Tintan gongola per il complimento. Almeno credo. Forse invece no.
«È ancora troppo piccolo. E poi è un regalo per mia figlia. Questo non combatte. Ho altri cani da combattimento. Dei pitbull.»
«Ne ho sentito tanto parlare della pelea de perros. Anche in Italia. Mi piacerebbe moltissimo vedere alcuni incontri. Credi che sarebbe possibile?»
Tintan mi squadra ghignando. «Tu alla pelea de perros? Ma sei pazzo?»
È evidente che non mi reputa adatto. Mi sottovaluta! No. Invece mi ha già inquadrato… «Comunque se vuoi ti ci porto. Così la smetti una volta per tutte di fare l’investigatore. Dopodomani. Alle due. Vedi di non perderti.»

***

Vado a bere al Groove con Serapio.
Il Groove è un locale gestito da argentini nella colonia Condesa.
Per chi non lo sapesse, la colonia Condesa è piena di locali e piena di argentini. Quindi dire sono stato alla Condesa in un locale di argentini è un po’ non dire un cazzo su dove sei stato.
Il Groove ha bella musica. Bei divani. Belle cameriere e bella gente. Ma ieri sera essendo lunedì non c’era nessuno a parte me e Serapio a berci due J&B lisci.
Ora anch’io sono cliente abituale. È molto importante per un emigrante essere cliente abituale di qualcosa.
Ti fa subito casa.
Usciti dalla Condechi torniamo in taxi verso Mixcoac.
Sotto casa c’è un catorcio informe di macchina stescionvègon. Qualcuno per un periodo l’ha usata come una casa.
Dentro c’è di tutto. Da qualche giorno hanno sfondato il parabrezza. I sedili sembrano comodi.
Io e Serapio stiamo pensando che visto che è parcheggiata lì da secoli, si potrebbe chiamare una grua per farla portare via, e rivenderla a un chatarrero a peso.
Ci potremmo tirare su forse diecimila pesos. Che so’ tipo cinquecento euri.
Da spendere magari a Tulum.
Quindi facciamo un sopralluogo per controllare se ha il motore e che cazzo ci stava dentro.
RInveniamo un orrendo quadro su tela. Un’illustrazione forse indiana di una divinità inquietante e sicuramente malvagia, su sfondo blu.
La portiamo a casa e ora campeggia minacciosa nel salotto di Serapio.
Stanotte ho sognato dio.
Vittorio sembra inquieto.
Mi sveglio sul divano di casa di Silvia, l’amica italiana da cui sono ospite da un mese a tempo indeterminato. Il televisore è acceso su Televisa. Sullo schermo un faccione sorridente di politico incravattato di rosa, sta dando un annuncio. Non capisco bene di cosa si tratti, ma ha una camicia inamidata con un colletto esageratamente alto.
La finestra è aperta sulla Calle Cuernavaca, in piena Condesa. Nel televisore, sotto la facciona ben rasata e abbronzata leggo un nome: Fidel Herrera Beltrán, governatore di Veracruz. Lo stato del Golfo di Veracruz.
Dice qualcosa che non capisco.
Alzo il volume ancora pieno di sonno. «…Quindi abbiamo deciso di inaugurare la bellissima statua che raffigura il piccolo Edgar Hernández, il primo paziente che ha contratto il virus della cosiddetta influenza suina. Questo bambino di cinque anni, sopravvissuto al virus AH1N1, è un simbolo del suo paese e merita una statua. Infatti il suo essere la prima vittima e superstite del virus ha attirato l’attenzione su La Gloria, suo paese natale di solo tremila abitanti, che ora è già diventato una meta turistica. La statua, che raffigura il piccolo Edgar con in mano una rana, è alta un metro e trenta e simboleggia la speranza e la fiducia nel futuro.»
Non riesco a capire se quello che sto ascoltando è reale o frutto della mia mente. Seguono immagini di La Gloria. Due sole strade asfaltate, una delle quali porta alla casa del piccolo Edgar.
C’è festa a Veracruz oggi. E tutto grazie al piccolo Edgar.
Guardo negli occhi il mio toro di cartapesta e mi chiedo dove cazzo sono finito.
Esso non mi risponde e continua a guardarmi ottuso.
Lo chiamerò Vittorio.
Anche oggi mi viene da vomitare.

***

Sto tornando a casa con Serapio. L’ennesima serata alcolica a Città del Messico passata da un locale all’altro. Sono le tre di mattina e siamo entrambi alticci.
Il nostro rapporto si sviluppa principalmente nei bar. Fermiamo un taxi per la strada e diamo indicazioni al tassista per tornare verso l’Avenida Patriotismo. Serapio è silenzioso e teso.
«Come va la nottata?» Attacca bottone col tassista come l’ho sempre visto fare da quando lo conosco. Lo deve fare per forza. Altrimenti lui MUORE. Nella sua concezione ogni conversazione può essere fonte di informazioni. Può essere fonte di confronto. O di scontro.
«Abbastanza tranquilla, señor.»
«Ho letto che ultimamente sono diminuiti gli incidenti stradali? Lei che lavora per strada che ne pensa?»
«Non saprei. A me sembra sempre un casino questa città.»
Percorriamo il Periferico Sur, l’anello che fino a qualche anno fa delimitava i confini della città e che ora è inglobato in essa come un’arteria qualsiasi.
«Se non sbaglio è da queste parti che qualche anno fa hanno sparso il sapone quei deficienti del PAN, no?»
Questi i fatti.
Nel 2000 alcuni impiegati di un grosso saponificio, su ordine del loro presidente, con un camion rovesciano sul selciato otto tonnellate di sapone di diverse fragranze mischiato con acqua, su un tratto del Periferico Sur.
La trovata, soprannominata Aromas del cambio, Aromi del cambiamento, era venuta in mente al Presidente della impresa Esencia Flour de México SA de CV, per festeggiare la vittoria del candidato del partito di estrema destra (PAN) Vicente Fox alle elezioni politiche di quell’anno. Per la prima volta dopo settant’anni vinceva un partito che non fosse il PRI.
Raúl Camacho aveva promesso di profumare il Periferico se avesse vinto Fox.
Lo ha fatto.
Risultato: sedici auto coinvolte in un mega tamponamento a catena causato dalla saponata sparsa sulla strada. Periferico bloccato per quattro ore per ripulire il manto stradale, con il coinvolgimento di decine di mezzi delle forze dell’ordine e dei pompieri. Nessun morto. Molti feriti e contusi.
E una fragranza di fiori nell’aria per giorni.
«A me sembrava una bella idea. Almeno hanno fatto qualcosa di nuovo.»
«Sono soltanto degli imbecilli. A chi può venire in mente di spargere tonnellate di sapone sul Periferico? Solo un idiota può fare una cosa del genere.»
«Si vede che abbiamo idee politiche differenti, señor.»
Serapio è incazzato e molesto. Sta cercando lo scontro. Lo deve fare. Altrimenti LUI MUORE.
E io non ho la forza né la voglia di dissuaderlo. Sono cazzi suoi. Ma l’atmosfera si scalda e ho la sensazione che forse non è il caso mettersi a litigare con un tassinaro di estrema destra nel mezzo della notte a Città del Messico. Per di più ubriachi.
Di conseguenza: continuo a stare zitto e aspetto con fiducia l’evolversi degli eventi.
«Non abbiamo idee diverse. È solo che lei è uno stupido tassista fascista che non capisce la gravità di certe cose.»
«Piano con le parole! Questo è il mio taxi e dico quello che mi pare.»
L’uomo è sulla cinquantina. Piazzato. Con una camicia rosa e uno straccio sul collo per detergersi il sudore. Ha dai grossi baffi grigi e gialli di nicotina. Ci osserva dallo specchietto retrovisore formato gigante. Non gli piace per niente la piega che sta prendendo questa corsa notturna. E nemmeno a me.
«È grazie a gente come lei che questo paese è una merda. È grazie a quelli come lei se continuano a trattarci come imbecilli. E poi il taxi sarà pure suo ma se dice delle stronzate di fronte a me ho il dovere di farglielo notare. Imbecille!»
«Se non le va bene quello che penso se ne può pure scendere qui!»
«Ah, certo! Ma io non solo scendo qui. Io non la pago!»
«Come ha detto?!»
«Che non la pago. Ha capito benissimo. Fermi immediatamente questo cazzo di taxi!»
Il taxi inchioda in mezzo alla strada.
Serapio si paralizza. Sta pensando. Sguardo nel vuoto. Con voce calma, come se fosse rinsavito di botto, chiede: «Per caso lei ha una pistola?»
«Come?»
«Le ho chiesto se ha con sé una pistola.»
«…No…»
«E allora se ne vada a fare in culo e io non la pago.»
Apre veloce la portiera, scende e si mette a camminare rapido in mezzo alla strada.
Io non credo a quello che sto vedendo. Cazzo, non siamo in un film di Tarantino. Queste cose semplicemente NON succedono nella vita vera.
Per qualche secondo rimango immobile sul sedile posteriore di un taxi Tsuru rosso e oro fermo in mezzo alla strada con uno sportello aperto. Poi mi catapulto fuori dalla macchina e correndo raggiungo Serapio che continua a borbottare.
In effetti avevo proprio voglia di sgranchirmi le gambe!
Dove cazzo sono finito?

***

Il sonno tarda ad arrivare. E insieme al sonno calano sogni confusi, storti. Ho accumulato parecchia ansia nelle ultime settimane. E la notte trovano sfogo nell’attività onirica.
Sto viaggiando da solo nel sud della Francia. Guido a casaccio la mia Panda rossa verso la Camargue. Sono felice. È estate. Nella radio Le vent. Io guido e canto.
Si par hasard,|sur l’Pont des Arts |tu crois’s le vent, le vent fripon |prudenc’ prends garde à ton jupon.
Si par hasard, | sur l’Pont des Arts | tu crois’s le vent, le vent maraud | prudenc’ prends garde à ton chapeau.

Il vento entra nella macchina e fuori ci sono fenicotteri rosa. Mi sporgo a guardarli. Lagune, cavalli. In macchina c’è qualcuno oltre a me. Mi giro per vedere chi mi siede accanto, ma non riesco a vedere il suo viso. C’è una persona seduta a fianco a me. La vedo. Sento che so chi è. Ma non ho coscienza di chi sia. Non ho paura.
Les Jean-foutre et les gens probes | médis’nt du vent furibond | qui rebrouss’ les bois |détrouss’ les toits | retrouss’ les robes.
Des Jean-foutre et des gens probes | le vent, je vous en réponds | s’en soucie, et c’est justice comm’ de colin-tampon.

Siamo a Sète. La città di Georges Brassens. In un ristorante di pesce. Siamo felici e ci abbuffiamo di frutti di mare e vino e si ride e si canta. Ci abbracciamo. Metto la faccia nel suo collo. È una donna. I capelli ricci e vaporosi. Affondo il mio viso nel suo profumo. Nei suoi capelli. Chi sei?
In un bar un uomo che somiglia a Brassens sorseggia un bicchiere di pastis 51. parliamo. Cantiamo con lui. Ci dice che in cima alla collina c’è un parco meraviglioso da dove si vede tutta la città. E il mare. E la notte.
Il parco è deserto. Stendo una coperta sull’erba.
La mia mano stringe la tua. Lauréda. Non riuscivo a vederti. Eri così lontana. E ora sei qui e mi dai la mano. Finalmente vedo e sono consapevole delle tue labbra. In piedi di fronte a te. Riconosco il neo sul tuo viso stupendo. Avvicino la mia bocca alla tua. Sento il profumo caldo del tuo respiro. Chiudo gli occhi e sciolgo la presa della mano. Solo il tempo di riannodare le mie braccia intorno alla tua vita. Appoggio piano le labbra sulle tue. La punta della mia lingua ti cerca. Incontra la tua lingua. La accarezza. Ti stringo a me. Le tue mani salgono sul mio collo per stringere il mio viso più vicino al tuo. Per guardarmi negli occhi. Ti vedo. Sei tu. I tuoi occhi neri come le perle di Tahiti, dove sei cresciuta. Ora sento il tuo seno sul mio petto, le mie mani sui tuoi fianchi cercano la tua pelle. Ti sfilo il vestito estivo. Sei nuda. Riconosco le curve del tuo corpo, la tua pelle è di nuovo per me. La mappa dei tuoi nei, le cicatrici, l’odore che non sono riuscito a scordare. Sei tu a spogliare me, come amavi fare. Stesi sulla coperta. Percorro il tuo profilo dalla spalla al seno. La mia mano è nata per toccare il tuo seno, l’aureola scura dei tuoi capezzoli. Scende sul fianco. Ti bacio. Mi baci. Ho bisogno del tuo sapore. La mia bocca è nata per posarsi sulla tua. Lecco il tuo collo, assaggio le tue spalle, mi nutro del tuo petto, le mie mani ormai incapaci di fermare il loro viaggio raggiungono il tuo sesso, dischiuso, umido, caldo. E tu cominci ad ansimare. A cercare il mio collo. Ti stringo, devo toccare più pelle, devo sentire più odori, più sapori, più calore. Mi chino sulla tua pancia liscia, la mordo piano, con la mano e la bocca cerco e accarezzo il clitoride. Tu gemi, in estasi. Apro le tue gambe e mi immergo nella tua vagina ormai bagnata. Ti bacio ti assaporo ti respiro mi perdo. Restare tra le tue gambe. Un sussulto leggero e regolare comunica il tuo piacere. Le tue mani mi accarezzano la testa mentre ti lecco. Mi tirano su. Vuoi che entri in te. Voglio entrare in te. Amore mio. Il mio sesso diventa me. Non sono più un uomo. Sono tutto contenuto in una parte di me. Sono io. Che devo entrare in te. Nel tuo calore morbido e bagnato. Ti penetro. Per un attimo è tutto fermo. Ora insieme ci lasciamo trasportare dal piacere. Ora siamo una cosa. Ancora. Ancora. Insieme aumenta il piacere. Insieme ci stringiamo le mani. Insieme ci guardiamo negli occhi mentre siamo una sola creatura che ama, che gode. Insieme urliamo. Vengo dentro di te. A lungo. Cerco di nuovo le tue labbra. Per un bacio ancora.
Mi rimane nelle mani la sensazione della tua pelle. I tuoi capelli ricci. Il tuo odore. L’odore della tua pelle sudata. Mentre ti bacio si alza il vento. Muove le cime dei pini marittimi sulle nostre teste. Muove il mare ai piedi della collina. Sento il tuo respiro calmo.
Mi hai raggiunto fin qui. Perché tu? Dal fondo del mio passato. Dal fondo del mio cuore. Dall’altra parte dell’oceano ho portato solo te. Ho voluto solo te nei miei sogni. Ho scelto solo te.
Bien sûr, si l’on ne se fonde | que sur ce qui saute aux yeux | le vent semble un’ brut’ raffolant de nuire à tout l’monde | mais une attention profonde | prouv’ que c’est chez les fâcheux | qu’il préfèr’ choisir les victim’s de ses petits jeux
La Camargue svanisce col vento.
Mi sveglio in lacrime. Sono troppo pieno di te.
Devo fumare una sigaretta. Giro piano il tabacco nella cartina. Appoggio il filtro. Chiudo leccando la colla della cartina. Accendo. Guardo la brace rossa mentre aspiro il fumo. Piano.
Respiro.
Le conseguenze delle proprie azioni. VIII.

Questa dunque è la paura?
Mi hanno visto? Sicuro mi hanno visto.
La consegna avviene davanti ai miei occhi.
In fondo a destra.
In fondo a destra.
Come sempre, porca troia!
Il bagno dove sta? Dove cazzo vuoi che stia?
Sta in fondo a destra!! Sempre. Anche in Messico. Derecha.
DE RE CHA.
Non ti puoi sbagliare.
Io invece arrivo in fondo e vado a…?
Izquierda.
IZQUIERDA suona proprio diverso.
Per non farmi i cazzi miei.
La porta è socchiusa e vedo dentro. Due persone. Una persona, anzi. Che parla con un’altra nascosta dalla parete.
In mano ha un sacco nero dell’immondizia.
È un ragazzo.
Avrà trent’anni.
Vestito casual.
Ai piedi un paio di Adidas Samba, come le mie.
Jeans, una maglietta bianca e una felpa con cappuccio e le maniche tirate su.
Oddio non proprio casual. Più come me che casual.
Occhiali e espressione fissa.
Potrei essere io. Mi somiglia quasi.
In mano la busta di plastica e sul braccio un tatuaggio.
Un simbolo.
Una svastica?
Una stella di David?
No. Che cazzo è?
E perché io non mi tolgo da questa cazzo di porta e non vado a pisciare nella portainfondoadestra?
Non ci riesco. Devo vedere che cazzo succede. Lo devo fare altrimenti IO MUOIO. C’è puzza di marcio qui.
Oltre che di merda stantia che arriva dal cesso di fronte.
Il ragazzo sta parlando a bassa voce con l’uomo nell’ombra.
Fa segno di sì con la testa.
Si dice annuisce.
Annuisce.
Poi caccia una mano nella busta.
Acchiappa qualcosa in fondo. Tira su piano. Fa uscire solo un pezzo di…
Che cazzo è? UNA TESTA UMANA??
Porco dio!
Ha tirato fuori una cazzo di testa umana!!
Solo un pezzo. Per farla vedere all’uomo nell’ombra.
La rimette dentro al volo.
Ho un conato.
Un conato imponente.
Sto per vomitare. Qui.
Ora.
Mi hanno visto PER FORZA, porca puttana.
Mi giro e mi fiondo nel cesso in quella cazzo di porta in fondo a destra.
Ho un tamburo in gola.
Mi batte un tamburo in gola e sa di succhi gastrici.
Una cazzo di testa umana in una busta della monnezza. In questo posto di merda dimenticato da dio.
Mi hanno visto sicuro.
E allora tra mezzo secondo entrano e mi sbragano. Entrano e mi spanzano.
Entrano e mi fanno male come non ho mai sentito.
Allora tra mezzo secondo è finita.
Devo vomitare.
Apro lo sportello del primo gabinetto e ci riverso dentro tutto quello che ho in pancia.
Prevalentemente birra Victoria.
Non è una stella di David, il tatuaggio. Sembra il simbolo della Dharma Initiative di Lost.
Una voce dietro di me.
«Demasiada cerveza, guero?»
Guero vuol dire biondo.
Sono cazzi miei adesso.

Radical Shock. Unas storia sinistra. Capitolo otto. Que viva México!

Otto. Que viva México.

Con la capacità di cambiare idea e di adattarvi ad ambienti diversi, rompete gli indugi e puntate più in alto intravedendo nuovi sentieri. Più del presente è la visione del futuro a intrigarvi, mentre fate quadrato intorno a frequentazioni selettive. ADATTABILI.

Sono in Messico da un mese e non ho concluso niente. Mi trascino da una parte all’altra della città e SO che non serve a nulla.
Ho ingegnato un sistema di sussistenza che mi potrebbe permettere di dedicarmi alla scrittura e alla mia inchiesta.
Funziona così: affitto un appartamento di tre stanze. Luminoso. Con i muri colorati. Con molte piante grasse.
Mando un messaggio collettivo a tutti i miei contatti di facebook. «Si offre multiproprietà a Città del Messico, zona Coyoacan. Il costo è di 10 euro a testa al mese.»
I dieci euro al mese garantiscono una settimana a Città del Messico, vitto e alloggio e un po’ di scarrozzamento per i luoghi interessanti della città. Io faccio da housekeeper.
Voi mi garantite la sopravvivenza e io vi curo la casa mentre non ci siete.
Per ora hanno risposto in tre. Ma ancora non hanno mandato gli euri. Mi sa che non funzionerà.

Intanto il mio progetto di inchiesta è a un punto morto.
Vivo in casa di un’amica, in una stanza con il materasso per terra, le valigie piene di vestiti e un toro di cartapesta grande come un alano.
Quando uno parte per cercare fortuna io me lo immagino sempre con una valigia di cartone e una giacca e un cappello.
Io sono partito con un Mac, una macchina fotografica e un paio di Birkenstock infradito.
Non sono proprio credibile.
Sto cercando lavoro. Nel frattempo scrivo diari di ventenne su una rivista femminile patinata e vado avanti con la mia inchiesta.
Siccome non piove da qualche giorno è arrivata una comunicazione del condominio. Chiudono l’acqua per tutto il fine settimana, quindi si pregano i condomini di usare quella che rimane nelle cisterne con discrezione. E solo per il bagno.
Io e Silvia saremo costretti a fare la danza della pioggia affinché Tlaloc, il dio azteco della pioggia, ci dia ascolto e faccia la grazia.
Poi ho ricevuto un messaggio da Roma. La mia professoressa di lettere del liceo va in pensione. E ci sarà una cena con tutte le vecchie guardie della sezione D del liceo Mamiani di Roma. Un liceo obiettivamente radical chic.
In molti abbiamo risposto che ci troviamo lontano dall’Italia e che purtroppo non potremo partecipare alla celebrazione di una donna che è stata importante nelle nostre vite. Non sempre positivamente. Gli emigranti più fortunati sono all’estero per dei lavori meravigliosi, spediti dall’azienda a colonizzare il mercato con la creatività italiana. Molti di quelli che sono rimasti a Roma sono riusciti a integrarsi agevolmente nella macchinaschiacciasassiRadicalChic.
Alcuni di noi invece esternalizzano il loro fallimento all’estero, dandosi un tono da cittadini del mondo.
Il flash nel decennio dei novanta causato dall’invito a cena di vecchi amici mi distoglie dal mio obiettivo. Osservare questo paese. Succhiarne l’anima. E truffarne la gente. Sono un camaleonte con pessime intenzioni.
Oggi per strada c’era un uomo che mi ha ricordato tutto questo. Mi ha riportato coi piedi per terra e ha risvegliato in me il fuoco rivoluzionario. Era un vecchio vestito con gli abiti e il cappello della Revolución di Villa e Zapata. Con tanto di cappello. Chiedeva l’elemosina su Avenida Francisco I. Madero.
Siamo in una botte di ferro.
Di pioggia non si vede una goccia. Tlaloc ha altro a cui pensare. O non ha gradito la nostra danza.

Ho visitato dieci negozi che fanno capo al Percorso per un’Esistenza Migliore in varie zone della città.
Sono negozi che vendono fiori di Bach, libri sui fiori di Bach e biografie del dottor Bach. Ci sono tutti i testi sacri dell’organizzazione. Le commesse sono tutte molto gentili e pronte a spiegarmi quanto sia utile il ricorso a questi piccoli fiori miracolosi, da cui si ricavano oli ed essenze.
Se voglio posso sottopormi ad una prima visita gratuita per equilibrare la mia rabbia, o la mia depressione, o la mia gelosia.
Ci sono anche corsi che ti insegnano ad utilizzare l’energia del cosmo. Sono certificati dal Percorso per un’Esistenza Migliore e dal centro di ricerca che ha sede a Roma.
Anche le visite nei centri di applicazione energetica sono gratuite. Non sostituiscono la medicina tradizionale, ma sono piuttosto un supporto a quest’ultima. Così dice Lupita. E devo ammettere che riesce a essere alquanto convincente.
Nessuna delle commesse dei centri Percorso per un’Esistenza Migliore mi sembra un criminale. Vengo sempre accolto con cordialità e professionalità. È un buco nell’acqua.

«Come è possibile che non trovi un cazzo? è un mese che stai là!»
Giorgio sembra più brutto in videoconferenza.
Il grandangolo della webcam gli deforma la faccia e lo fa assomigliare a un personaggio dei racconti di Lovecraft.
«Giù, che ti devo dire? Qua è tutto normale. Ogni sede di Percorso per un’Esistenza Migliore è un centro benessere new age. La gente mi sorride, fanno i loro discorsi assurdi sulla salute, sull’energia e sulla guarigione con l’imposizione delle mani. Non hanno niente da nascondere e io giro a vuoto. Ne ho visti dieci e sono tutti a posto. Mi sa che ho sbagliato qualcosa.»
«Stai nella merda direi.»
«È un modo per dirlo…»
«Io quelli di Mondo Oggi li posso mettere in pausa, ma non all’infinito. Se non gli proponi il reportage passano ad altro. E tu ti ritrovi col culo per terra.»
«Oh certo che è proprio un sollievo parlare con te, cazzo. Una vera iniezione di ottimismo.»
«Sai che io non so mentire.»
«Vaffanculo, almeno taci.»

***

Il mio primo incontro con Fernando avviene al mercato di Tepito. Me lo presenta Serapio. È un suo “conoscente”.
Fernando è piccoletto, smilzo, potrebbe avere meno di quarant’anni. Tipo “fascio i nervi”. Gel in testa, pantaloni gessati, camicia viola/nero/cangiante. Scarpe lucide.
Fernando dice di fare l’imprenditore. Un imprenditore con una cicatrice che gli disegna una lunga lacrima sulla guancia sinistra. Sorride spesso. La sua bocca sorride spesso. Gli occhi invece non sorridono mai. L’esatto contrario di Tintan, il suo “accompagnatore”. Tintan non sorride mai, ma i suoi occhi sono costantemente sorridenti. Ma anche un po’ tristi.
Tintan si chiama così perché somiglia a un famosissimo attore comico e cantante messicano degli anni ’50.
In realtà si chiama Germán, ma nessuno lo chiama col suo vero nome da anni.
Un metro e novanta. Baffi neri, jeans, maglietta e gilet di pelle nera. Guanti senza dita, neri.
È la guardia del corpo di Fernando. Fernando non fa un passo senza di lui.
Tepito è un posto strano. È un mercato di ambulanti. È enorme. Interi isolati pieni di folla tutti i giorni. I banchi sono per strada e si vende e si compra di tutto.
«Qui puoi comprare tutto, tranne la dignità. Quella o ce l’hai o non ce l’hai.» esordisce Fernando.
Si vende e si compra di tutto tranne la dignità.
Siamo qui perché Serapio ha non ho capito che affare da sbrigare con Fernando. E ora lui, sapendo che sono un giornalista italiano, ha insistito per farci fare un giro panoramico del suo regno.
Il suo regno è un mercato degli ambulanti nel centro della città. Un mercato che si estende per venti isolati. Una città di ambulanti nella città. Con giri di affari di milioni di dollari l’anno.
«Io sono cresciuto per strada. Ho passato pochissimo tempo dentro una casa in vita mia. A quattordici anni ho deciso che dovevo essere un capo. E ho cominciato a combattere per il mio territorio. Mi sono guadagnato il rispetto con il coltello.»
«E quanto ci hai messo a diventare capo?»
«Quattro anni. Dopo quattro anni una fettina di Tepito era mia. Bisogna avere costanza. E credere nel proprio progetto. Bisogna fare un passo alla volta.»
«Parole sante!»
«Poi mi hanno regalato un libro. L’unico libro che ho letto. È la mia bibbia.»
«E che libro è?» Ti prego, non dirmi che è la Vera Via…
«Il Padrino. Lo conosci?»
«Cazzo, sì!»
«L’ho letto e riletto. È un manuale perfetto. Io sono anni che cerco di essere come Vito Corleone.»
Sto passeggiando per un mercato infinito nel centro popolare di Città del Messico con un boss mafioso che si ispira a Vito Corleone e con il suo gorilla/cantante.
Ci fermiamo a mangiare qualcosa. Faccio per pagare e la signora che fa i tacos, con la sua retina sui capelli e il grembiule azzurro mi ferma immediatamente. Io sto con Fernando e quindi non pago. È tutto offerto dalla casa.
Mentre comincio a mettere la salsa verde sulla mia colazione con il cucchiaino di legno, a venti metri da me sento dei tafferugli. Mi giro. Tintan si materializza tra me e Fernando. Stanno rapinando un turista con una pistola. Sono le undici di mattina e il mercato è pieno di gente e un ragazzino che non avrà più di diciassette anni punta un ferro in faccia a un turista a occhio e croce tedesco.
Il rapinatore gli porta via portafogli e macchina fotografica e sparisce tra la folla. C’è un po’ di confusione ma i miei nuovi amici non si scompongono minimamente. L’azione dura meno di due minuti. Il turista è sconvolto e cerca di farsi aiutare da qualcuno ma è evidente che non ha alcuna speranza, soprattutto se continua a vestirsi con quella Lacoste a maniche lunghe color malva e quei pantaloncini beige. Semplicemente non doveva essere qui. Non doveva avere con sé tanti soldi e non doveva portare al collo una macchina fotografica.
Ha sbagliato lui.
Tintan mi guarda serio. Fernando sorride.
«Tu la macchinetta te la puoi portare. Finché stai con me o con Tintan puoi andare in giro con le banconote appese addosso e nessuno ti darà fastidio.» Ho un brivido che mi parte dalla base della nuca. E non è di piacere.
«Ah, bene! Come una statua della madonna.» Rispondo. Ora sono proprio sollevato, cazzo!
Fernando e Tintan rimangono perplessi per qualche secondo. Mi guardano fisso. Poi scoppiano a ridere. Rido anche io. Che cazzo mi rido?
So’ dovuto venirci in Messico per diventare amico di un criminale!
La nostra passeggiata continua. Solo che ora mi accorgo che Serapio da un pezzo non è più con noi.
Meno male che sono in buona compagnia.

***

Raggiungo a piedi Serapio alla redazione della Jornada, in Avenida Cuauhtémoc 1236, nella centrale Colonia Santa Cruz.
Lui scende con la solita calma. Lo sguardo è beffardo e ha una luce strana negli occhi. Non capisco mai se mi prende in giro o no. Ci incamminiamo verso la colonia Juárez.
«Stasera ti porto in un posto speciale, hermano.»
Sorride nella sua faccia da cane irresistibile.
Il posto speciale si chiama Catedral de la Quebradita.
Pavimento di legno coperto di segatura, uomini vestiti da rancheros con camicie bianche, stivali di coccodrillo e cappello da cowboy. Si balla la quebradita, un ballo del nord. Molto acrobatico. La donna viene acchiappata dall’uomo dalla cintura appena sopra il culo. L’altra mano tiene la mano. A quel punto la donna diventa una molla che l’uomo fa saltare in tutti i modi che la mente umana riesce a immaginare. Sopra la testa, sotto le gambe, intorno al corpo. Le ragazze sono dei manichini dinoccolati.
Ordiniamo della birra e ce ne portano un secchio pieno.
Le regole per ballare: si possono invitare le donne altrui chiedendo il permesso all’accompagnatore. Se l’accompagnatore è d’accordo si balla. Se non è d’accordo si fa a botte.
Più si beve più è facile fare a botte. Un ambiente divertente per passare una serata in allegria. Soprattutto se non si va accompagnati da una donna. In questo caso crollano drasticamente le possibilità di scatenare una rissa. Rimangono alte le probabilità di venire coinvolti in una rissa altrui.
Al terzo secchio di birra la mia faccia è un ghigno. Serapio non sembra particolarmente ubriaco. Non c’è nessuna rissa in vista.
Decidiamo che non è serata. Sto posto speciale ci ha un po’ deluso. Cambiamo locale.
Il prossimo si chiama Route 66. Un bar dove suonano un buon blues nella Condesa. Serapio è un cliente abituale. Tutti lo salutano e lo trattano con rispetto.
Il mio amico è uno che vive la notte, ma è pur sempre un editorialista importante della Jornada.
Mi accomodo sullo sgabello.
«Forte Fernando… dove l’hai beccato uno così?» chiedo a Serapio.
Sorride per un attimo distratto. «Hehe. Non è male eh? A molti potrebbe sembrare un po’ sopra le righe. Molti giornalisti patinati non sanno nemmeno dove trovarlo uno così. Ma devi capire che in questo mestiere è importante conoscere tutti. Poter parlare con tutti.»
«Certo. Ne sono convinto. Però devi ammettere che Fernando è un po’ inquietante…»
«Fernando è un volpone. Gli ambulanti a Città del Messico sono una potenza economica e politica. È fondamentale saperci avere a che fare. I suoi modi e il suo aspetto però non ti devono ingannare. È capace di cose terribili se vuole. E quindi è meglio rimanere in buoni rapporti.»
«Non ho dubbi. Spero solo di non litigarci mai.»
«Lo spero anch’io per te. È uno irascibile.»
Quando parlo con Serapio mi sento sempre un po’ a disagio. Ti guarda sempre come se quello che dici fosse estremamente serio. O anche estremamente stupido. Ecco la sensazione è che questi due pensieri gli passino per la testa contemporaneamente.
Ma ora che lo conosco un po’ credo che il vero legame che ci unisce è il nostro rapporto con le donne.
Da giovane Serapio ha intervistato García Márquez, e quando gli è capitata questa occasione ha invitato quella che era la sua ragazza del momento.
Voleva fare colpo su di lei. La prima cosa che gli era venuta in mente era portare la sua donna all’intervista. Farle conoscere il Gabo. Farsi bello agli occhi di lei.
È esattamente lo stesso approccio che ho io.
L’altro tipo di uomini è quello che avrebbe cercato di farsi bello con il Gabo per ottenere qualche beneficio personale. Magari lavorativo.
Invece quelli come noi no. E poi ci ritroviamo insieme in un locale a bere J&B.
E allora ascolto gli aneddoti e le sventure di Serapio. E guardo il suo sguardo illuminarsi quando parla di ognuno dei suoi amori impossibili.
E ogni amore è un brindisi.
Dopo un’ora di racconti di donne Serapio cambia argomento all’improvviso.
«Senti, ti ho portato qui perché il locale è bello, ma anche per farti incontrare una persona. Credo che abbia qualcosa da raccontarti. Dovrebbe arrivare a momenti.»
Un po’ è l’alcol. Un po’ è il torpore che mi ha sopraffatto da qualche tempo. Ma ci metto un po’ a capire di cosa sta parlando Serapio.
«L’inchiesta su Percorso per un’Esistenza Migliore!!»
«Bravo. Urla di più che così ci togliamo il pensiero e rendiamo subito la cosa di dominio pubblico.»
Mi guardo un attimo intorno imbarazzato.
«Ma che dici? Ho girato per un mese in tutti i loro centri. Sono puliti. Non ho trovato niente di niente.»
«Sono puliti o molto bravi a nascondere la sporcizia.»
«Va bene. Sono lucido. Spara. Che hai scoperto?»
«In realtà non ho scoperto nulla, ma mi è capitato di incontrare una persona che forse può darti delle dritte giuste. E questa persona dovrebbe arrivare da un momento all’altro.»
Ordiniamo da bere. Serapio si mette a provarci con un’argentina dagli occhi verdi seduta accanto a noi. È molto bella ed è da sola.
Dopo un’ora scarsa si avvicina al bancone un tizio che sembra giapponese. L’argentina dagli occhi verdi è andata via da un pezzo. Da sola.
Serapio è chino sul bicchiere di J&B come se pregasse e io sono concentratissimo su un bicchiere di mezcal bianco. Il mezcal è un distillato di agave molto raffinato. Molto più raffinato del tequila. Si produce principalmente nella zona di Oaxaca ed è famoso perché in alcuni casi si mette un verme dell’agave da cui è tratto. Che in realtà poi non si tratta proprio di un verme ma di una larva di coleottero, che non aggiunge alcun sapore al distillato, ma è buona da mangiare per chi riesce a finire la bottiglia e anche un po’ esotica.
Il tizio giapponese ha la faccia seria.
Occhiali rettangolari Calvin Klein su un viso rotondo, paffuto. Camicia aperta sul petto. Fisico tracagnotto e compatto.
Mi si avvicina e in perfetto castigliano/messicano mi rivolge la parola, sedendosi sullo sgabello a fianco al mio.
«È occupato questo sgabello?»
«Penso di no.»
«Allora mi siedo.»
«Prego.»
«Vedo che il nostro amico qui è in preghiera…» dice indicando Serapio.
In effetti con la faccia tra le mani, il bicchiere sotto al viso, pieno per metà, immobile sul trespolo, Serapio sembra un monaco zen durante i suoi esercizi di meditazione.
Il giapponese ordina una michelada con birra Victoria. Il cameriere gliela prepara subito.
«Se ti stai chiedendo perché sembro asiatico il motivo è che sono giapponese-messicano.» esordisce il mio compagno di bevuta «Che è una specie di contraddizione in termini, visto che praticamente non ci sono due popoli più diversi l’uno dall’altro come quello giapponese e quello messicano. Almeno secondo me.»
«Forte.»
«E grazie a questo sono riuscito a sviluppare delle caratteristiche diverse dai giapponesi e dai messicani.»
«È molto interessante. Anche se non me lo stavo chiedendo…» Non capisco dove voglia arrivare ma mi sta dando un po’ fastidio il suo modo. Poi ora sorride. E ha un ghigno in faccia che non mi piace per niente.
«Quando sono in Giappone non mi sento giapponese. La gente si accorge subito che non sono di là, anche se i miei tratti somatici sono uguali ai loro. Se ne accorgono da come cammino. Cammino come un messicano. E sto con gli occhi aperti.»
Mi sta proprio stancando questo. «Se potessi arrivare al punto…»
Lui continua come se non avessi proprio aperto bocca. «Invece un giapponese in Messico. Te lo immagini un giapponese in Messico? Nella metro? Come deve essere sconvolto. I giapponesi quasi non concepiscono l’idea di gesti antisociali, tipo rubare un portafogli, o rapinare qualcuno. Te li immagini quando arrivano da Tokyo, enorme come il D.F. ma completamente diversa. Arrivano nel Monstruo e devono sentirsi proprio atterriti.»
Serapio non si muove dalla sua posizione. È una statua di sale. Il nippomessicano invece è vispo. Adesso ride alle sue stesse battute. I capelli coperti di gel come va di moda qui. Indossa dei vestiti costosi ora che ci faccio caso. Non è proprio la prima cosa che guardo.
«Mi puoi dire cosa vuoi da me? Chi sei?» sbotto esasperato dai discorsi etnoantropologici sulle grandi città e le abitudini dei popoli del mondo.
Il mio nuovo amico mi guarda perplesso. Poi si apre di nuovo in un sorriso.
«Sono Akira, il tuo informatore. Mi ha detto Serapio che stavi cercando qualcuno che ti aiutasse a trovare un’entrata per la tua inchiesta. Beh, sono il tuo mastro di chiavi!»
Sono rallentato. Non realizzo subito. Non riesce proprio a convincermi questo nippomessicano sorridente e chiacchierone. Mi aspettavo che un informatore fosse una persona più sobria, più misteriosa, più… cazzo, non lo so, ma non Così!
«E cosa ti ha detto esattamente Serapio?»
«Che stavi cercando qualcuno che ti parlasse in modo più approfondito delle attività del Percorso per un’Esistenza Migliore. Perché pare che da solo tu non riesca a tirare fuori un ragno dal buco.»
«Beh, a parte che non è proprio così… comunque stavo facendo dei passi avanti anche senza il tuo aiuto. Anzi ero arrivato a un punto di svolta.»
«Mi fa molto piacere. Quindi non hai bisogno di me.»
«No. Infatti. Non ho bisogno di te.» la solita arroganza. Piuttosto che ammettere che ho torto mi faccio sfuggire l’unico gancio che ho per fare il mio cazzo di lavoro.
Akira beve con calma la sua michelada.
Una michelada è una bevanda molto rinfrescante che si fa in Messico. È un’elaborazione della birra. Si prende una birra. Si mette in un bicchiere dove c’è del succo di limone, sale e chile in polvere. Sul bordo del bicchiere limone e sale. Le prime volte fa vomitare. Poi ci si abitua ed è buonissima.
Ora Akira sorride silenzioso guardandosi allo specchio dall’altra parte del bancone, dietro le bottiglie di vodka e whisky.
Mi urta doverlo ammettere ma sta aspettando che io torni sui miei passi. Cosa che farò. Ovviamente.
«Va bene. Ammettiamo che quello che hai da dirmi possa interessarmi. Chiaro, non perché non ho niente in mano, ma per completezza dell’informazione. Tu cosa vuoi in cambio?»
Akira si fa serio. Si gira verso di me. Lo sguardo perde l’ironia. Mi fissa.
«Io non voglio niente. Il mio interesse è che si parli nel modo giusto degli affari di Percorso per un’Esistenza Migliore in Messico, e dei suoi rapporti con altre ‘organizzazioni’. Se tu lo farai io sarò contento. Ho un conto in sospeso con questa gente. Mi hanno portato via molti anni di vita. Allora? Che ne pensi? Ti può interessare la mia offerta?»
Sto per rispondere, quando riemerge Serapio.
Ho perso il conto dei J&B (dei jotabé, come li chiama lui alla messicana) che si è fatto ma non sembra per nulla alterato dall’alcol. Anzi sembra molto lucido.
«Forse dovreste parlare con calma. Forse da un’altra parte. Forse con un registratore e forse da sobri. Che dici Samuele?»
Serapio mi spiazza. Ho finalmente trovato qualcuno che mi possa aiutare a fare chiarezza e me ne sto qua mezzo ubriaco in un locale della Condesa a fare la figura del novellino. Quale evidentemente sono.
Akira resta in silenzio.
«Hai ragione Serapio. Credo che sia il caso di fare questa conversazione in un altro momento.»

Fuori dal Route 66 c’è un taxi che aspetta. Saliamo a bordo solo io e Serapio. Akira se ne va a piedi.
Accanto all’ingresso c’è un cane morto.

***

Ho un appuntamento con Akira, a casa sua, nella zona di Tlalpan, a sud della città. Qui vicino c’è uno dei negozi di fiori di Bach che fanno capo a PEM. Ci sono stato pochi giorni fa.

«Ok Akira. Ho acceso il registratore… ORA. Puoi spiegarmi di nuovo come è strutturata nello specifico l’organizzazione Percorso per un’Esistenza Migliore?»
L’appartamento è grande e luminoso. Occupa un intero pianerottolo di un edificio coloniale. L’arredamento è un mix di architettura messicana e design giapponese.
Fa un effetto straniante ma non sgradevole.
Sediamo su un divano comodo color pistacchio.
Akira fa l’architetto. Mi offre da bere un succo di tamarindo. È imbevibile.
«Vediamo. Ho conosciuto il maestro in un momento tremendo della mia vita. Ero molto depresso. Poi è arrivato A. con la sua organizzazione. Mi ha salvato la vita.»
Io guardo a disagio fuori dalla finestra
«Tu vuoi sapere come è strutturata. Il Percorso per un’Esistenza Migliore è un’organizzazione di tipo piramidale.
Gli ordini sono trasmessi dal Maestro direttamente a Sagramolo e lui, in genere via mail, diffonde i messaggi ai responsabili dei gruppi nazionali, che a loro volta li fanno arrivare ai responsabili di gruppi regionali affinché tutti gli adepti possano avere accesso agli ordini-suggerimenti.
In teoria tutti gli adepti potrebbero avere accesso al Maestro, ma si raccomanda di seguire la comunicazione stabilita attraverso la piramide. Solo i capi dei gruppi nazionali, generalmente vecchi discepoli di A., possono e devono comunicare quotidianamente con il Maestro.
I responsabili dei gruppi regionali hanno il dovere di fare rapporto sulla situazione del loro gruppo.»
Akira si muove sulla sedia agitato, cercando di non emozionarsi troppo. Vuole rendere il suo racconto il più chiaro possibile.
Nella sua testa un mondo di emozioni. Le esprime con il linguaggio del corpo.
«Tu facevi parte di uno di questi gruppi?»
«Sì. Io sono stato per cinque anni nell’organizzazione PEM.»
«E da quanto ne sei uscito?»
«Da quasi due anni.»
Il nippomessicano oggi ha un atteggiamento diverso dall’altra sera. È più serio, meno compagnone. Parlare di queste cose lo emoziona ancora.
«Devi capire che per anni il Percorso è stato la mia vita. La cosa più importante. Non è stato facile uscirne. Anzi, è stato molto doloroso.»
«Immagino.»
Non è vero. Non immagino minimamente cosa voglia dire stare per anni dentro un’istituzione totale come questa. Ma sento la necessità di adottare un atteggiamento empatico. Lo faccio per avere le informazioni che mi servono.
Akira non mi fa pena. Non riesce a farmi pena. Fondamentalmente perché in me c’è uno strisciante senso di disgusto per chi si fa abbindolare.
«E come è fatta questa piramide?»
«La cima è composta da A. e da suo figlio Carlo. Carlo sembra un banchiere, ora, visto da fuori. Poi c’è l’altro figlio, Aleph. Lui è meramente decorativo. Intorno a questo nucleo ci sono Claudia Sabelli, l’assistente, compagna e guardia del corpo di A., Sagramolo, che è il responsabile dei gruppi del continente americano e Sante Carocci, il responsabile dell’organizzazione dei gruppi italiani. Un poco al di fuori del nucleo ci sono persone come Marco Santello, che dà il prestigio scientifico al Percorso per un’Esistenza Migliore e qualche altro discepolo danaroso o con un’interessante proiezione del futuro, ma la loro funzione è amministrativa.»
Gente danarosa. Organizzazione piramidale. Mando giù un sorso di tamarindo. È veramente una merda.
Quello che mi incuriosisce è come vengono reclutati gli adepti.
Penso.
«E quindi come vengono reclutati gli adepti?» sembro Gigi Marzullo. Che pena.
«Ah, ci sono diversi modi di reclutare i futuri adepti. Il principale è attraverso quello che gli economisti chiamano il mercato naturale. Ad esempio io dovevo diffondere il libro La Vera Via ad amici, familiari, o invitarli a qualche conferenza o esercizio di gruppo.
Poi quando il mercato naturale si esaurisce il canale più utilizzato sono le conferenze su temi spirituali di moda (come il codice da vinci, il feng shui, il tai chi, lo yoga, ecc.) anche se non hanno nulla a che vedere con l’ideologia del PEM.»
Non riesco a rimanere concentrato. Dalla strada arriva il rumore di un camion che al posto del clacson ha la musica della lambada. Che suona ininterrottamente. Quanto mi piaceva la lambada. Era un ballo onesto.
Akira mi sta raccontando dei momenti importanti e dolorosi della sua vita e io riesco a pensare solo a Kaoma che balla la lambada.
«… E poi ci sono i corsi di IRECA (una brutta copia del Reiki giapponese, salvo il quinto livello chiamato familiarmente lavaggio del cervello), che si strutturano su cinque livelli e attraverso i quali si familiarizza la gente all’ideologia della Vera Via, e con gli Amici della Vera Via, per fargli vedere in maniera sottile, come se non gli si facesse vedere, che dietro ai corsi c’è un gruppo esoterico segreto e un maestro che canalizza l’energia ed è in contatto con la Fonte di tutta la conoscenza…»
Guardo Akira negli occhi. Sono attento.
Hai catturato la mia attenzione finalmente!
Questo modo di far vedere come per caso, senza farlo apposta, è la tecnica che aveva adottato Paolo quando mi parlava della sua setta. Mi vengono i brividi sul collo.
Akira si accende una Camel e sta un bel pezzo in silenzio. Mi guarda. Poi riprende senza che io gli chieda nulla.
«Anche se non c’è un profilo sociale escluso per i discepoli, non sono ammessi drogati né gente con problemi di salute gravi e soprattutto gente che non abbia i 120 euro al mese, la quota che dà la possibilità di essere un cercatore. Diciamo che il profilo del discepolo è giovane, di livello socioeconomico medio-alto, di aspetto fisico sano, vestiti di buona qualità e personalità magnetica e positiva interessata alla crescita personale. Cioè qualcuno che serva da specchietto per le allodole per altre allodole. C’è una sorta di repulsione nei confronti degli intellettuali e di quelli che fanno molte domande, che pensano troppo e “bloccano l’energia”, perché, come insegna il Maestro, “uno è quando non pensa”.
Per questo motivo è necessaria una buona dose di ignoranza e ingenuità e mancanza di autostima per continuare il cammino nonostante tutta la merda che vedi e che ovviamente non puoi giudicare perché se lo fai smetti di essere impeccabile.»
Parla come un divulgatore scientifico. E io sono già stanco di ascoltarlo. Non riesco a mantenere l’attenzione fissa su di lui.
So che è un’occasione importante, ma c’è qualcosa nel suo racconto che mi impedisce di concentrarmi.
«Sai, era molto tempo che volevo raccontare a qualcuno tutta questa storia. È molto liberatorio.»
Sono il suo confessore. Lui si sta liberando. Io mi limito a raccogliere informazioni sul Percorso per un’Esistenza Migliore. Forse è questo squilibrio che mi distrae.
E comunque mi piace sempre meno. Sempre che mi sia mai piaciuto anche solo un po’.

Leggo i miei appunti.
Il reclutamento dell’adepto è la sua fidelizzazione. Si ottiene attraverso minacce più o meno sottili. Al di fuori della Vera Via di A. non c’è nulla e chi se ne va perde la sua unica opportunità. È morto spiritualmente e condannato all’eterno tormento del mondo.
Cazzo.
«Dopo un paio di anni nella Vera Via e aver fatto certi esercizi personali, Aleph ti consegna una parola in arabo chiamata “il segreto”. Mi ricordo bene quel giorno.» Akira suda copiosamente. Si passa le mani tra i capelli ingelatinati. Le mani sudate. Gli occhi si posano sulla ciotola di caramelle sul tavolino di vetro. Gli occhi si posano sulla cima dell’albero fuori dalla finestra. Gli occhi si posano fuori campo. In un punto non identificato del muro dietro la mia testa, in alto a destra.
«È stato un momento di passaggio importante nel mio cammino di non ritorno. E anche una grande minaccia, perché se ti allontani dalla Vera Via dopo che ti hanno dato il segreto “che Dio ti trovi confessato, perché sei peggio che morto”.»
Perfino l’inferno dei cristiani sembra un villaggio Valtour rispetto a ciò che ti può accadere se te ne vai una volta che ti è stato dato il segreto.
Cerco di mantenere l’attenzione focalizzata sul fatto che chi entra in questa setta tragga un beneficio. Ma non mi riesce proprio di immaginare un beneficio basato su queste minacce.
A. è l’unico Maestro Vero che esiste nel mondo in questo momento, e La Vera Via è l’unico Cammino reale.
Uno è quando non pensa, il Maestro è infallibile, mi ricordo dalle mie letture. Esso è infallibile. E fuori del Cammino sei morto.

Uno è quando non pensa.
Il postulato di base si riassume nella consegna “Luce, attenzione, direzione, intenzione”.
Poi c’è l’impeccabilità. In poche parole. Non leggere, non praticare nulla che non provenga dal Percorso per un’Esistenza Migliore, poiché questo ti disallineerebbe. Ti disallineerebbe. Questa parola è stupenda. Akira la pronuncia con dolcezza.
Uno è quando non pensa.
Oh, per un discepolo è importante che guardi dall’altra parte o faccia come se nulla fosse di fronte a eventuali azioni illecite di chiunque dei suoi compagni di cammino, ma soprattutto dei suoi superiori nella piramide.
Sì, perché i membri anziani e i vertici mettono a punto varie truffe e crimini a diversi livelli di illegalità.
Tra i reati più degni di nota: il furto di macchinari, l’intimidazione, il ricatto e la truffa vera e propria, stile Totò che vende la Fontana di Trevi.
Uno è quando non pensa.
Akira è in un delirio logorroico. Io sono confuso. Il succo di tamarindo è acido. Non c’è altro da bere in questa casa?
«Il successo personale è la meta verso cui si orienta la consegna “Luce, attenzione, direzione, intenzione”, e la prova dell’impeccabilità non è altro che la prosperità economica…»
Sta cosa mi ricorda molto Max Weber e la tradizione calvinista: la ricchezza è il segno che Dio è con te, così più ricchezza accumuli, più sei vicino a Dio.
Questa è la chiave del Percorso per un’Esistenza Migliore. La chiave di lettura di tutto è il denaro. Più denaro hai, più stai evolvendo. E più denaro dai al maestro e più ti avvicini alla Verità.
Sono un po’ deluso dalla banalità delle mie conclusioni. Ma la vita in fondo non è un continuo susseguirsi di delusioni e di piccoli successi?
Uno è quando non pensa.
Bisogna guadagnare denaro in qualsiasi modo, più è meglio è, e non importa come, poiché il “come” riguarda l’ego. Sempre riguarda l’ego.
Uno è quando non pensa.
Lo dice il Maestro.
Akira non è più in sé. Questa intervista lo sta devastando.
Ora ride. Ora digrigna i denti.
È zuppo di sudore.
Pausa.
«Senti, magari ora ci prendiamo una pausa, no?» propongo.
«Forse sì. Forse è meglio.»
Va al bagno a sciacquarsi. Ascolto il rumore dell’acqua che scorre nel lavandino. Sento passare gli aerei sopra le nostre teste.
Sono troppe informazioni. Informazioni su una setta che ha sempre meno di mistico. E sempre più di business. E il business mi ha sempre annoiato a morte. Ma questi fanno paura.
«Io pagavo l’equivalente di 120 euro in contanti in nero ogni mese per seguire La Vera Via.» Mi strilla Akira dal bagno.
«Il Percorso per un’Esistenza Migliore è una società con varie società satellite, come Sanitelectronics e Health For Life, che hanno il compito di fare da distributori dei prodotti per la salute, come il guaranà, maca, rosa mosqueta, coenzima Q10, ecc., e attrezzi per smettere di fumare. Poi ci sono i corsi pubblici di Ireca, Perfect Shape, ecc.»
Ascolto.
Ogni guadagno o corso che si faccia in una riunione o che utilizzi il simbolo di Percorso per un’Esistenza Migliore deve dare un tot per cento del ricavato per finanziare il progetto qualità della vita.
È come un franchising.

Ogni anno ci si vede tutti a Cancún. C’è il raduno mondiale degli adepti. I soggiorni a Cancún servono a fare la cresta sui prezzi dell’hotel nel quale si organizza il raduno.
Un esempio: 8 giorni, pensione completa, costa 1800/2000 euro.
Moltiplicando per 400 discepoli che assistono all’evento.
Un bel po’ di cresta da grattare.

Akira ora è spossato. Lo guardo tornare dal bagno. Vedo un atleta che ha appena corso la maratona. Sembra dimagrito, si è asciugato.
«Devi considerare la potenza suggestiva di A. Lui è il “Maestro contemporaneo” operante in Occidente, che ha il compito di aiutare l’uomo a svilupparsi al fine di partecipare al processo evolutivo del pianeta in maniera armonica rispetto all’universo.
Il Maestro è uno di coloro che operano generalmente nei momenti di particolare crisi e necessità per l’umanità, rimanendo sconosciuti.»
Sembra di sentire parlare un libro stampato. Sembra di sentire La Vera Via. Un audiolibro.
La versione della storia che spaccia il Maestro è che da quando l’uomo è apparso sulla terra è cominciato ciò che viene chiamato “Il Lavoro”, che fa parte di un “Disegno” che prevede l’evoluzione del nostro universo a cui l’uomo stesso, grazie ad alcuni Maestri che hanno la funzione di aiutarlo, deve partecipare.
Adesso “Il Lavoro” di A. è in una “Nuova fase”, che segue quella in cui ha viaggiato per tanti anni per tutto il mondo, trasmettendo l’insegnamento.
La “Nuova Fase” può essere vista come un UFO, che ha la missione di portare l’umanità verso un futuro più evoluto perché “Questo viaggio è ideato, desiderato, protetto e teleguidato dall’Essere Unico che ha in Sé tutta la conoscenza dell’Universo e dei Mondi”.
La mia conclusione personale è che per fare grossi affari in questo paese non si può prescindere dalla criminalità organizzata. Dal narco o da sue diramazioni.
È impossibile.
Uno è quando non pensa.
Proprio quello che pensavo. Ora cosa faccio?
Le conseguenze delle proprie azioni. VII.

Devo uscire di qui. Devo prendere aria. Devo pensare. Questa stanza è opprimente. Voglio vedere gente.
Questa città è piena di gente. Di facce, persone, vite.
Non posso stare chiuso qua dentro a guardare il soffitto.
Ho paura. Ho paura? Mi fa paura l’idea.
Che qualcuno possa cancellare la propria individualità, la propria volontà a tal punto.
Che qualcuno possa piegare la mia volontà e costringermi a fare ciò che non voglio. Ciò che non vorrei. Ciò che non ha senso.
Non sono sorpreso teoricamente. Di queste cose se ne sentono.
Sono abituato a sentire parlare di estremisti religiosi che si imbottiscono di tritolo e si fanno brillare in un autobus a Haifa, per esempio.
È una vita che ci bombardano la testa di terrore islamico.
Non è una sorpresa.
È sorprendente vederlo di persona, però.
È sorprendente guardare il mostro negli occhi. Fa paura il vuoto. Ti lascia senza parole, la naturalezza.
Vedere una persona che sembra come te. Che fa le stesse cose che fai tu, che si veste come te. Con cui puoi parlare di calcio, del tempo, di politica, di cinema.
Ma contrariamente a te, ricevuto un comando, semplicemente esegue.
Obbediente.
Sereno.
Non si fa domande. Perché ha già tutte le risposte.
Fa paura l’idea che si infila sotto la pelle che TU potresti essere così.
Terrorizzano i dati biografici. Potresti essere tu.
Potrei essere io, quello.
Non ci separa molto. Una casualità ha voluto che il Maestro lo abbia incontrato lui e non io.
Mi sconvolge il pensiero che possa essere io il prossimo.
Mi atterrisce l’eventualità che questa opzione MI RENDA FELICE.
Sono due giorni che ho paura.
E se l’infelice fossi io?
E se l’oppio della mente fosse la vera risposta?
E se i miei dubbi, la mia rabbia, il mio malessere, si potessero davvero curare così?
Se avessero ragione loro? Se la soluzione fosse una bella religione freelance?
Il soffitto non sa rispondermi. Il ragno che aspetta in un angoletto sopra la mia testa è due giorni che mi guarda. Se avesse la risposta me l’avrebbe data.
Vittorio ha l’aria di chi ne sa qualcosa. Ma esso fissa il vuoto e tace.
Devo uscire.
Salgo su un taxi rosso e oro parcheggiato proprio sotto casa mia. Sul cruscotto una nicchia con dei fiori a omaggiare la statuetta della Vergine di Guadalupe.
Dalla radio esce la voce da bambino del cantante dei Loony Tunes, gruppo portoricano di reggaeton, che canta Te he querido, te he llorado. Versione tamarra di una canzone d’amore disperato. Proprio quello che ci vuole.
Il tassista è giovane. Camicia giallognola, gilet di pelle. Sorriso caldo. Occhi tristi.
«Andiamo alla Condesa per favore. Libreria Fondo de Cultura Economica, su Avenida Tamaulipas.»
«Sì, señor.»
«E per favore, puoi alzare il volume della radio?»
Leggo il nome del tassista sul cartellino attaccato al parabrezza con una ventosa. Luis Escobedo Linares. È gentile. Per una volta. Alza il volume e mi guarda soddisfatto dallo specchietto retrovisore panoramico convesso.
La città sfreccia grigia fuori dal finestrino aperto.
Entra aria tiepida che sa di smog e asfalto. E tacos.
Mi appoggio allo schienale.
Qualcosa succederà.
Qualcuno mi darà una risposta.

Radical Shock. Una storia sinistra. Capitolo sette. Salida

Se avete progetti seri, è il momento di deciderne la sorte. Ma prima dovreste allentare l’angoscia per il futuro motivando la profondità e la ponderatezza delle vostre iniziative. E se l’amore rema contro, convincetelo con l’eterna seduzione della parola. PONDERATI.

«Pronto?»
«Ciao Antonella, come va?»
«Bene. Tu? Dov’eri sparito?»
«Mi ero un attimo chiuso. Sai questa storia con Ginevra. Ero in fase autocommiserazione. Ti devo dire una cosa. Ho deciso: io me ne vado in Messico.»
«Finalmente!»
«Come finalmente? E non mi chiedi nemmeno perché?»
«Ma lo so già perché, Samuele. Perché non hai più nulla qui, non hai un lavoro, la tua donna ti ha lasciato e ti senti in gabbia. Tesoro perché devi sempre farmi fare il grillo parlante?»
«Perché mi piace da morire quando mi dici quello che penso. E quando sai già, senza che te lo debba dire, quello che farò e perché.»
«Ci conosciamo da un bel po’ ormai. E per un sacco di tempo abbiamo lavato le mutande insieme… e poi anche tu mi conosci bene.»
«Comunque non ridere, ti sto cercando di dire una cosa drammatica e solenne, cazzo. Non posso buttare sempre tutto in caciara!»
«Ok, ok. Scusa scusa scusa. Dai ricomincia.»
«Allora, ti volevo dire questa cosa. Che ho preso una decisione irrevocabile. Ho deciso che devo partire per il Messico. Devo emigrare.»
«Mmm»

«Voglio fare un’inchiesta giornalistica sulle sette esoteriche. Su questo Percorso per un’Esistenza Migliore, che c’è anche lì. Giorgio mi dovrebbe procurare il contatto nella rivista con cui collabora, Mondo Oggi.
Ho capito che è tempo di nuovi inizi. In fondo è un bene che Ginevra mi abbia lasciato. Devo dirle grazie perché mi sta dando la possibilità di fare quello che voglio veramente. Mi devo dedicare al giornalismo. Tanto qui non ho nulla che mi trattenga.»
«Mi hai convinto. Ora però cerca di mantenere questa decisione il tempo necessario per consentirmi di farti il biglietto. Tanto lo so che se non ti ci metto io su quell’aereo te fai in tempo a innamorarti follemente della prossima della lista e siamo punto e a capo.»
«Farò del mio meglio ma non posso assicurarti niente.»

Ho appena deciso di emigrare. Sono anni che dico che lo farò. Oggi so che stavolta è andata. Sempre che Antonella mi metta su quell’aereo.
Decidere di emigrare a trent’anni in un paese come il Messico può sembrare l’ammissione di una sconfitta.
E in parte lo è. Meglio. È la presa d’atto che non sussistono più le condizioni per una serena sopravvivenza in patria.
La considerazione è abbastanza lineare. Non ho un lavoro, non ho una casa, non ho una donna, non ho un patrimonio, non ho dei figli che mi leghino a questo paese.
Con i pochi soldi che guadagno con articoli e traduzioni, a Roma a stento posso pagarmi le spese se occupo a scrocco una stanza nella casa dei miei genitori.
A Città del Messico ci pago affitto e cibo. E posso trovarmi un lavoro part time. E magari anche scrivere.
La logica è stringente.
Ormai questo discorso l’ho imparato a memoria e lo spiattello in faccia a tutti quelli che mi chiedono se sono pazzo ad andare a vivere in “un paese sudamericano del terzo mondo”.
A parte che una volta per tutte voglio spiegare che il Messico NON è un paese sudamericano, ma è NORD americano. Poi terzo mondo è una categoria che non condivido e per me è priva di significato.
Il fatto è che credo a tutto quello che dico, alle ragioni logiche e convincenti, ma poi quando sto da solo nella mia cameretta guardo in faccia la realtà. Ci sono altri motivi che mi spingono a lasciare questo continente morto per cacciarmi nella pancia del Monstruo.
Il Messico non l’ho scelto a caso. È il luogo dove tutti i reietti, i perdigiorno, i rivoluzionari senza rivoluzione, i perdenti, gli innamorati e i sognatori si sono rifugiati. Città del Messico ha sempre accolto tutti con amore e compassione. E in qualche modo, ognuno a suo modo, tutti quelli che hanno scelto il Distrito Federal, hanno trovato quello che cercavano. La pace interiore. La serenità. La rivoluzione perduta. I sogni.
Sono anni che cerco Città del Messico. Mi chiama.
Ogni fallimento che vivo fa crescere il mio desiderio di lasciarmi cullare nel ventre della Città. È un desiderio di fuga, certo. Ma non di fuga generica. È un desiderio di fuggire verso, non di fuggire da.
Non so se troverò quello che cerco, ma so che devo andare a vedere di persona.
Un altro motivo è che Ginevra mi ha lasciato in ginocchio. Cioè non che quando mi ha lasciato lo ha fatto inginocchiandosi per terra. Ha lasciato me in ginocchio. Faccio lo splendido ma Ginevra mi ha proprio spezzato le gambe. Ha frantumato desideri, ambizioni, sentimenti.
Non è stata la donna che ho amato di più. Quella era Lauréda.
Ma con Ginevra stavo finalmente costruendo. Con Ginevra avrei messo su famiglia. Ci avevo creduto. E nella mia nuova vita non ci deve essere più lei. I suoi amici. Il suo viso in televisione. Il suo mondo di bachelite.
Poi la storia della setta esoterica mi sta mangiando il cervello. Da quando ho saputo che in Messico PEM ha una delle sue sedi più grandi è come se si fosse chiuso un cerchio.
È come quando nei romanzi di Agatha Christie arrivi al punto, più o meno a tre quarti di libro, in cui hai sul piatto quasi tutti gli elementi e devi mettere a posto i pezzi insieme a Poirot o Miss. Marple, per arrivare alla soluzione finale. Ho davanti a me tutti indizi della mia vita che conducono inevitabilmente al Messico. Alla soluzione finale dell’enigma. Lo devo fare. Altrimenti IO MUOIO.
Ora devo sperare solo che la soluzione io la possa scoprire e accettare.

***

Una sera qualsiasi in una Panda rossa. Sotto casa di Giorgio. Sono tre quarti d’ora che parliamo. Mi sta guardando in faccia. Si ferma un attimo. Sguardo assorto. Poi serio. Poi sbotta.
«Comunque sai qual è la cosa più bella di tutte?»
«Nella vita? Scopare?»
«No… idiota. Del Messico.»
«Ah, no. Dimmela.»
«È il canto delle balene. Se ti capita vai in Baja California verso febbraio, quando arrivano a svernare e a partorire le balene dall’Alaska. Se arrivi al mar di Cortés in quel periodo con una tenda ti accampi sulla spiaggia. Il deserto alle spalle e di fronte mamme balene coi loro cuccioli che cantano! È quella la vera pace. Non c’è niente di più bello…»
«…»
«…»
«Ok Giorgio. Ora dovremmo baciarci?»
«Mortacci tua, NOO!!»
«Hai detto una frociata rara! Pareva una scena di un film con Vaporidis. Pensavo che mi volessi baciare…»
«Ok è una frociata. C’hai ragione. Però te lo dovevo dì. È troppo bello.»
«Non c’è niente di male a essere froci. Io ho sempre pensato che tu lo fossi… sei così sensibile…»
«Vaffanculo! Smettila. Non dirlo nemmeno per scherzo! Cristo che schifo! Vabbè buona notte.»

***

Facebook.

13:25Ginevra
vai a prendere il virus per le palle?
13:25Samuele
si
13:25Ginevra
bravo
13:25Samuele
ho fatto già il biglietto. vediamo se è così cazzuto come dicono…
secondo me è mezzo frocio
13:25Ginevra
vediamo
facile
13:27Samuele
stasera credo che non verrò al tuo spettacolo. non mi va di vederti così. sarà un bellissimo spettacolo ma credo che ne farò a meno. grazie per l’invito comunque. se per te va bene lo giro a Fausto. se poi ti va, prima che parto ci salutiamo come due cristiani.
13:28Ginevra
ho letto ieri l’ultimo articolo che hai scritto…
13:28Samuele
🙂
13:28Ginevra
se non l’hai ancora fatto non lo girare a Fausto il biglietto
in realtà era un biglietto inventato
non c’è posto quindi se non vieni tu lo cancello
13:29Samuele
ah
tipo che arrivavo e non era vero un cazzo
era una gag?
faceva ride…
13:29Ginevra
si era vero ma sono in crisi per i biglietti
ce ne sono -32 quindi se non vieni tu alleggerisco
13:30Samuele
mi fa piacere essere d’aiuto
13:30Ginevra
?
13:30Samuele
un motivo in più per non venire
13:31Ginevra
fai come ti pare
per me non aveva senso che tu non lo vedessi
non per me, per lo spettacolo che ti piacerebbe da morì
13:31Samuele
lo so che mi piacerebbe da morì
me lo hanno detto tutti quelli che ce so venuti al primo giro
ma credo che sia meglio così. Credo che non ha alcun senso che io venga.
13:32Ginevra
ok
13:32Samuele
comunque grazie. veramente. l’ho apprezzato molto
13:32Ginevra
ok
13:32Samuele
io parto il 22. se prima ti senti che hai voglia che ci salutiamo il mio numero lo sai. io non ti chiamo.
merda merda per stasera
13:33Ginevra
merda merda!
ti trasferisci?
13:34Samuele

13:34Ginevra
in bocca al lupo Sam.
13:35Samuele
il lupo sono io!
13:35Ginevra
:):)
Non la rivedrò più
(e sputerò sulle vostre tombe!)

***

Rinnovo del passaporto. Selezione accurata dei libri da portare con me (un po’ tipo quali sono i libri che ti porteresti su un’isola deserta…). Questa è dura. Delitto e castigo, Q, La convivialità, i racconti di Philip K. Dick, Ebano di Kapuscinski, Taccuino di un vecchio porco di Hank Bukowski e Cronache mediorientali di Robert Fisk. La mia borsa ora pesa già sette chili solo di carta. Un mucchio sparso di vestiti completa il bagaglio. Computer, macchina fotografica, registratore, quadernini vari, penne. Mutande.
Mia madre mi consegna commossa una latta da tre litri d’olio extra vergine della Sabina che produciamo noi, ogni anno, con fatica, sudore e tanta soddisfazione. È un momento solenne. Racchiude in sé tutto l’amore materno, la preoccupazione per la mia alimentazione sana.
«Chissà cosa mangerai in Messico, poveretto.»
«Mamma, in Messico si mangia benissimo.»
«Sarà… ma non hanno l’olio d’oliva!»
«Mamma, tu hai scoperto l’olio d’oliva negli anni settanta, quando sei venuta a Roma. A Venezia nel dopoguerra usavate il burro, l’olio è una cosa a voi sconosciuta…»
«Va bè, comunque questo è più buono. Te lo devi portare.»
«Certo mamma, grazie.»
Mi abbraccia.
Mia mamma è la mamma di tutti. È la donna che a 70 anni suonati si gira ogni volta che sente una voce di bambino chiamare mamma.
Il suo è l’abbraccio di mamma. Una delle cose da mettere in valigia. Del resto sono un maschio trentenne italiano. Non mi vergogno.
Mio padre è formale e impacciato come sempre quando si tratta di me. Non riesce a nascondere l’emozione che tenta di mascherare dietro a una solennità goffa. Ho imparato a volergli bene.
Mia sorella è divertita e fiduciosa. Anche se ci scanniamo a sangue da sempre, in fondo approva le mie scelte in silenzio. E mi para il culo. In silenzio.
«Molla quei gatti di merda e fai un salto in Messico se ti capita», le dico.
«Vediamo che dice l’oroscopo.»
«Che deve dire? Che è tempo di nuovi inizi!»

Il tiggì uno dice che il Ministero degli Esteri consiglia di non partire per il Messico a causa della violenta esplosione di “febbre suina”. Ad oggi si contano 103 morti (dei quali 21 riconducibili direttamente al virus mutante).
Il nostro inviato a Città del Messico mostra la città fantasma. Le autorità messicane hanno detto di non andare a lavoro. Di non andare allo stadio, a scuola, all’università. La Chiesa ha addirittura sospeso tutte le funzioni religiose a tempo indeterminato per paura dell’epidemia! La Chiesa cattolica!! Hai visto mai che un po’ di disintossicazione da Cristo gli fa bene ai messicani. Sta “febbre suina” è una benedizione.
Le strade di Città del Messico nelle immagini del cameraman della Rai sono deserte. Mi ricordano la scena iniziale di 28 giorni dopo di Danny Boyle.
Ovviamente l’unica volta che decido sul serio di partire, di mollare gli ormeggi, di lanciarmi verso nuove entusiasmanti esperienze, si scatena un’epidemia mortale tipo ebola.
Cazzo non succede mai niente in Messico! Proprio ora che sto facendo il biglietto??
È evidente che sono di fronte a un complotto ordito da forze oscure per impedire la mia partenza (c’entrerà qualcosa l’influsso della madre superiora/batman dell’autobus?). Non vi può essere altra spiegazione. Ma non mi faccio intimidire. Pensano che mi spaventi un po’ di mocciolo e di febbre? “Febbre suina”, non mi fai paura, ti sfonno quando me pare!
La cosa buona è che i biglietti ora costeranno pochissimo, perché tutti, terrorizzati dall’epidemia mortale non vorranno più andare in Messico e io volerò da solo pagando venti euro.
Ovviamente no. Il biglietto costa uguale a prima e quella dell’agenzia mi dice che è tutto pieno. Devo rinviare di qualche giorno.
Ma in che cazzo di paese siamo? Porca troia, il MINISTERO DEGLI ESTERI SCONSIGLIA DI VIAGGIARE IN MESSICO e tutti che fanno? Vanno in Messico? Ma allora siete dei deficienti! Volete tutti morire di febbre suina fulminante? Dall’altra parte del mondo poi… roba che solo per riportare a casa le salme le vostre famiglie dovranno fare i mutui per i prossimi quarant’anni! Irresponsabili!

***

Antonella alla fine mi mette davvero su quell’aereo.
Il volo Lufthansa mi culla. Anche grazie ai quattro bloody mary che mi faccio preparare dalle belle hostess teutoniche. Ho preso questa abitudine, di sfondarmi di bloody mary in aereo, proprio sui molti voli transoceanici che facevo a diciannove anni.
Ogni volta che tornavo in Italia dalla Colombia dovevo sbronzarmi per dimenticare che stavo lasciando l’amore in quel paese. Ero fidanzato con una colombiana. La donna che mi ha reso un uomo. La donna che mi ha fatto capire il mio destino con le donne.
E ubriacarmi in aereo è diventato un rituale al quale non ho nessuna intenzione di rinunciare.
Il film che trasmettono oggi nello schermo incastonato nella testiera del sedile davanti al mio è Mostri contro alieni della Dreamworks.
A me quelli della Dreamworks stanno sulle palle. Shrek non mi è piaciuto. Nessuno dei tre. È un po’ come la questione se sei della Roma o della Lazio. Io non sono uno sportivo. Io tifo. Devo per forza prendere una posizione che esclude l’altra, altrimenti IO MUOIO. E io tifo Pixar. Tutta la vita.
Mentre sto per addormentarmi aiutato dall’alcol ripenso al progetto che voglio portare avanti. Alla mia inchiesta sulle ramificazioni messicane del Percorso per un’Esistenza Migliore, alle sette esoteriche, ai maestri e alla Via.
Mi tiro su il cappuccio della felpa per ripararmi dall’aria condizionata a palla e parto per il mondo dei sogni.

***

L’arrivo all’aeroporto internazionale Benito Juárez è emozionante.
Ho la gastrite.
Dopo una discesa in una cappa marrone di smog si atterra in mezzo ai palazzi. Il più importante scalo messicano si trova in mezzo alla città, quindi i piloti devono stare abbastanza attenti a non scorticare tetti e cornicioni degli edifici circostanti.
Si riempie il naso di caccole di smog. Sono arrivato.
Mi viene a prendere in taxi Serapio. È come Giorgio me lo ha descritto. Faccia ironica da mastino navigato, pizzetto, stempiato, pancia da bevute dure.
Serapio è un editorialista della Jornada, il quotidiano più importante di Città del Messico (se per importante consideriamo il più autorevole, non il più venduto).
«Ciao Samuele. Benvenuto in Messico! Giorgio è un buffone rinunciatario. Però sono contento di conoscerti. Mi ha parlato bene di te. Se sei amico suo sei anche amico mio!»
«Giorgio è un indeciso, non un rinunciatario. Comunque grazie. Magari verrà pure il gigante prima o poi.»
«Hai fatto bene ad andartene dall’Italia. Con quel presidente che vi ritrovate… Almeno qui l’anno prossimo c’è la rivoluzione, sempre che sopravviviamo alla febbre suina…»
I messicani si vantano perché ogni cent’anni hanno mostrato al mondo i denti della rivoluzione.
L’Indipendenza del 1810 dalla corona spagnola ha aperto il secolo di Hidalgo e Morelos, con una rivoluzione che si ricorda ancora il 15 settembre con il famoso grito dal palazzo di governo dello Zócalo di Città del Messico (¡Viva México!).
Nel 1910 la Revolución di Villa e Zapata dava inizio al secolo breve.

Serapio mi porta a mangiare. Tacos.
Siamo in una taqueria nel quartiere della Condesa, pieno di locali alla moda, librerie e sale da tè. Questa zona ha un’aria bohemiénne nella sua versione messicana.
Arrotolo la piccola tortilla di mais con dentro carne fatta a pezzetti, salsa verde e un tocchettino di ananas. La carne cuoce su un’asta verticale, come il kebab. In cima c’è un ananas. I taqueros tagliano la carne dall’alto in basso direttamente nella tortilla e poi con un colpo secco di coltello staccano un pezzetto di ananas che dalla cima precipita in mezzo al taco. Un bell’effetto scenico.
Ci spremo sopra succo di lime. Molto buono. Molto piccante. Annaffio con cerveza Bohemia (la Corona non mi è mai piaciuta, nemmeno in Italia).
«Vacci piano con quel chile, che se no piangi!»
«Hai ragione, ma mi piace piccante. E poi dicono che ha effetti miracolosi contro la gastrite…»
«Chi lo dice? Se mai il contrario… ma fai come vuoi. Invece dimmi. Cosa ti porta qui Samuele? Giorgio mi accennava a un’inchiesta su una qualche setta…»
«Sei uno che va subito al punto eh? Non so cosa mi porti veramente qui. Però sì. Sto prendendo informazioni su una setta che si definisce esoterica. Ha una faccia pubblica new age. Il Maestro è italiano. Faceva l’assicuratore. E ora controlla un’organizzazione internazionale che fattura milioni di euro l’anno, sparsa in molti paesi che continua a fare adepti. E il Messico è il paese in cui il Percorso per un’Esistenza Migliore ha prolificato più rapidamente e in modo più massiccio.»
«Beh, diciamo che non mi sorprende. Qui siamo bravissimi a farci prendere per il culo con questo genere di cose…»
Le macchine ci passano davanti in un traffico lento e annoiato. Stereo a palla che sparano reggaeton. Per un attimo mi immagino i figli di Sevla a Città del Messico. Non mi viene in mente una location più adatta di questa.
«Mi ha detto Giorgio che hai lavorato per l’Agir, quell’agenzia di stampa così filozapatista…»
«La conosci?»
«Conosco il suo direttore. Veniva in Chiapas a fare il compagno quindici anni fa. Si è fatto un pessimo nome.»
«In Italia si spaccia per uno dei più grandi conoscitori di zapatismo…»
«Che ipocrita…»
«Io ho lasciato quel posto, comunque. Qualche anno fa hanno organizzato una manifestazione contro il precariato. Piazza San Giovanni piena di gente incazzata. Sul palco gli intellettuali della sinistra radicale a urlare contro il NEMICO. Torno in redazione e mi rendo conto che non mi pagano da sei mesi, che metà delle persone che lavora con me è in nero e l’altra metà è precaria e che il mio direttore è uno stronzo che non ha mai lavorato un giorno in vita sua.»
«Hanno tutti pochi soldi comunque…»
«Non è vero. Quelli che rimangono sono quelli che possono permettersi di farlo. I mantenuti. Quelli che hanno un cognome importante. Poi il tuo amico direttore ci ha detto che dovevamo chiedere un prestito alla banca per farci dare l’anticipo sullo stipendio. Secondo lui dovevo pagare gli interessi sul mio stipendio!»
«Lui è comunista, vero?»
«Direi che lui è una merda, piuttosto!»
«Finisci i tuoi tacos che così possiamo andare a bere qualcosa di più serio.»
Le conseguenze delle proprie azioni. VI.

Il taxi mi lascia di fronte alla libreria. Pago ventisette pesos. Scendo. L’aria è tiepida e sento profumo di fiori. Nella città più inquinata del mondo.
Mi accendo una sigaretta. Qui non si trova il tabacco Old Holborne. Il poco che ho portato dall’Italia è per i momenti speciali. Quindi mi devo adattare a quello che c’è.
Fumo Delicados ovaloides.
Sono le quattro del pomeriggio. Sono stordito. Il tabacco mi fa stare meglio.
Fumare mi aiuta a pensare. E a rilassarmi.
Perché sono così ossessionato dalle sette e dalle loro dinamiche?
In fondo gli adepti ricevono un miglioramento della vita dalle pratiche dettate dai maestri.
Sono persone che hanno bisogno di trovare una figura carismatica che li comandi a bacchetta. Che dia delle risposte semplici. Risolutive, come tutte le religioni, in fondo. E che dia delle direttive da seguire senza discutere. È rassicurante.
Cos’è che mi disturba tanto allora, nel fatto che qualcuno possa annullare sé stesso per eseguire gli ordini di un Maestro?
Forse è perché non sono abbastanza narcisista da pensare che si possa essere adorati da propri simili? Oppure mi fa rosicare il fatto che esista qualcuno che si arricchisce truffando la gente senza fare il minimo sforzo? La mia è invidia? Non lo ammetterò mai. Il retaggio cattolico che mi mangia il cervello.
Mi piace pensare che il problema sia collettivo. Che è inaccettabile una delega così totale di responsabilità. Il bisogno di mettersi al fianco di una figura carismatica per non prendere delle decisioni, per farsi dire sempre con CERTEZZA cosa è giusto e cosa è sbagliato, per rimanere per sempre adolescenti.
È la vicinanza al carisma.
Il carisma è una cosa semi divina che attrae la gente che si fa attrarre. E ha un ché di potentemente naturale.
Chi ha il carisma sembra che non possa fare altro che il leader ma chi non ha il carisma, stando vicino al carismatico…beh, splende di luce riflessa. Ed è disposto a fare qualsiasi cosa. A occhi chiusi.
Si sente meglio di chi sta lontano dal carismatico. Solo per questo è già superiore agli altri e ha risolto il problema. Per cui si torna alla questione del riconoscimento sociale, che al di fuori della setta non avresti.
Ti sottometti ad un leader, ma attraverso di lui puoi sottomettere almeno simbolicamente altri, perché stai dentro una struttura piramidale che però ha una certa mobilità interna. Anche fratricida.
Finisco la sigaretta. La schiaccio con la punta del piede destro. Entro. Vago a caso tra gli scaffali.
Mi sento più calmo.

Radical Shock. Una storia sinistra. Capitolo sei. Alla scoperta di un maestrodel nostro tempo.

Sei. Alla scoperta di un maestro del nostro tempo.

Il piacere di vivere la casa e le parentele non intacca l’indipendenza interiore degli spiriti liberi ma li aiuta a radicarsi nella felicità coniugale-domestica. Le porte si aprono ad amici e ospiti in spirito di convivialità. All’esterno, la lotta continua… INDIPENDENTI.

È oggettivamente un libro brutto. Scritto male. Una scrittura patetica, sgrammaticata, infantile. Diretta. È tutto elementare. Meglio. Didascalico. È un libro per deficienti. Per subnormali. È come se in ogni pagina ci fosse scritto GUARDA CHE QUI C’È QUELLO CHE CERCHI E NON ALTROVE.
La storia è imbarazzante. Un giovane che non sa più in cosa credere, sbandato.
L’incipit: Non sapevo che fare, ero in un momento di crisi totale.
La terza riga: Avevo diciassette anni e non sapevo dove sbattere la testa. Nulla mi andava bene, mi trovavo male in ogni luogo, non mi sopportavo e non sopportavo nessuno.
Amico mio. Si chiama ADOLESCENZA. Non conosco una sola persona che non abbia provato almeno una volta in vita sua quella sensazione a quell’età. Anche per anni.

Con i miei genitori era impossibile avere qualsiasi tipo di comunicazione, in particolare con mio padre. Erano quasi due anni che avevo deciso di non andare più in chiesa.
Mi fermo. Mi viene da ridere di questo idiota e contemporaneamente monta un senso di rabbia.
Tu sei un cialtrone! Non è finita la prima pagina e già ti sei rivelato un cialtrone. Ne mancano ancora 299 e io già ti odio.
Smetto perché vorrei affrontare la lettura con meno pregiudizi, ma è molto più dura di quello che credessi.
Per me poi la lettura è un momento di piacere, o di crescita. O di svago. Seduto sul cesso. Quando sono costretto a leggere una cosa che mi fa orrore lo sento come uno stupro.
Ma è per il bene dell’umanità! Sto conducendo un’inchiesta. Devo documentarmi.
Respiro.
Vado avanti.

Sto qui, nella mia stanzetta da adolescente nella casa dei miei genitori a leggere questo libro malscritto. Sdraiato sotto i poster di Che Guevara di quando avevo sedici anni. Proprio l’età del personaggio di questo capolavoro della letteratura.
I miei sono in campagna. E io posso avere un po’ di privacy solo quando loro sono assenti.
Se mi viene voglia di invitare una donna devo farlo ORA, perché è l’unico momento che ho a disposizione. Proprio come quando ero ragazzino.
Solo che oggi ho trent’anni e non è entusiasmante calibrare le proprie scopate con gli impegni dei miei genitori.
Ma questo è il meno. Insomma.
Ho le valigie pronte da tre mesi. In realtà non le ho mai sfatte, le valigie, da quando sono qui. Vivo con i bagagli ammucchiati nella mia ex stanza da adolescente, che ora è un ambiente informe, pieno di oggetti non miei, di una madre che giustamente l’ha fatto proprio, dopo che me ne sono andato di casa.
E ora di nuovo qui tra due genitori preoccupati, che non riesco a guardare in faccia, che si angosciano perché il loro figlio maschio non trova il modo di tirare avanti dignitosamente.
Ormai mio padre dice ai suoi amici e colleghi frasi tipo:
«Eh, mio figlio purtroppo è un disoccupato.»
UN disoccupato. Nemmeno disoccupato e basta. No proprio sono parte della categoria dei disoccupati, UNO dei disoccupati. M’hanno messo il timbro.
E quella specie di tono pietoso, lamentoso, e triste con cui lo dice, mi fa venire il veleno. Non contro di lui. Contro me stesso.
E accumulo veleno che scarico ormai appena ne ho occasione. Mi rendo conto che ultimamente cerco sempre la rissa, lo scontro con degli sconosciuti che fino a qualche tempo fa non avrei minimamente filato.
Mi sono appiccicato con il proprietario di un locale a San Lorenzo perché mi ha fatto pagare sette euro una birra Menabrea da venti cl. È buonissima la Menabrea, per carità, ma gli ho dovuto urlare che è un ladro. E lui mi rispondeva male. E più mi rispondeva più mi incazzavo e cercavo lo scontro fisico. Mi hanno buttato fuori a forza dal locale.
Cazzo, devo fare qualcosa.
Il mio psichiatra dice che ho una specie di tendenza a fare il giustiziere, che estremizzo le situazioni per trovare lo scontro. Non ho capito bene che dice il mio psichiatra, perché sono sempre troppo occupato a incazzarmi e a urlare cose senza senso per cinquanta minuti. Poi, dopo che mi sono sfogato, gli stringo la mano e ci vediamo mercoledì prossimo.

Continuo a leggere le banalità di Sagramolo. C’è una parte di me che si ritrova nelle riflessioni di bassa lega di questo autore di culto. Sono problemi così generici che si potrebbe tranquillamente definirli universali, riguardano un po’ tutti.
Come gli oroscopi.
È facile accalappiare adepti facendo loro sentire che anche altri hanno avuto gli stessi turbamenti.
Grazie al cazzo! Sono i turbamenti di tutti quelli che si fanno domande. È la risposta che non va.

Da mesi continuo a mandare articoli e reportage in proposta a varie redazioni.
Apprezzo molto le risposte negative da parte dei vari redattori. Le apprezzo perché è quasi impossibile che qualcuno ti risponda. In assoluto. In genere vige la regola del silenzio. E non è un assenso.
Perciò quando uno si prende la briga di mandare due righe di risposta a uno sconosciuto, benché nelle due righe dica che «purtroppo in questo momento non abbiamo in previsione alcun tipo di collaborazione esterna», mi sembra uno dei gesti più umani e nobili che si possa immaginare.
Oggi ho ricevuto questa risposta per un lavoro in una nuova redazione online:
«Abbiamo risettato e ottimizzato la struttura del progetto e non avevo ancora chiarito meglio il target e le fasi di sviluppo.
Comunque da una prima valutazione del suo curriculum, davvero interessante, il capo ha pensato che probabilmente non sarebbe adatto al ruolo.
Lei è già ad un livello decisamente più alto rispetto all’esperienza dei redattori che stiamo valutando – e forse andrebbe anche incontro ad un calo di interesse rapido verso le tematiche che cureremo.
Sinceramente, se dovessimo affrontare progetti in cui le sue competenze possono essere adeguatamente valorizzate, sarà nuovamente preso in considerazione.»
Questo sì che è poesia. Poesia delle risorse umane.
Traduzione: non abbiamo bisogno di te, ma è colpa tua, perché sei sovradimensionato e ti annoieresti!
Siete dei geni.
Traduco un’enciclopedia della scienza dallo spagnolo. All’inizio è interessante non conoscere nulla di quello che stai traducendo. Mi pento quasi di non aver intrapreso una carriera scientifica. Chissà com’è fare il precario del CNR.
Se non sapessi che mi consente di sopravvivere mi permetterei di dire che è una delle cose più noiose che abbia mai fatto. Ormai è un lavoro meccanico. Riesco addirittura a pensare a progetti e idee per nuovi articoli mentre traduco cartelle e cartelle di definizioni scientifiche (divulgative. È una bellissima enciclopedia per ragazzi).
Ascolto Smells like teen spirit dei Nirvana. Mi ricaccio nella mia adolescenza. Già che ci sono…

Prosegue la lettura.
Dopo alcune vicissitudini e incontri fortuiti davvero poco interessanti (e poco credibili), il protagonista del libro del secolo arriva finalmente a conoscere il Maestro. A.
Esso si rivela subito un saggio, ma soprattutto trasmette un’energia enorme.
«Una sensazione incredibile mai provata prima.»
Cazzo che descrizione. Ma chi sei Tolstoj?
Leggendo questa frase mi viene in mente SUBITO la prima volta che allo stadio ho visto segnare Francesco Totti.
Una sensazione incredibile mai provata prima.
Poi anche la prima volta che ho vomitato l’anima dopo una sbronza colossale. Notevole.
Poi anche la prima volta che mi sono fatto una sega. Sempre incredibile.
O il primo pacchetto di patatine alla paprika. Incredibile.
Mi convinco che Sagramolo intenda una specie di mix tra tutte queste esperienze incredibili mai provate prima.
A pagina novanta succede una cosa straordinaria. Il personaggio narrante è argentino. Il Maestro italiano. Ma parla un ottimo castigliano e riesce persino a imitare molti accenti latinoamericani. Questo lo faccio anche io. E non sono un Maestro.
Però l’autore si sente in dovere di dire una frase del genere, subito prima di descrivere la prima riunione di gruppo:
«E si mise a imitare i differenti toni di questi paesi, questo mi impressionò moltissimo perché io ero negato per le lingue.»
Cazzo! Sei un vero guru, porcatroia! Devo ammettere che tutto questo è proprio scioccante.
Inizia una vertigine di capitoli in cui vengono tracciate le caratteristiche del Maestro. Esso è infallibile. Viene dichiarato come un assioma immediatamente.
Gli adepti sono scelti in quanto hanno delle caratteristiche particolari (che però sfortunatamente non vengono spiegate) e viene loro chiesto di seguire alla lettera alcune indicazioni del Maestro. È richiesto esplicitamente di non ribellarsi mai. Per nessun motivo. Anche se non sono d’accordo con il Maestro.
È perché ancora non possono capire, ma Esso tutto sa e soprattutto sa esattamente cosa è giusto per ognuno degli adepti.
Esso si premura di dire che molte delle cose che lui dirà non verranno capite se non al momento opportuno.
Poi l’autore sottolinea ripetutamente che il Maestro è persona estremamente simpatica, divertente e con un innato senso dell’umorismo. Io penso che anche in me nascerebbero impulsi di ilarità se sapessi che sto plagiando e manipolando gruppi di gente che mi adora come un dio in terra, oltre che farmi arricchire.

Ne ho piene le palle di questa roba. Sono le 02:18.
I miei dormono nella loro stanza in fondo al corridoio e fuori piove.
Ma non mi va di dormire. Devo fare i miei compiti. Devo leggere questo libro.
È come se domani avessi l’interrogazione. Sto regredendo insieme al grande scrittore Sagramolo.
A sedici anni la vita era: paura dell’ignoto. Insicurezza. Voglia di spaccare tutto e domande su domande.
A trenta è: paura del conosciuto. Insicurezza. Voglia di avere voglia di spaccare tutto. E rabbia perché tutti ti trattano come se avessi sedici anni.
La verità è che leggere “La vera Via” mi spaventa. Mette a nudo un pensiero che si fa strada e diventa un ciccione chiuso nella stanza insieme a me. Non posso fare finta di non vederlo.
È ciccione, sudato e si scaccola sul mio letto.
Questo pensiero ciccione è che guardandomi intorno vedo dei trentenni che vivono, pensano, si comportano e vengono trattati da adolescenti. Questo siamo. Siamo stati allenati a rimanere adolescenti. Contratto di adolescenza a tempo indeterminato.
Per poter consumare per tutta la vita come i ragazzini.
Donne e uomini che gestiscono rapporti di coppia a trent’anni come se andassero alle medie.
Affrontiamo i problemi della vita come al liceo.
Le nostre attività, divertimenti, svaghi, impegni, sono da sedicenni. Non possiamo lamentarci allora che ci si tratti così. Che i datori di lavoro, che dovrebbero essere in pensione da anni, ci considerino ancora troppo giovani, che i maestri di vita si prendano gioco di noi lucrando sulle nostre debolezze. Fanno bene. Lo farei anche io se solo riuscissi a crescere. Se solo riuscissi a non avere sedici anni.

Sagramolo mi stanca. La mia disciplina è come una bandiera. Quando cala il vento si affloscia. Devo fare altro.
Mi metto a leggere Survivor di Chuck Palahniuk.
Domani provo ad andare avanti con Sagramolo. Domani vedremo.

***

Mi chiama Massimiliano. Mi invita a cena. È invitata anche una mia amica. Una mia amica che ho conosciuto la sera alla festa sul terrazzo a San Paolo. Una amica di Ginevra. Un’amica che mi piace. Con la quale non è possibile fare sesso perché è amica di Ginevra.
E l’ipocrita etica femminile le “impedisce” di fare sesso con l’ex della sua amica.
Lei si chiama Margherita. È bella. È roscia. Roscia finta, ma una bella roscia.
Una volta siamo andati al mare insieme a Ustica. Ginevra, Margherita, io e Michele, il migliore amico di Ginevra.
Margherita è in topless a fare il bagno e viene pizzicata da una medusa. Grida. Fortissimo. Piange. La medusa l’ha pizzicata proprio su un capezzolo.
Io mi tuffo, la raggiungo e la traggo in salvo.
Sono un eroe.
Lei grida.
Mentre grida mi viene in mente una scena che non mi tolgo dalla testa. Il caldo è torrido. L’acqua è fresca e il suo capezzolo arrossato.
Ti DEVO pisciare addosso. Altrimenti io MUOIO.
«Margherita, non preoccuparti. Ora calmati. La soluzione è che ti piscio addosso.»
Non vengo preso sul serio. Tutti pensano che sia una battuta e persino Margherita apprezza il gesto.
Ero serissimo invece. Un eroe che piscia addosso alla migliore amica della sua donna. Clamoroso!
Michele suggerisce di mettere due pietre calde sul seno.
Per quale cazzo di reazione chimica al mondo il dolore dovuto a una medusa su un capezzolo diminuisce a contatto con pietre calde??
Ero già pronto a fare una bellissima golden shower a Margherita. Già mi gustavo la scena. Invece interviene Michele a rovinare tutto.
Poi un giorno Margherita si è stupita perché le ho detto che per me l’amicizia tra uomo e donna non esiste.
«Ma come? E noi non siamo amici Samuele?»
«Sì. Ma non come siamo amici io e Giorgio. Io con Giorgio non ci vorrei scopare.»
«Perché? Con me sì?? Ma sei pazzo?»
«No. È che non sono ipocrita. Sei bella. Simpatica. Intelligente. E sei una donna. Non vedo perché non dovrei voler scopare con te.»
«Ma perché sono amica di Ginevra! Anche se vi siete lasciati è una cosa impossibile. Non accadrà mai. Toglitelo dalla testa.»
«…»
L’ha detto come se davvero fosse una cosa ovvia.
Per un momento ho dubitato di me. Poi mi sono ripreso.
«Senti Marghe. Noi magari non scoperemo mai nella realtà. E per mille motivi. Non certo perché siamo amici. Anzi. Magari siamo amici perché non scopiamo. Io ti trovo attraente. È naturale. Poi si mettono in mezzo tante ragioni contestuali per cui magari non finiremo mai a letto insieme. E sarà un bellissimo rapporto. Però questo non toglie che in condizioni favorevoli io non mi tirerei indietro.»
«Sei un maiale!»

Arrivo a cena da Massimiliano alle 22:26. Massi ha preparato un’ottima pasta coi broccoletti romani. C’è Margherita e Martino, un amico di Massimiliano. Ha la faccia sveglia. Mi piace.
Dopo mangiato ci mettiamo a bere e a suonare un po’. Massimiliano non può fare a meno di esibirsi. Per chiunque sia il suo pubblico. È un animale da palco.
È creativo. Gioca. Si diverte come un matto. Il suo lavoro è giocare.
Ci mettiamo a suonare e a improvvisare con una chitarra, un piano, un jambé e un kazoo.
La serata è allegra. Distesa.
Arriva Shirin, un’amica iraniana di Margherita. Continuiamo a bere e a suonare finché i vicini non ci chiedono di smettere.
«Ok. Adesso che si fa?»
«Un’orgia, ovviamente!» è l’iraniana a parlare. Parla e ride. È una boutade da ubriaca. Ma la parola è diventata solida e ha spaccato l’aria attraversando la stanza.
Il concetto espresso da Shirin ha frantumato gli equilibri della serata. Si è diffusa una sensazione strana di tensione elettrica e imbarazzo. Sguardi smarriti e vogliosi vagano per la stanza a casaccio, mentre si ricomincia a chiacchierare di cazzate. Non è più come cinque minuti fa però.
Si è aperto il vaso di Pandora. Ognuno di noi sta pensando a una inquadratura diversa della stessa gangbang evocata dalla Persia.
Ok. allora facciamo così. Ognuno deve dire qual è la sua perversione sessuale preferita.
In che senso?
In senso orario.
Idiota.
Inizia tu.
A me piacerebbe essere legato da una donna, poi scopato. Poi slegato e incularmela. Poi darci dei baci.
A me piace essere sopraffatta. Umiliata.
A me piacerebbe menare. Dare dei pugni.
Io amo il sesso in piedi. Amo i piedi.
Io odio i piedi. Mi fanno impressione. Mi fanno schifo.
Voglio essere scopata da due maschi.
Mi piace dire le porcate.
Mi piace stare in silenzio. Sentire solo ansimare.
Mi piace stare in finestra mentre faccio sesso. Che da fuori si veda soltanto la mia parte superiore e la gente pensi che sia tutto normale. Invece sto facendo sesso.
Attacchiamo una bottiglia di Tequila reposado. È buono.
Siamo un branco di animali affamati. La tensione sessuale passa attraverso le nostre parole. Ci facciamo schermo con le nostre parole perché siamo un po’ intimoriti da quello che potremmo fare ora. Teoricamente con un altro tipo di desiderio potremmo anche uscire e andare a ammazzare di botte i barboni. Noi cinque, nella stessa formazione. Se solo questa carica invece di essere sessuale fosse rabbia.
Siamo carichi.
Decidiamo di spostarci a casa di Shirin perché lei ha altro alcol, si può mettere la musica. Ha la casa più accogliente.
Infatti sembra di stare dentro una bomboniera. Le pareti lilla. Divano bianco, sedie una diversa dall’altra. Enorme lampadario di cristallo “a cascata” stile Italia anni ’20. Profumo e fiori elegantissimi in tutta casa. Cinque persone adulte ubriache che devono fare sesso di gruppo. Senza motivo.
Le due donne si rintanano nel closet a cambiarsi per noi. Corpetti, scarpe col tacco, gonne, sottovesti.
Noi: a continuare a bere.
Massi mette i dischi. Ottima musica world. Scalda l’ambiente. Un pessimo Bacardi brucia lo stomaco. Il Bacardi fa schifo. In più la famiglia Bacardi è stata cacciata dalla Revolución dei barbudos e ora non può nemmeno dire che il rum Bacardi è cubano. Pare tra l’altro che la Bacardi finanzi attività terroristiche anticastriste per rovesciare il regime cubano.
Forse è per tutti questi motivi che comincio a sentirmi male. Sta arrivando una pezza tremenda. Per contrastarla continuo a bere. Aggiungendo succo di pera.
Entrano le donne. Finalmente femmine.
Noi: tre cani arrapati. E ubriachi.
Mi ritrovo a leccare il capezzolo di Shirin mentre un altro maschio (Massimiliano?) si struscia dietro di lei e le bacia il collo. Le mani sotto la gonna. La musica è un’evoluzione dei ritmi tzigani, mixati da un genio.
O dall’alcol che ho addosso.
Per me essere ubriachi in generale non è una giustificazione per comportamenti antisociali o per fare cose che “normalmente” non farei. Anzi. È un’aggravante.
Il mio essere ubriaco in questo contesto denota solo il fatto che GLI ALTRI potranno avere la scusa di dire «eh, dai, eravamo ubriachi.» Se io sono il solo sobrio non reggerà mai.
Continuo a navigare nella carne morbida e profumata della padrona di casa persiana. Faccio scendere le mani sul corpetto. Sulla gonna. Sulle gambe. Continuo a leccare un capezzolo, quasi mi ci aggrappo, come se fosse l’ultimo appiglio per non cadere dalla rupe giù nel baratro.
La sua fica è bagnata. Ma sopra, la testa dice «no, dai, vi prego….»
Io non capisco.
Due maschi ti circondano. Fanno quello che desideri. Ti leccano, ti accarezzano, ti baciano, ti toccano.
Continua a dire no. Mi stacco. Bevo un sorso di quella merda di rum. Ora riconosco l’altro maschio. Massimiliano balla bene con Shirin mentre io sono seduto a bere. Si toccano e si leccano. Finita la canzone Shirin mi prende per mano. Balliamo noi. Io ballo meno bene, ma la lecco meglio.
Mi gira la casa intorno. Che cazzo ci fa il lampadario sul muro viola? Però il divano bianco non sta male sul soffitto.
Mi riprendo e continuo a tuffarmi sempre più sconvolto nel decoltè generoso e morbido della regina di Persia. Massimiliano sempre dietro. Ci scambiamo di posto nel ballo. Ora non ce la faccio. Mi risiedo. Ma dove cazzo sono finiti Margherita e Martino??
Hanno tradito il patto di gruppo e sono andati a scopare DA SOLI??? che merde!
Entro in camera da letto barcollando. Margherita e Martino!! TANA!! AMMERDE!! che cazzo ci fate qua da soli??
Imbarazzo. Ridono. Si rivestono e vengono di là!!
Io però, ottenuta la mezza vittoria, non ce la faccio proprio più. Ho gli occhi di nebbia.
Il Bacardi ha vinto.
Recupero la giacca, apro la porta e rovino giù per le scale.
Il selciato di sampietrini è verticale.
Cammino senza vedere.
Raggiungo la macchina e comincio a vomitare.
Vomito tutto. Il sesso, i muri viola, la cena, la musica, l’amore finito, il rum di merda. Vomito le orge, i capezzoli, l’amicizia, la tristezza. Vomito la gente dello spettacolo, la mediocrità, il successo, i maestri di vita.
Vomito me stesso. E continuo a vomitare.
Le conseguenze delle proprie azioni. V.

Sono in libreria. Ho nelle mani un libro di Ivan Illich. La convivialità, l’opera di uno dei più grandi pensatori del novecento. Edizione Fondo de Cultura Económica. Ma in realtà non lo leggo. Sfoglio a caso.
Sto cercando di mettere insieme i pezzi. Di schiarirmi le idee. Sono passati due giorni dal mio incontro con il baratro, con il lato oscuro della “Vera via”.
Sto depressurizzando.
Entra El Santo in libreria.
Entra Blue Demon in libreria.
Entra El Mistico in libreria.
Entrano tre lottatori della lucha libre messicana in libreria.
Due dei quali in teoria dovrebbero essere morti più o meno da trent’anni.
Sono Armadi. Vestiti eleganti. Come può essere elegante un doppiopetto. Al giorno d’oggi il doppiopetto è elegante solo in America latina e a casa Berlusconi.
A una prima occhiata non sembrano intellettuali. Non sembrano fanatici di letteratura francese.
Oddio, magari invece sono studiosi di Foucault o di Proust.
Pregiudizi piccolo borghesi.
Entrano in libreria tre energumeni mascherati da luchadores e nessuno fa una piega.
Loro non si preoccupano nemmeno di fingere di essere dei clienti. Non si prendono nemmeno la briga di dare un’occhiata alle ultime novità editoriali. All’ultimo libro di Paco Ignacio Taibo II.
Filano dritti e silenziosi verso il settore sociologia.
Filano dritti e silenziosi verso lo scaffale “teologia della liberazione”.
Filano dritti verso di me.
Io sto cercando di far capire alla commessa che sono un’intellettuale italiano molto curioso delle teorie sviluppatesi in America latina e anche molto libero per la serata.
Mi sembra che lei mi abbia appena lanciato uno sguardo incoraggiante. Uno sguardo. Che io leggo senza dubbio incoraggiante. Ha un bellissimo vestito a fiori giallo, che mette in risalto il colore bronzeo della sua pelle di mestiza.
Le sue labbra carnose e umide e gli occhi nero carbone sono il mio cartellino di garanzia.
Tra un secondo mi lancio.
Tra un secondo una manona si appoggerà sulla mia spalla destra. Senza violenza. Si appoggia. Come un tricheco si appoggia sullo scoglio. È calmo, tranquillo. Solo che appoggia cinque quintali su un corpo inerte.
Lo guardo in faccia.
Guardo la faccia di Blue Demon.
Ho anche io una maschera così a casa. Me l’ha portata Giorgio dal Messico anni fa. L’ha comprata all’Arena México dopo uno spettacolo di lucha.
Io l’ho indossata al Carnevale di Civita Castellana, diventando subito il re della festa.
Bisogna saperla portare una maschera del genere.
E lui oltre a saperla portare ha anche il physique du role.
Va detto questo.
Guardo Blue Demon e lui mi prende per mano. Come un padre prende per mano un bambino dopo averlo chiamato inutilmente per mezz’ora al parco giochi.
Io lo seguo più per automatismo che per convinzione. Non ho capito bene cosa sta succedendo, ma non so perché decido istintivamente che non è il caso di contraddire papà/Blue Demon in una libreria della Condesa.
Anche perché magari lui non si incazza, ma zio El Mistico e zio El Santo forse sì.
Stanno zitti e camminano ai lati.
Usciamo in strada.
Sono le cinque del pomeriggio. La calle Tamaulipas è trafficata e piena di gente, ma nessuno mostra stupore per le tre figure mascherate e l’italiano bambino che trascinano per mano.
Si vede che questo paese ha una lunga tradizione surrealista!
Qui amava girare i suoi film Luis Buñuel, perché sosteneva che il Messico è già abbastanza surrealista.
O forse era Breton?
Comunque un grande surrealista era convinto che in Messico non c’è bisogno di fare niente.
Salgo su un Vocho bordeaux.
Vocho è come i messicani chiamano il Maggiolino VolksWagen.
L’ultima fabbrica di maggiolini ha chiuso qui nel 2003. Si producevano a Guadalajara e nonostante questo nessun messicano è mai riuscito a pronunciare come si deve questo nome teutonico. Il risultato è Vocho. Molto più amichevole e adatto di VolksWagen in effetti.
El Santo guida. Io sono seduto tra Mistico e Blue Demon. Mistico si gira. Mi guarda e tira fuori due stracci dalla tasca della giacca.
Con uno mi benda gli occhi.
Buio.
Con l’altro capisco che mi vuole bendare la bocca, visto che mi ci caccia un ditone dentro per aprirla.
Mistico si accende una sigaretta senza aprire il finestrino.
Odore di fumo.
Cazzo. Sono stato rapito!