Come ti giustifico i 200 militi in Val di Susa

Giusto per far capire il livello di malafede dei quotidiani italiani partendo dalla vergognosa Repubblica.
Questo è un estratto dell’inutilmente lungo e prolisso “comunicato” di Davanzo e Sisi, le “nuove BR” (consultabile qui), in cui nella loro prosa criminale poiché noiosa e illegibile, parlano di molte cose, principalmente di lotta di classe, sistema carcerario e forme di lotta, tra queste uno dei temi è la loro “lucida analisi” sul movimento No Tav.
Da notare la malafede sistematica di Repubblica e tutti i disgustosi quotidiani italiani, che con il loro operato giustificano esplicitamente o implicitamente l’intervento del Viminale che spedisce in Val Susa 200 militi a difendere il territorio democraticamente contro le minacce terroristiche paventate dai due BR detenuti.
Lungi da me sostenere acriticamente le tesi dei due suddetti BR (prima di tutto sarebbe necessario dirimere la matassa illegibile ed ideologica in cui sono aggrovigliate le loro idee. Solo per oltraggio alla lingua italiana dovrebbero essere condannati, come nel film di Nanni Moretti, ad ascoltare forzosamente per ore la lettura delle loro stesse produzioni letterarie. Lo so, ciò è molto crudele).
Ciò che sottolineo è il livello infimo della disinformazione asservita e pecoreccia che impera in Italia. Buona lettura.Image

“E con la consapevolezza che la lotta al carcere e alla repressione è contradditoria rispetto all’approfondimento della lotta rivoluzionaria. Perché se questa avanza (pur nelle sue forme attuali più diffuse, quelle dell’area anarcoinsurrezionalista), la risposta dello Stato sarà sempre (ed è già) maggior repressione. Cosa si fa, allora? Ci si ferma? O peggio, si arretra? Per poter ottenere l’attenuazione di condanne e rigidità carcerarie? Non sono domande astruse, provocatorie… basti pensare alla tragica storia di pentitismo e dissociazione degli anni ’80.
Guardiamo bene proprio il caso NO-TAV – con tutta la valenza “antagonista” assunta, e di portata generale – le ultime misure sono drastiche: militarizzazione aggravata con conseguenti minacce penali, e fino a quella (per ora solo agitata) di imputazione terroristico-eversiva. Ci si trova appunto stretti in quel bivio: compiere un altro salto in avanti, politico-organizzativo, assumendone anche le conseguenze, o arretrare. Perciò apprezziamo molto la generale tenuta militante in sede processuale e, particolarmente, l’atto di revoca degli avvocati di alcuni/e compagni/e. Ciò che crea simpatiche consonanze con la nostra dimensione di prigionieri rivoluzionari e dei nostri processi politici. In questi atti e nei processi di rottura in generale, c’è la fondamentale affermazione della contrapposizione di interessi e logiche (di classe) che perciò nega e fa saltare la presunta neutralità e pretesa di “giustizia” dell’istituzione giudiziaria. Riporta il conflitto e il soggetto politico-sociale pienamente anche in quella sede permettendo, paradossalmente, una risonanza sociale nazionale. La risonanza che sempre i processi politici, combattuti apertamente hanno avuto nella storia. Tant’è che ciò viene a pesare eccome, nel rapporto di forza generale-proprio perché quella lotta, quel movimento acquisisce riconoscimento e schieramento favorevole ampio-talvolta limitando pure la carica repressiva. “

Vita (comico grottesca) da giornalista freelance.

appisolarsi sulla BestiaSono giorni che mi fa su e giù nello stomaco questa storia di Francesca Borri e del suo articolo di denuncia, esaltato o vilipeso in giro per il mondo.

Mi ha colpito il fatto che me lo ha sottoposto la mia editor brasiliana, incuriosita dalla mediocrità dei suoi colleghi italiani che con tanta facilità ti propongono compensi così umilianti.

Mi molesta questa polemica soprattutto per quei tanti giornalisti snob che non riescono a evitare commenti pelosi su questa situazione così squallida.

C’è quello che dalla sua redazione milanese o romana, con le sue Hogan ai piedi, la sua camicia colle maniche arrotolate e la borsa di cuoio, fa le pulci alla credibilità della Borri, domandandosi che guerra ci fosse in Bosnia nel 2003. Pure se ci fosse stata la sagra della salsiccia nel dumilaettré in Bosnia, 50 euro so’ sempre pochi.

Oh, poi ce sta quello che invece è giornalista “navigato”. Che ha consumato il culo su sedie con le rotelle, che s’è fatto anni e anni di redazione. Che è GIORNALISTA, manco giornalista, con cognome più o meno noto. Quello stile “paterlanista”, che ti dice “vabbè, che te credevi? questo è il giornalismo, bellezza” (frase che piace da morì ai giornalisti. inspiegabilmente, perché è davvero una frase del cazzo. no. sul serio. lo è.  abbozzate. almeno su questo.)

La variante è quella sul polemico-condiscendente, cerchiobbottista, che non capisci dove cazzo vuole arrivare, che tesi vuole sostenere (e qui la citazione è letterale e co cognomi che pesano, occhio): “Per quanto poco li paghi, si troveranno sempre giornalisti disposti a rischiare la pelle per il pezzo. E gli editori lo sanno.” Quelli che “è sempre stato così e sempre lo sarà”. Bene. E quindi? Qua si fa della tautologia spacciata da commento. Del resto con la tautologia ce se so costruiti imperi. Grazie davvero della profondità. Mo ho capito tutto. Scusa te quanto guadagni? Così. Pe sapè.

Poi ci stanno i colleghi frílènz che giustificano le condizioni umilianti in una sorta di gara masochistica a chi si dà più mazzate sui coglioni per far vedere quante cicatrici c’ha addosso (e qua ce casca un po’ pure la Borri, che non si capisce manco lei che cazzo vole. o no Francè? che cazzo vòi? dimmelo. dai. me lo tengo pe me). Questi sono quelli che ti dicono che la passione, che l’amore per la professione, che se non c’hai le palle sto mestiere non lo fai, che “certo sono tutti così gli editori, ci devi avere la scorza dura”, che so disposti a tutto, alla fin fine, per la loro passione.

Oh, tutte cose vere eh, si badi bene che in questo caso sono cose vere, non ce la fai se non hai passione e tutto quanto. Ma il discorso non può finire lì. Quello che faccio fatica a leggere, oltre le lamentele blande e scomposte, è chi rivendica una situazione di sfruttamento sistematico.

Grossi giornali chiudono i battenti a fronte di una “crisi dell’editoria” che pare non avere fine. A me me scappa sempre un “grazie ar cazzo”. Fanno così schifo la maggior parte dei giornali che mi stupirebbe il contrario.
Se la maggior parte dei contenuti la compila una massa informe di impiegati pagati da fame che fanno un lavoro mediocre in origine credendosi pure stocazzo solo perché sono riusciti a piazzarsi in una merdosa redazione, cominciamo proprio maluccio.
Forse questo lavoro è fatto di altro. Forse si tratta di raccontare storie, una delle poche attività umane, insieme forse al sesso, all’alimentazione, alla cura dei figli, che non passano mai di moda. E che ci saranno sempre.
Ma le storie devono essere ben raccontate, ci deve essere la vita dentro, e lo devo sentire il mondo, deve essere verosimile oltre che vero. Allora ogni burocrate del giornalismo dovrebbe trasformarsi in Kafka per raccontare quel mondo, ma non dovrebbe cercare di fingersi Hemingway stando piantato davanti a un monitor.

Sugli editori squali, beh, fanno il loro mestiere, come sostengono i cerchiobottai, ma non c’è nulla di male nel dire che è un mestiere da stronzi.

Dire a un kapò che vabbè dai si sa che un kapò è un kapò, che je devi dì? Per esempio je poi dì che è n’infame. Certo, è tautologico, sì ma fa bene ricordare all’infame che è un infame. Che fa schifo. Poi magari non lo cambi, là rimane. Ma almeno per qualche secondo ti senti un po’ meglio. E magari quel kapò inizia a chiedersi se anche la sua vita e il suo mestiere potrebbero essere diversi. Magari belli.

Il lavoro di giornalista, in special modo quello di freelance (termine inglese per dire precario, o “colui che se la piglia in culo”) è fatto di tante cose: di passione, di incoscienza, di narcisismo, di coraggio, di ingenuità, di bisogno di sfidarsi, di vincere le proprie paure, ma è un lavoro e come tale va pagato. Non è che se una cosa mi piace farla allora non si deve pagare. Vaglielo a dire a un calciatore, il cui mestiere è giocare a pallone, come faceva da regazzino, mortacci sua (ao detto in amicizia eh), e lo coprono d’oro. Dice, vabbè te piace, nun te pago. Cor cazzo!

Ecco, questo è l’atteggiamento che dovremmo avere. Poi però siamo noi stessi, per primi, ad accettare condizioni umilianti, a farci prendere per il culo, a cedere lucidità alla voglia di avere i nostri 3 secondi di notorietà. E questo ci rende dei mediocri. Ci rende umani. Ma ciò non toglie che siamo sfruttati. E che dobbiamo usare tutte le occasioni possibili per alzare la testa. Siamo quel tipo di sfruttati, di classe subalterna, che ha acquisito la mentalità della classe dominante. Siamo gli schiavi perfetti, che pensano come il padrone.

Beh, forse in uno sprazzo di lucidità potremmo cominciare a dire che siamo stanchi e fare qualcosa per cambiare. Ad esempio fare outing. Dire CHI sono gli editori che non pagano, rendere pubblico il segreto di Pulcinella. Comincio? bene.
Io ho ricevuto offerte di collaborazioni dal colpo di stato in Honduras del 2009 da Radio Rai che mi chiedeva di lavorare per poche centinaia di euro. L’ho fatto. Poi ho scoperto che il signor Radio Rai intendeva dire GRATIS.

Lo stesso dicasi per l’ormai defunto settimanale Carta. Compagni che sbagliano.

Il Riformista (defunto), così come il Fatto Quotidiano (tra coloro che pagano meglio) dallo scenario del terremoto ad Haiti pagavano 50 euro al pezzo. Dice, ma come cazzo te mantenevi pagando 100 euro al giorno un fixer? (domanda di qualche stronzo commentatore della Borri che evidentemente non ha mai alzato il famoso culo dalla famosa sedia) Eh, davo via il culo. Oppure parlavo le lingue, sapevo scrivere in 4 lingue aumentando considerevolmente il mio mercato. Per esempio una radio straniera pagava 120 euro al minuto di collegamento. Per esempio un giornale straniero pagava 200 dollari al pezzo. Per esempio qualche rivista straniera comprava un reportage a 1000 dollari. Allora cominci a capire che è vero che il settore è in crisi in tutto il mondo, ma è vero anche che in Italia fa più cacare che in quasi qualsiasi altro paese. Che come al solito ci distinguiamo per il peggio.

Spero che il mio sfogo da freelance sia seguito da molti altri, ma ne dubito. Concludo con una frase del mio vecchio capo/maestro (che me pagava peggio de tutti e infatti l’ho mollato): fare il giornalista può essere duro, pericoloso, faticoso, frustrante. Ma è sempre meglio che lavorà.

Sparatoria a Palazzo Chigi: le responsabilità degli invertebrati

Governo+Letta+giuramento+-+NonleggerloUn uomo disperato. Non un “pazzo”, come si affrettano a definirlo, denigrandolo, i giornali asserviti. Un uomo disperato come tanti italiani, che non sanno più cosa fare, all’interno delle regole e delle leggi democratiche, per manifestare la disperazione e l’impotenza e la frustrazione di fronte a una classe dirigente sprezzante delle necessità e delle istanze di milioni di cittadini esasperati.

Un uomo disperato come tanti, che si dirige verso il palazzo del potere, con una pistola in mano, cercando di arrivare a qualcuno di quei “politici”, di quegli uomini responsabili, secondo lui e secondo molti milioni di italiani, della rovina di questo Paese.

Prendo a prestito il lucido ragionamento dell’amico Fausto. Il concetto è semplice: l’assunzione di responsabilità e l’assunzione del rischio derivante dalle proprie azioni, dal proprio lavoro, dalla propria impresa.

Qui c’è un uomo che decide, assumendosi le proprie responsabilità e un grande rischio di andare a sparare ai componenti di quello Stato che secondo lui sono alla portata della sua mano armata. Ricorda il personaggio del concept album di Fabrizio De Andrè, “Storia di un impiegato”. Si arma e va a sparare “ai politici”. Sa che è un reato. Si assume la responsabilità di farlo. Come il personaggio del disco di De Andrè, non riesce nel suo intento, ma invece di far esplodere un chiosco di giornali ferisce due carabinieri,  parte inconsapevole e non responsabile di quello Stato che toglie tutti i giorni da decenni ai comuni cittadini tutto quello che è necessario per vivere dignitosamente.

Quest’uomo ha voluto colpire lo Stato e le istituzioni in una giornata particolarmente carica di significato. I carabinieri feriti non sono vittime sacrificali né eroi. Anche loro, scegliendo il loro mestiere hanno messo in conto la possibilità di prendersi una pallottola per difendere lo Stato, hanno deciso di assumersi il rischio del proprio lavoro, a difesa di uno Stato che ultimamente è drammaticamente contro i cittadini. In una sordità da parte di chi quei palazzi li abita, che non somiglia all’inconsapevolezza, ma piuttosto all’arroganza, all’incoscienza.

Come un qualunque cittadino  che si assume tutti i giorni il rischio delle proprie azioni quotidiane, del proprio ruolo, quest’uomo ha deciso.  
Gli unici che continuano a non assumersi le loro responsabilità sono quegli invertebrati, quelle “donne” e quegli “uomini” che siedono all’interno di quei palazzi così irraggiungibili e distanti dai cittadini e che non rispondono mai delle loro azioni. Ora dovranno aumentare le scorte, l’unica reazione a questo segnale, “ammucchiati in discesa, a difesa della loro celebrazione”.

Sono solo loro i veri responsabili di tanta disperazione e forse, prima o poi, pagheranno anche loro per le loro azioni. Forse un giorno anche loro decideranno di assumersi le proprie responsabilità di fronte ai cittadini che dovrebbero rappresentare. Sono loro che hanno sulla coscienza (se hanno una coscienza) le vite e le ferite dei due carabinieri colpiti. Che difendevano questi invertebrati.

Il gesto violento di un uomo disperato non è giustificato. Lui è il primo che si è assunto le responsabilità dei suoi atti. E pagherà. E sa che pagherà.

Invece i suoi obiettivi si arroccano, si difendono, e sfuggono, come sempre, le loro responsabilità.

De Andrè cantava così:

“Imputato ascolta,

noi ti abbiamo ascoltato.
Tu non sapevi di avere una coscienza al fosforo
piantata tra l’aorta e l’intenzione,
noi ti abbiamo osservato
dal primo battere del cuore
fino ai ritmi più brevi
dell’ultima emozione
quando uccidevi,
favorendo il potere
i soci vitalizi del potere
ammucchiati in discesa
a difesa
della loro celebrazione.

E se tu la credevi vendetta
il fosforo di guardia
segnalava la tua urgenza di potere
mentre ti emozionavi nel ruolo più eccitante della legge
quello che non protegge
la parte del boia.

Imputato,
il dito più lungo della tua mano
è il medio
quello della mia
è l’indice,
eppure anche tu hai giudicato.

Hai assolto e hai condannato
al di sopra di me,
ma al di sopra di me,
per quello che hai fatto,
per come lo hai rinnovato
il potere ti è grato.

Ascolta
una volta un giudice come me
giudicò chi gli aveva dettato la legge:
prima cambiarono il giudice
e subito dopo
la legge.

Oggi, un giudice come me,
lo chiede al potere se può giudicare.
Tu sei il potere.
Vuoi essere giudicato?
Vuoi essere assolto o condannato?”

Da qui non si esce

– Forse dovremmo ripensarci.

– Non dire sciocchezze. E poi cosa vuoi ripensare arrivato a questo punto?

– Non so. Mi stanno venendo tanti dubbi.

– Ossignore. Ma sono mesi che stiamo lavorando a questa cosa, non potevi tirarli fuori prima questi dubbi? Guarda Miguel, non mi sembra proprio il momento. Sei fuori tempo massimo. E poi cosa vorresti fare? Continuare a vivere dentro questo incubo? Continuare a illuderti che sia vita la nostra? Le prove sono dappertutto. Questo posto è l’inferno. Dobbiamo andare via. Lo sai.

 

Miguel osserva la Linea con dalla penombra, con determinazione e un improvviso senso di panico. Ha ragione Raúl. Non è proprio il momento di fare la mammoletta.

In lontananza le luci che illuminano la Linea sono bianche e fisse. Spaccano a metà il freddo gelido del deserto.

Tutti pensano che nel deserto faccia sempre caldo. Oddio non è che non ci fa caldo qui, però certe notti di gennaio, col vento che arriva da ovest, dal mare, che taglia l’aria e porta un gelo smisurato, antico, ecco in notti così il deserto si trasforma in un inferno.

Chi l’aveva detta questa cosa che l’inferno non è infuocato ma è un’eternità di freddo inimmaginabile? Miguel non lo ricorda più in che programma l’aveva sentito. Ma adesso lo capisce sotto alla felpa e al cappuccio, sotto a quel cappelletto da baseball che non copre un cazzo. Dentro a quei jeans troppo larghi che gli lasciano risalire su per le gambe dei rivoli di ghiaccio fuso su fino all’inguine e gli fanno raggrinzire l’uccello. “Pare una lumaca, hai visto?” e giù a ridere come matti con Raúl, dopo un bagno di ore nell’acqua brodosa di San Blas, “ti si fa l’uccello raggrinzito come una lumaca”. Adesso uguale. Però è anche la paura. La voglia di tornare indietro.

– Ok, dai lo facciamo. Ora lo facciamo. È stato un momento, così.

– Lo spero bene hermano, che qua se no si fa giorno. Ci becca la migra e sono cazzi nostri.

La migra. L’incubo di ogni migrante. Quelli che ti beccano e ti paralizzano col teaser. Quelli che ti riempiono di mazzate. L’ha già assaggiati Miguel i manganelli della migra. Gli sputi, gli insulti. “Mangiatacos del cazzo. Te la facciamo passare noi la voglia di fare il furbo” gli hanno gridato mentre qualcuno lo riempiva di mazzate. “Siete dei fottuti scarafaggi siete. Ma adesso te la do io una bella raddrizzata. Dov’è adesso la tua vergine di Guadalupe?” questo gli diceva la migra mentre qualcuno gli ammanettava mani e piedi con catene.

Il silenzio avvolge la Linea illuminata di bianco. Non si vede nessuno e le piccole siepi del deserto hanno smesso per un momento di frusciare.

Raúl a pochi metri è concentrato e teso. Miguel nasconde un panico che non riesce proprio a togliersi di dosso. Forse sarebbe meglio rinunciare ma è troppo tardi. È l’occasione della vita. Al di là di quella barriera c’è un mondo diverso. C’è un mondo di opportunità, di felicità, di balocchi. Al di là di quel muro si può tornare a vivere.

Il rischio è molto grande, è vero, e Miguel fino a poco fa era disposto a correrlo con più coraggio di Raúl, ma chissà cosa gli gira in quel cervello matto. Da piccolo una volta una maestra aveva detto ai suoi genitori che aveva un cervello, com’è che era il suo cervello? “Immaturo. Vostro figlio ha un cervello immaturo. Di sicuro non farà molta strada nella vita” aveva detto quella troia della maestra.

E lui invece di strada ne aveva già fatta tanta. A suo modo. Certo però che ogni tanto quel suo cervello gli faceva strani scherzi. Come adesso per esempio.

Raúl si muove leeeeeeentameeeeeente come un bradipo che si arrampica sull’albero. Quello sì che se lo ricorda dove l’ha visto. Il bradipo. Dentro uno speciale su discòvericiannel. O forse su nètgio. Ora proprio non gli viene in mente esattamente dove, perché questa cosa di dover saltare sul muro e buttarsi a pesce dall’altra parte comincia a sembrargli una gran cazzata.

Gli sembra la più grossa cazzata della storia. Probabilmente peggio di quando aveva rubato quei soldi dalla giacca di suo padre, a quattordici anni, per andare a farsi un tatuaggio come i suoi amici tamarri del barrio. Quella Santa Muerte tatuata sull’avambraccio sinistro. Enorme. Faceva paura. I suoi amici del barrio erano così soddisfatti di lui. Non era una mammoletta come pensavano. Strano che suo padre l’avesse preso a cinghiate per ore. Sulle gambe le cinghiate gli avevano fatto uscire le piaghe. Forse perché si era accorto che gli aveva rubato i soldi. Sulla schiena le cinghiate gli avevano fatto uscire il sangue. O forse non gli era piaciuto il tatuaggio. Sulla faccia le cinghiate gli avevano fatto una specie di sorriso sinistro che tuttora giustificava quel soprannome buffo. “El Joker” gli dicevano. Miguel “El Joker” Ramírez. Forse aveva solo bevuto un po’ troppo quel vecchio stronzo di suo padre e aveva voglia di scaricare un po’ la tensione ecco tutto.

Adesso però quella cazzata lì di tanti anni fa sembra una sciocchezza senza importanza. Perché qui si paga con la tortura, e poi dopo la tortura con la vita. Se ti va bene ti ammazzano in fretta. Se no è roba anche di qualche settimana. Qualche settimana di inferno. Quell’inferno di sangue e dolore che prelude al gelo eterno.

 

Raúl è pronto. Gli fa il segnale concordato. Non c’è più tempo per discutere.

Raúl è un’ombra nella notte, un ninja, un fulmine.

Miguel arranca qualche secondo di troppo. Poi si alza e inizia a correre. Il muro gli corre incontro nella sua luce di latte. Miguel non sente più il freddo. Il cappuccio scopre la testa di capelli neri, facendo volare il cappellino dei Padres di San Diego.

Raúl è scomparso dal campo visivo. La notte di ghiaccio è un ricordo. Il presente è correre. Il presente è solo un muro che si fa enorme. Il presente è terra secca sotto i piedi.

Afferrare l’acciaio ghiacciato. Le mani si appiccicano sul metallo per il freddo intenso. Solo due secondi. Sembrano anni. Miguel inizia a scalare il muro. Dall’altro lato la gioia. Dall’altro lato il giardino dell’Eden. Sente da qualche parte ansimare Raúl. Null’altro. Sente il suo cuore impazzire. Sente le dita acchiappare l’acciaio rosso del muro. Pochi metri pochi metri pochi metri. Sembra non finire mai. Lamiere che si usavano in guerra, come piste di atterraggio per gli elicotteri in Iraq, per gli aerei in Afghanistan. Riusate per costruire questo muro. Che separa il nord dal sud. Che lo separa dalla sua nuova vita.

Pochi centimetri pochi centimetri pochi centimetri. Si vede già l’altro lato. Si vede già il mondo nuovo.

 

Il morso lacera la carne. Il morso è una tenaglia. Il morso è una scarica elettrica.

Miguel grida ma non sente la sua voce gridare. Non sente i cani latrare intorno a lui. Miguel vede solo la luce di latte che illumina il muro illuminare il suo viso. Benevola. La luce sorridente.

Miguel cade sulla schiena. Lo schianto al suolo lo tramortisce ma non gli fa perdere i sensi. Tutto diventa distante. I cani che lo annusano, i volti della migra, i fucili spianati, il ghigno delle facce avvolte nei giacconi neri. Parole senza senso lo circondano. Da qui non si esce. E sulla faccia stampato quel sorriso da Joker.

 

Raúl non è con lui. Raúl è riuscito a passare. Raúl è saltato a pesce dall’altro lato. Non si è guardato indietro. Non era previsto.

Raúl ha raggiunto la meta. È riuscito a scappare. A uscire da quel mondo violento, impossibile, da quel controllo assoluto, da quella dittatura mascherata.

Raúl è riuscito a lasciarsi alle spalle quell’orrore. San Diego è ormai alle sue spalle. Gli Stati Uniti sono solo un ricordo. Di fronte a Raúl la calma, la possibilità di una vita. Davanti a Raúl l’amata Tijuana.

Narcolimpiadi 2012

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NARCOLIMPIADI 2012

La delegazione di atleti messicani andrá a fare shopping a Londra. Mentre ciò accade i veri vincitori in Messico si porteranno a casa l’oro, l’argento e il bronzo nelle discipline in cui sono dei veri esperti.

 

LANCIO DELLA TESTA

Una delle prove più popolari delle Narcolimpiadi. Ci sono due modalità: con o senza narcomessaggio.

SCHERMA

Questa disciplina decisamente è proprio demodé. Gli atleti narcolimpici sapranno darle il tocco necessario per attualizzarla e renderla più efficace.

SOLLEVAMENTO 

Una delle gare più importanti, in cui gli atleti fanno mostra di tutto il loro potere, arrivando a “levantar”, sollevare, decine di persone alla volta.

NUOTO DECAPITATO

Pratica popolare in qualsiasi fiume o canale del paese, quest’anno debutta alle Narcolimpiadi come una disciplina in forma.

ESERCIZIO A MANI LIBERE

Vistosa e spettacolare disciplina ginnica. L’unico problema si presenta al momento della premiazione e della collocazione delle medaglie.

Compravendita in Messico

Il ritorno del PRI in Messico: una telenovela scritta col sangue

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E allora tutti a contare. Nel senso dei numeri, ma anche di contare qualcosa.

Credo che sia questo il dato più interessante di un’elezione messicana la cui sceneggiatura squallida e noiosa era lì sul tavolo da mesi. Forse da anni.

Un candidato costruito pezzo per pezzo, volto da telenovela, voce da telenovela (che in modo inquietante somiglia spaventosamente a quella di Silvio Berlusconi), sorriso da telenovela, vita da telenovela con tanto di moglie attrice di telenovelas. Enrique Peña Nieto era l’uomo perfetto. Oggettivamente un po’ “lento”, mostruosamente ignorante e disposto a qualsiasi cosa. Belloccio, con un ciuffo che lo ha reso famoso dal primo minuto (davvero invidiabile il ciuffo).

Pompato da anni dalla catena televisiva di lingua spagnola più grande del mondo, Televisa (quella delle telenovelas), e messo alla prova al governo dell’Estado de México, lo Stato che circonda Città del Messico, conservatore, sovraffollato, coi suoi 16 milioni di abitanti. Lui ha dato prova di essere il candidato giusto. Ha seguito le direttive del partito, il PRI, quello che per 71 anni ha governato il paese con il suo nome ossimorico (Partido Revolucionario Institucional) e una struttura corporativa di corruzione, clientelismo, e repressione del dissenso.

C’è stata una pausa di 12 anni, dal 2000 a oggi, in cui gli ultracattolici del PAN hanno pensato di far credere a tutti che loro rappresentassero un’alternanza democratica. Gli ultimi sei anni hanno dimostrato che i panisti sono capaci anche loro di essere corrotti, legati al narco, repressori, corporativi e antidemocratici. E la prova che il presidente Felipe Calderón ha saputo dare di questo sono i più di 60mila morti ammazzati e quasi 20mila desaparecidos, bilancio di un sexenio di guerra, in un paese militarizzato e lontano anni luce dal concetto stesso di democrazia.

Sentendo il Consejero Presidente dell’Istituto Federale Elettorale (IFE), Leonardo Valdés, al termine della giornata elettorale del primo luglio, sostenere candidamente che “Il Messico ha avuto una giornata elettorale esemplare, partecipativa, pacifica e realmente eccezionale. Oggi viviamo la democrazia con assoluta normalità e tranquillità” mi sono venuti alla mente per qualche secondo i fiordi norvegesi, o le calme acque di un lago canadese. Il Messico come la Svezia, maturo e forte dei valori democratici che finalmente sono normali e condivisi. Il rispetto degli altri, la convivenza civile e la lotta per il bene comune.

Ce so’ cascato. Davvero. Mi ha preso alla sprovvista. Poi mi sono ricordato invece cosa era successo in questi giorni in Messico.

È successo che venerdì, nel pacifico e democratico Stato di Tamaulipas, uno dei tanti controllati dagli Zetas, un’autobomba è esplosa a Nuevo Laredo presso il palazzo di governo, e sono state lanciate due granate a Ciudad Victoria, una su una caserma di polizia, l’altra a una stazione degli autobus. Siccome non ci sono state vittime, il martedì successivo l’autobomba l’hanno fatta esplodere sotto la Secretaría de Seguridad Pública, e finalmente sono morte due persone: due poliziotti. Questo per antipasto.

Con in mente sempre i fiordi, ricordo le migliaia di denunce per aggressione in tutto il Messico. Persone aggredite, malmenate e “portate via” da agenti senza nome, perché facevano foto in giro, documentavano. E che diamine documentavano questi balordi? La compravendita dei voti. Milioni di voti comprati da parte del PRI. In tutti i modi, alla luce del sole, a tappeto.

C’è chi compra voti con sacchi di cemento, con derrate alimentari, con banconote da 500 pesos (pari a euro 30).

La tecnica più diffusa, a parte il cash, è quella della tessera del supermercato. Milioni di tessere del supermercato caricate con 500 o 700 pesos, da spendere a voto avvenuto (e documentato) nei supermercati del gruppo Soriana di tutto il paese. C’è poi chi, come alcuni estremamente indigenti, si è accontentato di un ombrello o di una tazza griffati, con il faccione di Enrique Peña Nieto.

Quelli che documentavano queste cose sono stati pestati, arrestati, intimiditi, minacciati, e alcuni fatti sparire. Sempre in un contesto pacifico e democratico.

Allora si dirà, beh dai da che mondo è mondo si sono comprati i voti. Pure da noi in Italia se ti ricordi bene, dirà sempre qualcuno, già nel ’52 il buon vecchio fascista di Achille Lauro comprava i voti per diventare sindaco di Napoli regalando la scarpa sinistra prima del voto e la scarpa destra solo a voto avvenuto.

È vero, e infatti nemmeno in Italia ci stanno i famosi fiordi. E le analogie tra politica Priista e democristiana sono fin troppe.

Dopo le dichiarazioni dell’IFE, che avrebbe dovuto fare da arbitro nel processo elettorale, mentre è stato uno degli attori determinanti nella riuscita del diabolico piano del PRI, si è affacciato a reti unificate un altro campione di democrazia, il presidente Felipe Calderón.

Costui, con un sorriso di vera gioia ha annunciato immediatamente la vittoria di Peña Nieto, facendo affidamento alle sole proiezioni di voto, passando di fatto il testimone, divenuto per lui un pesante fardello, dato che sarà ricordato (se sarà ricordato) come il presidente dei 70mila morti.

Lo show mediatico istituzionale è cominciato. Tutti a applaudire i mezzi di comunicazione internazionali e le istituzioni a cui non pare vero di avere un nuovo miniBerlusconi in America latina.

Dietro Peña Nieto tutti sanno che si nasconde Carlos Salinas de Gortari, conosciuto anche come El Chupacabras. È quello che quando era presidente per deviare l’attenzione dalle porcate che stava facendo si inventò che c’era un mostro, il chupacabras appunto, mezzo vampiro, che succhiava il sangue alle capre ammazzandole. Genio del male. È lui il vero artefice e burattinaio, è quello che ha spinto per firmare il Trattato di Libero commercio del 1994, che ha portato il Messico nel disastro finanziario, quello che ha “creato”, attraverso il suo sodalizio decennale, la monumentale ricchezza dell’uomo più ricco del mondo, Carlos Slim, e che è stato eletto con i milioni del narcotraffico, rubando anche lui un’elezione nel 1988 a Cuauhtemoc Cárdenas.

E adesso tutti a contare dicevo. È quello che pretende Andrés Manuel López Obrador, il candidato della coalizione di sinistra. Anzi “di sinistra”, perché dirlo senza virgolette sarebbe dare informazioni fuorvianti.

Si deve contare, voto per voto, seggio per seggio, come prevede la Costituzione. Ed è a quella che López Obrador si appella per portare avanti una protesta pacifica, di legalità. Ma fuori sa di avere l’appoggio di milioni di messicani incazzati neri, e un movimento, #YoSoy132, che non dipende da lui e che è molto agguerrito e attivo. E che ripudia Peña Nieto.

Quelli del #YoSoy132 avevano iniziato due mesi fa come un movimento di protesta universitaria. Un gruppo di ragazzi ricchi dell’università gesuita Iberoamericana, e sono diventati un movimento civico ampio, che comprende studenti, lavoratori, contadini, che ha incorporato il movimento di Atenco. Ah, Atenco, ecco, mancava Atenco. È un posto piccolo, nell’Estado de México. Nel 2006 proprio Peña Nieto, da governatore ha fatto la sua carneficina, la sua prova del fuoco. Il saldo è incoraggiante per un futuro presidente messicano (oddio avrebbe potuto fare di meglio, ma date le sue doti scarse è un buon risultato). Allora il saldo: due morti ammazzati a botte dalla polizia. 47 donne violentate e torturate (sempre dalla polizia). Più di 200 arresti, ovviamente torturati e massacrati di botte in carcere con danni permanenti. Un’operazione che ha coinvolto circa 3500 agenti di polizia contro circa 300 manifestanti.

Con questo popò di curriculum e un ciuffo affabulatore Peña Nieto si appresta a occupare con le sue truppe la presidenza del Messico. Un Messico schiacciato da una violenza senza precedenti, annichilito dal terrore di stato e dal terrore del narco, che spesso si aiutano a vicenda, quando non sono la stessa cosa, e drogato da un duopolio televisivo (Televisa più TVAzteca controllano il 98% della TV messicana)che per anni ha costruito la candidatura di questo ragazzo dell’Opus Dei.

Allora in questo paradiso democratico, ordinato e tranquillo, stiamo a vedere cosa succederà nelle prossime settimane, aspettando il peggio, che pensavamo di avere già visto. Tra un’autobomba e un mucchio di corpi decapitati, tra un rapimento e una margarita. E se come dicono tutti questo paese vive già una democrazia normale, per quale cazzo di motivo è pieno di soldati dappertutto che ti puntano i fucili in faccia? Perché non puoi viaggiare da un posto all’altro in macchina senza rischiare la vita? Perché se fai il giornalista è peggio stare qui che sotto le bombe in Iraq? Perché se cammini per le strade di Veracruz è più facile trovare una testa umana mozzata per strada che una moneta da 10 pesos?

Perché se tua madre non sa nulla di te per qualche ora è più facile che ti abbiano portato via, ammazzato, sotterrato in una fossa clandestina, e fatto sparire per sempre, piuttosto che ti sia dimenticato il cellulare in ufficio? Perché se sei una donna e vivi a Ciudad Juárez, o in qualsiasi posto nell’Estado de México hai più probabilità di essere stuprata, torturata e poi uccisa a botte piuttosto che vedere 5 macchine rosse nella stessa giornata?

Forse è perché in Messico, in verità, i fiordi, proprio non ci sono.

Loop n. 18

(looponline.info)

Lo show elettorale messicano

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Lo show post elettorale è cominciato. In un Messico che si risveglia dopo una giornata elettorale estenuante, con un presunto presidente eletto.

Tutti i più grandi media messicani e alcuni internazionali concordano sul risultato e confermano le previsioni che dopo mesi di bombardamento mediatico sono considerate realtà: Enrique Peña Nieto presidente.

Il conteggio non è ancora terminato, anzi, ci vorranno alcuni giorni, il candidato della coalizione di sinistra, Andrés Manuel López Obrador (AMLO), domenica sera si è espresso in un discorso breve, in cui sostiene di avere a sua disposizione altri dati rispetto a quelli sbandierati fin troppo da tutti gli altri contendenti, e che attenderà il conteggio dell’ultimo voto.

Il presidente uscente, Felipe Calderón, del Partido de Acción Nacional (PAN, partito di destra ultracattolico) nel suo discorso a reti unificate ha data per conclusa l’elezione, passando lo scettro al successore del PRI. Per molti analisti con un po’ troppa gioia.

La confusione regna sovrana. Peña Nieto e Calderón si affannano a sostenere che l’elezione si è svolta in un clima “pacifico”, “tranquillo” e “democratico”. Almeno su questo i fatti li smentiscono. Soltanto domenica sono stati assassinati tre coordinatori del PRD, il partito di AMLO, in tre stati diversi, Nuevo León, Guerrero e Guanajuato. A Nuevo Laredo, nello stato di Tamaulipas, considerato un feudo del cartel degli Zetas, è esplosa un’autobomba venerdì di fronte al palazzo di governo, e sempre venerdì nello stesso Stato, a Ciudad Victoria, sono state lanciate delle granate contro una caserma della polizia e contro una stazione degli autobus.

In tutto il paese sono stati documentate da parte di migliaia di osservatori, che in molti casi hanno filmato le violazioni, intimidazioni da parte di persone armate, centinaia furti di urne elettorali. La compravendita massiccia di voti da parte del PRI è avvenuta alla luce del sole in tutto il Messico, con denaro cash, di provenienza dubbia. Alcuni analisti considerano proprio questa una testimonianza della partecipazione del narco nell’elezione di Peña Nieto: l’enorme quantità di denaro speso per impedire che si svolgessero elezioni democratiche.

E a prescindere dal risultato definitivo in Messico si sono portate a termine una quantità di irregolarità e violazioni spaventose, sotto gli occhi silenti dell’istituzione che avrebbe dovuto fare da arbitro, l’Instituto Federal Electoral (IFE), che già nel 2006 si è caratterizzato per quella che da molti oggi definiscono una frode elettorale che ha portato al governo lo stesso Felipe Calderón.

Da anni il duopolio televisivo (Televisa e TV Azteca) ha sostenuto e costruito la candidatura di Enrique Peña Nieto, il candidato “da telenovela”, operando una massiccia intrusione mediatica in un paese in cui l’80% l’opinione pubblica si informa solo attraverso la televisione.

Ma l’ombra del narco è onnipresente ed è difficile pronosticare i futuri scenari. Secondo il professor Sergio Aguayo, accademico del Colegio de México e uno dei più influenti intellettuali messicani, “Con l’elezione di Peña Nieto non si risolverà positivamente il problema del Narco. La relazione tra Stato e criminalità organizzata è una delle sfide più grandi del Paese. Per risolvere questo problema il nuovo presidente dovrebbe affrontare seriamente il tema della corruzione della classe politica, ma come fa, quando il suo partito, il PRI, proprio negli stati in cui il narco la fa da padrone, governa da anni, con governatori legati a doppio filo con i capi più potenti?”

La vittoria di Peña Nieto garantisce anche continuità con la strategia degli Stati Uniti nella “lotta alla droga”, che si esprime da anni nell’iniziativa Mérida, e che presuppone la militarizzazione del Messico, portata a termine da Calderón nei sei anni appena trascorsi, che oltre a non aver diminuito il traffico di droga e di armi (che è invece aumentato), ha prodotto quasi 70mila morti e più di 10mila desaparecidos. Nonostante le gravi irregolarità il presidente Obama ha già chiamato Peña Nieto, congratulandosi con lui e dichiarando che le elezioni si sono svolte in modo trasparente.

Unica nota positiva di questo processo elettorale, marcato da continue violazioni a qualsiasi principio democratico, è il risveglio della società civile. In questo 2012 c’è stato un reclamo democratico più profondo e più radicale da parte di tanti movimenti, a cominciare da quello degli studenti #YoSoy132. Le reti sociali hanno rappresentato un cambiamento strutturale irreversibile ed è incoraggiante vedere l’aumento della partecipazione dei cittadini in tutte le fasi della vita democratica.

Se il ritorno all’autoritarismo, alla violenza e alla corruzione del PRI sono imminenti, il popolo messicano si sta dotando di armi democratiche che promettono di invertire la tendenza. Forse.

Nel frattempo il candidato da telenovela e la sua truppa di Televisa cominciano a prepararsi per tornare al potere.

il Fatto Quotidiano, 3 luglio 2012

 

diario da New York. Occupy Wall Street

E insomma decido che visto che è dietro l’angolo posso pure farci un salto. Mi dico che tanto sto sempre appresso a poracci, senzaddio, diseredati e morti de fame, che me po’ fa pe na volta famme un giro nel cuore dell’impero. Andare a respirare l’aria puzzolente di New York? Pe na volta fare l’italiano medio, quello che va colla cartina nella metro (puzzolente anch’essa) e si ferma imbambolato ad ascoltare un trio di negri che suonano il blues (lo so non si dice negri, soprattutto qua nell’America che è proprio brutto, ma dire afroamericani mi fa tanto ridere, vabbè dai, un trio di afroamericani e non ci pensiamo più). E dunque giungo in questa famosa grande mela che tutti accoglie e che “se non vieni qui per diventare ricco sfondato o avere successo sei nel posto sbagliato”. Un sole quasi estivo accompagna gli slogan degli occupanti. Ora vorrei spendere qualche parola sugli occupanti. Sono diversi e variegati i sentimenti che affollano il mio cuore vedendo Wall Street occupata, sentendo gli slogan, i tamburi, le risate.

All’inizio è astio. È verità. Negli anni come direbbe qualche amico mio, mi sono imborghesito, e quindi la prima zaffata de fricchettume mi investe trasportata dal suono ritmato di bonghi africani suonati (veramente, non è voluto, ma è verità, davvero, senza malizia e senza i soliti cliché) da afroamericani. Mi ritorni in mente, adolescenza spesa al mamiani, dove i bonghi e le manifestazioni erano attività didattiche e dove si aveva l’abitudine di parlare, anche a sproposito, ma anche no, dei destini del mondo. Ecco pare che questi quattro frikkabbestia giunti dai luoghi più remoti della federazione, scoprano solo ora che il re è nudo. Ti parlano con l’enfasi tipica di chi ha appena scoperto il proprio pene e ha deciso finalmente di usarlo. Ti spiegano, a te avventore, che questo sistema non è più sostenibile (ma pensa), che il pianeta ha esaurito le sue risorse (oddio, ma davero me stai a dì?), che Wall Street (qualsiasi cosa ciò voglia dire), ha preso per il collo gli americani, e QUINDI che è ora che il mondo si dia una mossa.

Ora, non voglio sembrare uno snob, ma perché se un americano capisce qualcosa che chiunque altro al mondo sia abituato a pigliarlo in culo da generazioni sa da prima ancora di essere un embrione, allora, in quel preciso istante, questo qualcosa, questa epifania, diventa non solo importante, ma rende coglioni anche gli altri che fino a quel momento all’americano quelle stesse cose glie le avevano ripetute fino allo sfinimento ma lui era troppo impegnato a disintegrare vite e economie? la frase è contorta? troppo lunga?

Bene. Ma porcaccia la miseria, ma da quanti anni è che diciamo tutte queste cose? E perché nessuno di questi giovini americani e belli e simpatici e pieni di vita ha mai alzato il culo, ha puntato il suo aIpad, la sua macchina fotograficacazzutissima, il suo piccì verso queste istanze, invece di stare a grattarsi le palle nell’america libera e bella?

Mi dicono perché non gli era mai arrivata l’acqua al culo e invece mo sì. E quindi mo capisce (capisce?) che fuori il mondo è nammerda, e pure dentro non è che sia così da paura. E vuole spezzare le regole e i gioghi, ma a Zuccotti park si porta la scopa e la paletta perché “non possiamo lasciare sporco”. E magari la tua rivoluzione è proprio questa fratello ammericano. La tua rivoluzione è parlare di cose che riguardano tutti. Scambiare idee. Suonare a squarciagola in una piazza che è pure tua e non solo degli azionisti di JPMorgan. Forse il gesto più rivoluzionario che riesci a pensare è aprirti al mondo. Non credere che esisti solo tu.

O forse c’è poco di rivoluzionario anche in tutto questo e io sono più imborghesito di quanto credessi.

Ci devo pensare. Ora però è tardi. Ci sarà altro da dire. Nel frattempo “Tell me what democracy looks like! This is what democracy looks like!”

diario da Città del Messico. ecco qua i MataZetas