diario da Port au Prince. acqua.


Mi piacerebbe ora soffermarmi sul concetto di acqua. mi pare uno dei temi centrali della situazione. Innanzi tutto va detto che apprezzo il modo dei centomilioni di marines, atterrati tra un hercules e l’altro all’aeroporto occupato militarmente di Port au Prince, di affrontare la questione. La gente ha bisogno di damangiare e dabere e te arrivi coi carrarmati e i fucili da guerra. Un po’ come se a uno che c’ha la dissenteria, per dargli una mano, gli dai una sega a nastro. che cazzo ce fa non si sa, però è una risposta creativa, questo tocca ammetterlo. Lungi da me voler fare polemica coi “corpi di peacekeeping” che sono i buoni e vengono a portare la pace. Lo dice la parola stessa. L’unica cosa è che mi sa che non si so accorti, nella loro immensa solidarietà, che ad Haiti non ci sta la guerra, ma una tragedia umanitaria, ma ovviamente non è nemmeno il caso di spaccare il capello in quattro.

Tornando all’acqua, diciamo che già di per sé qua in Haiti non è che abbondasse l’acqua potabile pulita, dato che è pratica abbastanza comune, sciocchi selvaggi, direte voi, bere un liquido grigiastro di dubbia provenienza, che non definirei proprio potabile a una prima occhiata.

Ecco, ora con quei 40 gradi belli umidi e un terremoto sul groppone che ti ha sbragato via tutto si pone abbastanza imperativo il problema di dove cazzo andare a prendere l’acqua.

Mi pongo la questione sorseggiando acqua potabile dei lavandini del centro operativo dell’ONU, che cià pure le docce, circondato da funzionari di tutte le possibili agenzie dell’ONU che bevono il tè e fanno importantissimi briefing su come fare la distribuzione, mentre intanto i giaigió americani gli scippano l’aeroporto e fanno sbarcare miliardi di militi per dare aiuti umanitari ai disgraziati.

Dopo sei briefing viene fuori che la gente ha bisogno di acqua. è proprio un fatto accertato. Tocca fare qualcosa. Ora si prepara un briefing per capire come affrontare l’emergenza. Ieri avevamo incrociato un’autobotte anarchica che è partita nottetempo da Santo Domingo. Oh, noi non abbiamo chiesto il permesso a nessuno, dice il trasportatore, siamo partiti perché qua se morono de sete, poi se quelli dell’ONU ce dicono qualcosa sticazzi, intanto j’amo portato l’acqua, o sbaglio?

Nono non sbagli per niente. Noi moschettieri con la nostra razione d’acqua da mezzo litro in borsa ci aggiriamo come cani per le strade affollate e imbattendoci nell’autobotte ci rendiamo conto che tra qualche giorno, se gli aiuti non si sbrigano, sarà una tragedia. Tanto per cambiare.

Parlando con un’amabile e bionda dottora americana della Florida che è venuta a amputare arti ad Haiti, la pratica più comune tra i suoi colleghi che si trovano davanti fratture esposte incancrenite come se piovesse e hanno a disposizione solo cartone e garza per ingessare o le seghe circolari di prima per amputare, discuto sul problema malattie, e lei sostiene che no, non c’è un vero pericolo epidemie. Certo, a meno che la gente non si metta a bere l’acqua infetta inquinata da monnezza e liquidi corporei fuoriusciti dai cadaveri. La guardo basito. Ma cosa cazzo credi che stia facendo la gente lì fuori? Ah, dice lei, magari gli haitiani lo fanno che c’entra? Ah, scusa infatti sono una minoranza gli haitiani che stanno terremotati ad Haiti. Scusa, so stronzo io!

Proseguiamo il nostro giro turistico accompagnati dall’instancabile Vi, che guida come un forsennato suonando il clacson e dicendo cose incomprensibili. Di ritorno alla base a casa di Fiammetta  ci fermiamo a salutare la numerosa famiglia di Vi, che sta accampata al buio pesto della sera su dei materassi fuori di casa, che non è venuta giù. Loro cantano stasera. E Roberto, un parente di Vi che ha vissuto a Santo Domingo e parla spagnolo, ci invita a cantare con loro. Tira fuori una chitarra e una tastiera a batteria coi tasti che si illuminano quando li suoni. Si esibisce nei pezzi che ha scritto. Inni pop a dio e a gesù, contro satana. Ha una bella voce e ricorda un po’ un Ben Harper haitiano. Noi cantiamo insieme a lui e alla sua famiglia.

Ci viene chiesto di suonare pure noi qualcosa per loro. Sguardo fuori campo. L’unico che sa suonare è il Principe, uomo pieno di risorse. Quindi je partimo col repertorio classico dell’italiano all’estero: Battisti, De Gregori, Paolo Conte e Rino Gaetano. Io e il Cuttica ci esibiamo come duo vocale degno di Amici di mariadefilippi. Unica pecca i testi delle canzoni, mai completi, quindi daje de nananananana, ma gli haitiani sembrano non accorgersene e apprezzano lo sforzo.

La notte torna a calare sulle calde giornate haitiane e noi ci buttiamo di nuovo sul pavimento duro ma antisisma del giardino di Fiammetta. Sognamo fiumi in piena e haitiani che fanno briefing su come salvare l’anima del personale ONU e dei marines.

4 pensieri riguardo “diario da Port au Prince. acqua.

  1. mamma mia, o Famoso, che stai a scrive da Haiti!
    Leggerti non è come stare là, non può essere COME stare là.
    Ma è sentire perfettamente come stai TE, là. Grazie.

    “haitiani che fanno briefing su come salvare l’anima del personale ONU e dei marines”

    Chapeau!

    abbracci forti

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